di
Sergio Climinti
1927
– II
IL
COLORE VENUTO DALLO SPAZIO
(THE
COLOUR OUT OF SPACE,
marzo)
“A
occidente di Arkham le colline s’innalzano ripide, con valli e
boschi profondi che non hanno mai conosciuto la scure. Vi sono
macchie strette e buie dove gli alberi hanno bizzarre inclinazioni e
sottili ruscelli non hanno mai visto la luce del sole. Sui pendii più
dolci sorgono antiche fattorie di pietra e tozze casette coperte di
muschio che meditano in eterno sugli antichi segreti del New England,
al riparo di grandi costoni di roccia; ma ormai sono tutte
abbandonate: i grandi comignoli si sgretolano e le pareti ricoperte
di scandole si gonfiano pericolosamente sotto i tetti bassi a doppio
spiovente.
La
gente che ci abitava è andata via, e ai forestieri quei posti non
piacciono: ci hanno provato i franco-canadesi, gli italiani e i
polacchi, ma come sono venuti così se ne sono andati. Il motivo non
è qualcosa che si veda, si senta o che si possa toccare, ma anzi,
qualcosa che si immagina soltanto. È
una regione che non fa bene all’immaginazione, e di notte non
procura sonni tranquilli. Dev’essere questo che tiene alla larga i
forestieri, perché con loro il vecchio Ammi Pierce non ha mai aperto
bocca su ciò che ricorda dei giorni terribili. Ammi, che da qualche
anno non ha la testa del tutto a posto, è l’unico che ancora
rimanga laggiù o che osi parlare di quei giorni, e se si azzarda a
tanto è perché la sua casa è molto vicina ai campi aperti e alle
strade trafficate intorno ad Arkham.
Una
volta c’era una strada che attraversava le valli e le colline in
linea retta fino alla landa maledetta, ma la gente ha smesso di
usarla, allora hanno aperto una nuova strada che gira intorno alla
landa e piega molto più a sud. Le tracce della vecchia via si notano
ancora tra la vegetazione selvatica che riprende il sopravvento, e
qualcuna resterà anche dopo che metà delle valli saranno inondate
dalle acque del nuovo bacino. Allora i boschi oscuri verranno
abbattuti, e la landa devastata dormirà sotto acque azzurre la cui
superficie specchierà il cielo increspandosi alla luce del sole. E i
segreti di quei terribili giorni saranno tutt’uno con i segreti
dell’abisso, tutt’uno con la sapienza occulta del vecchio oceano
e con i misteri della terra primordiale.
Quando
m’inoltrai tra valli e colline per ispezionare il nuovo bacino
idrico, mi dissero che la regione era maledetta. Me lo dissero ad
Arkham, e poiché è un’antica città ricca di leggende sulle
streghe, pensai che il male a cui alludevano fosse uno degli
spauracchi con cui le nonne avevano atterrito i bambini per secoli.
Il nome ‘landa maledetta’ mi sembrò strano e teatrale, e mi
chiesi come fosse entrato nel folklore di quelle genti puritane.”
Un
tecnico arriva da Boston per fare alcuni sopralluoghi in una vallata
che dovrà essere inondata dall’acqua a causa della costruzione di
una nuova diga. La sua impressione è quella di un territorio
devastato da un incendio, infatti non è presente alcuna traccia di
vegetazione per ben due ettari di terreno, coperto solo di polvere
grigia che neanche il vento è riuscito a disperdere.
Tornato
ad Arkham chiede informazioni agli anziani del posto e scopre che
tutto risale agli anni ottanta del secolo precedente, quando una
famiglia della zona era scomparsa misteriosamente. C’è qualcuno,
però, che sembra saperne di più, il bizzarro Ammi Pierce. La
mattina dopo il tecnico si presenta alla sua cadente abitazione con
la scusa di fargli delle domande sulla zona per via del lavoro che
deve svolgere. Il vecchio dalla barba bianca e dagli occhi socchiusi
indossa dei vestiti bisunti che lo fanno apparire scarno e povero, ma
non appena comincia a parlare si dimostra più lucido e istruito di
quanto non appaia.
“Ammi
non era come gli altri contadini che avevo incontrato nella zona del
futuro bacino: non protestò minimamente per i chilometri di boschi
di terra di pastura che stavamo per inondare, anche se forse
l’avrebbe fatto se la sua casa si fosse trovata nei limiti del lago
artificiale. Al contrario, mostrò sollievo per il destino che
attendeva le antiche valli oscure in cui aveva vagato tutta la vita.
Era meglio che si trovassero sott’acqua: meglio, sì, dopo i giorni
terribili. Dopo questo esordio la voce rauca di Ammi Pierce si
abbassò, mentre il corpo si protendeva verso di me e l’indice
della mano destra indicava qualcosa nell’aria, vibrando in modo
impressionante.”
Il
vecchio comincia a raccontare la storia di quei terribili giorni e,
quando conclude, l’uomo si affretta a tornare al suo albergo prima
del tramonto.
“Tutto
cominciò, disse il vecchio Ammi, con il meteorite. Prima di allora
la regione non aveva conosciuto altre leggende che quelle ricamate
intorno ai processi per stregoneria, e anche allora i boschi
occidentali di quella parte dello Stato non avevano goduto di una
fama paragonabile alle isolette nel corso del fiume Miskatonic, dove
il diavolo teneva corte davanti a un bizzarro altare di pietra più
antico degli indiani. Non erano, insomma, boschi infestati, e fino ai
giorni del meteorite i loro suggestivi crepuscoli non furono mai
ritenuti spaventosi. Poi, un giorno a mezzogiorno in cielo si era
addensata una nuvola bianca, nell’aria era risuonata una serie di
scoppi e dalla valle in mezzo al bosco si era levata una colonna di
fumo. Entro sera tutta Arkham aveva saputo del grande sasso piovuto
dal cielo che si era conficcato nel terreno adiacente al pozzo della
fattoria di Nahum Gardner. Quella era la casa che sorgeva dove ora si
stende la landa maledetta: la bella, bianca casetta di Nahum Gardner
in mezzo ai suoi fertili giardini e frutteti.”
Il
fattore voleva avvertire della caduta del meteorite la gente in città
e lungo la strada si era fermato a casa di Ammi e di sua moglie. Poi
la coppia, il mattino dopo, aveva accompagnato sul luogo i tre
professori della Miskatonic University arrivati per esaminare la
roccia spaziale.
Nahum
aveva detto che era grande, ma poi riferì agli studiosi che si era
rimpicciolita e che di notte emanava un debole bagliore. Era caduta
nei pressi del pozzo, dove i professori cominciarono a testarlo con
un martello da geologo e si resero conto che era stranamente morbido.
Ne presero un campione da studiare meglio all’università e lo
misero in un secchio per trasportarlo. Sulla via del ritorno si
fermarono a casa dei Pierce per riposare e la moglie di Ammi fece
loro notare che il frammento rimpiccioliva a stava bruciando il fondo
del secchio.
Il
giorno dopo gli scienziati tornarono in preda a una grande
eccitazione. Ad Ammi raccontarono che quando avevano messo il
campione in un contenitore di vetro, poco dopo era scomparso. Poi era
scomparso anche il recipiente. Avevano però fatto in tempo a
sottoporlo ad alcuni test e la cosa più sorprendente era che, oltre
a non raffreddarsi, scaldato
davanti a uno spettroscopio,
aveva
rivelato una serie di bande luminose diverse da qualsiasi colore
dello spettro normale.
Tornati
nei pressi del pozzo constatarono che le dimensioni del meteorite si
erano ulteriormente ridotte e decisero di estrarne un altro
frammento.
“Stavolta
lo intaccarono profondamente, e nell’asportare la massa prelevata
si accorsero che il nucleo dell’oggetto non era affatto omogeneo.
Avevano scoperto ciò sembrava il fianco di un globulo colorato,
incassato profondamente nella materia esterna. Il colore, che
somigliava ad alcune bande dello straordinario spettro della meteora,
era quasi impossibile a descriversi, e solo per analogia gli studiosi
lo definirono tale. Era fatto di una sostanza lucida che, percossa,
faceva pensare a una certa fragilità e a un’eventuale concavità.
Uno degli scienziati gli assestò un colpetto col martello e il globo
scoppiò con un piccolo schiocco nervoso. Non ne uscì niente, e ogni
traccia del rivestimento lucido scomparve dopo la martellata: al suo
posto rimase uno spazio sferico e cavo del diametro di circa sette
centimetri, e tutti pensarono che, a patto di frantumare il guscio
esterno, ne sarebbero stati scoperti altri. Ma era inutile fare
congetture, e dopo un vano tentativo di trovare altri globuli
perforando il meteorite, i ricercatori se ne andarono ancora una
volta con l’esemplare che avevano asportato, il quale si rivelò,
in laboratorio, altrettanto enigmatico del suo predecessore.”
Quando
il giorno successivo gli scienziati tornarono ancora una volta alla
fattoria di Nahum, quest’ultimo gli raccontò che durante la notte
c’era stato un forte temporale e che i fulmini sembravano attirati
dalla pietra, tanto da averne visti ben sei colpire il pozzo. Il
meteorite, invece, era scomparso del tutto e al suo posto era rimasta
solo una voragine irregolare, probabilmente causata dalla caduta
delle folgori sul terreno.
La
stampa locale, assieme a qualche giornale di Boston, si occupò della
vicenda e per un po’ di tempo Nahum Gardner, sua moglie e i loro
tre figli vissero alcuni momenti di notorietà. Poi il tempo passò,
arrivò l’estate e la terra cominciò a dare i frutti del lavoro
dell’attività agricola della famiglia Gardner. I loro prodotti
avevano un aspetto magnifico ed erano di una tale abbondanza che
dovettero ordinare altri barili per poterli raccogliere tutti.
Peccato però che il loro sapore aveva un gusto amaro e disgustoso:
tutto il raccolto era perduto. Il meteorite aveva avvelenato la
terra, ma fortunatamente i Gardner possedevano anche altri terreni.
Durante l’inverno la famiglia cominciò a non frequentare più la
chiesa ed evitò i raduni degli altri contadini. Nahum confessò
all’amico Ammi che sulla neve aveva trovato le solite tracce di
scoiattoli, conigli e volpi ma lasciò intendere che stavolta c’era
qualcosa di anomalo in quelle orme. A febbraio i ragazzi McGregor
scesero da Meadow Hill per andare a caccia di merli, non lontano
dalla fattoria Gardner, ma quando abbatterono il primo esemplare si
affrettarono a lasciarlo sul terreno, spaventati dal suo aspetto.
Attorno alla fattoria cominciarono a fiorire racconti sensazionali, i
quali però non furono mai presi in considerazione dagli scienziati
della Miskatonic University, che li giudicarono come semplice
superstizione.
“Intorno
alla fattoria di Nahum gli alberi fiorirono prematuramente e di notte
si agitavano al vento minaccioso. Il secondo figlio di Nahum,
Thaddeus, un ragazzo di quindici anni, giurò che si agitassero anche
quando non c’era vento, ma questo neppure le superstizioni locali
potevano accettarlo. Era certo, però, che nell’aria ci fosse una
certa inquietudine; l’intera famiglia Gardner prese l’abitudine
di aguzzare le orecchie, benché non lo facessero per catturare un
suono specifico. Anzi, quel drizzare le antenne avveniva in momenti
in cui la coscienza sembrava ritirarsi. Disgraziatamente i momenti
del genere si moltiplicarono di settimana in settimana, finché la
gente del circondario cominciò a dire che ‘nella famiglia di Nahum
c’era qualcosa che non andava’.”
Quando
fiorirono le sassifraghe, mostrarono un colore mai visto prima. Il
capofamiglia ne raccolse alcune e le portò al direttore del giornale
di Arkham, ma costui si limitò a farne un pezzo umoristico che
metteva alla berlina le paure dei contadini.
Ad
aprile la gente del posto cominciò a non usare più la strada che
passava accanto alla fattoria, fino ad abbandonarla del tutto; poi
con l’arrivo della primavera la vegetazione assunse caratteri
bizzarri e colori straordinari. Fiori, alberi, foglie, erba, radici,
nessuna di queste aveva più il consueto colore e acquisì un aspetto
minaccioso e inquietante. Tutta la vegetazione ricordava quello
strano colore che si era visto nel globo trovato all’interno del
meteorite.
A
maggio arrivarono gli insetti, anche loro non erano normali, e il
latte munto prese un sapore acido. Nahum allora decise di pascolare
le vacche sulla collina, lontano dalla casa, e allo stesso modo arò
e seminò il campo di quattro ettari sopraelevato. La famiglia
Gardner si trovò isolata dagli altri compaesani e solo i ragazzi,
per obblighi scolastici, sopportarono meglio questa situazione, anche
se furono oggetto di vari pettegolezzi da parte degli altri alunni.
Le cose peggiorarono quando terminò la scuola e ben presto si
diffuse la notizia della follia della signora Gardner, di cui nessuno
si meravigliò.
“Accadde
in giugno, nel periodo dell’anniversario della caduta del
meteorite, quando la povera donna cominciò a urlare che nell’aria
si vedevano cose che non riusciva a descrivere. Nei suoi
vaneggiamenti non c’era un solo sostantivo, ma solo verbi e
pronomi. C’erano cose che si muovevano, cambiavano, fluttuavano e
le orecchie pizzicavano per impulsi che non erano completamente
suoni. Qualcosa le era stato portato via, o forse la stava
prosciugando, qualcosa che non avrebbe dovuto esistere la teneva
stretta nella sua morsa, qualcosa che qualcuno avrebbe dovuto tenere
lontana. Niente era immobile di notte, i muri e le finestre si
spostavano in ogni direzione. Nahum non fece rinchiudere la moglie
nel manicomio della contea, ma decise che fino a quando fosse stata
innocua per sé e per gli altri l’avrebbe lasciata vagare per la
casa.
Non
fece nulla neanche quando l’espressione della signora cambiò e
solo quando i ragazzi cominciarono ad averne paura, e Thaddeus per
poco non svenne alle smorfie che gli faceva, decise di confinarla in
soffitta. Entro il mese di luglio la donna aveva smesso di parlare e
camminava a quattro zampe, e prima della fine del mese a Nahum venne
la folle idea che nel buio fosse lievemente luminosa, proprio come la
vegetazione che circondava la casa.”
Nel
frattempo, appena i cavalli ne ebbero l’occasione, fuggirono via
dalla stalla e il capofamiglia impiegò una settimana per
rintracciarli tutti e quattro. Purtroppo però, erano ormai
indomabili, perché qualcosa nel loro sistema nervoso aveva ceduto,
così fu costretto ad abbatterli. Si fece prestare un cavallo da Ammi
per trasportare il fieno, ma quest’ultimo non ne voleva sapere di
avvicinarsi al granaio, così furono costretti a trascinare il carro
a mano fino al fienile, per poterlo caricare.
Contemporaneamente,
la vegetazione cominciò a diventare grigia e infine friabile, così
come i frutti. Anche gli insetti dagli strani corpi rigonfi morirono
durante quel periodo e a settembre, quando la scuola riaprì, i
ragazzi non ci andarono.
Durante
una delle sue rare visite, Ammi si rese conto che l’acqua del pozzo
non era più buona e consigliò all’amico di scavarne un altro
sulla collina, fino a quando il terreno non fosse tornato normale.
“Nahum,
tuttavia, ignorò il consiglio, perché ormai si era abituato alle
cose più strane e sgradevoli. Tanto lui che i ragazzi continuarono a
usare il pozzo avvelenato, bevendone l’acqua con la stessa
incuranza e meccanicità con cui consumavano i pasti frugali e mal
cucinati, e svolgevano i loro compiti monotoni e ingrati in lunghe
giornate senza scopo. Nella famiglia si era insinuata una forma di
stolida rassegnazione, come se si muovessero in un altro mondo e
procedessero, fra due file di guardiani senza nome, verso un triste e
inevitabile destino.
Thaddeus
impazzì a settembre dopo una visita al pozzo. Ci era andato con il
secchio ed era tornato a mani vuote, urlando e agitando le braccia, e
abbandonandosi ogni tanto a un lamento farneticante sui «colori che
si muovevano laggiù». Due folli nella stessa famiglia sono una
tragedia, ma Nahum l’affrontò con coraggio. Lasciò libero il
ragazzo per una settimana, finché cominciò a inciampare sempre più
spesso e a farsi male; allora il padre lo rinchiuse in una stanza
della soffitta di fronte a quella in cui teneva la madre, separata
soltanto da un corridoio. Il modo in cui madre e figlio urlavano
l’una all’altro, dietro le porte chiuse, si rivelò terribile
soprattutto per il piccolo Merwin, che immaginava di sentirli parlare
in un linguaggio non di questo mondo. Merwin aveva cominciato a
sviluppare un’immaginazione spaventosa, e la sua inquietudine
peggiorò dopo la follia del fratello, che era stato il suo migliore
compagno di giochi.”
In
quello stesso periodo cominciò la moria del bestiame, in modo così
strano e ripugnante che nessun veterinario osava avvicinarsi alla
fattoria. Come per la vegetazione, gli animali subivano delle strane
mutazioni prima di ingrigirsi e cominciare a sbriciolarsi, al punto
che molti perdevano pezzi anatomici ancor prima di morire. In questo
modo, nel giro di poco tempo non restò vivo neanche un animale da
allevamento, neanche quelli tenuti lontano dal terreno contaminato
sfuggirono al contagio.
Il
19 ottobre Nahum si presentò a casa di Ammi con una terribile
notizia, suo figlio Thaddeus era morto, in una maniera che era meglio
non indagare. Aveva seppellito quel che restava dei suoi resti sul
retro della casa. L’amico lo accompagnò sulla via del ritorno e
cercò di consolare gli altri due figli, ma non appena cominciò a
fare buio non se la sentì di rimanere e si riavviò verso casa,
accompagnato dalle grida isteriche della signora Gardner e con la
vegetazione che cominciava ad assumere la sua inquietante luminosità.
Tre giorni dopo, il capofamiglia si ripresentò in casa Price,
disperato perché suo figlio Merwin era scomparso nei pressi del
pozzo, dove si era recato per attingere l’acqua. Nelle sue
vicinanze aveva trovato solo una massa di ferro semifuso,
schiacciata, che era stata la lanterna, e un recipiente curvo con due
anelli di ferro: ciò che restava del secchio. Nahum si era rivolto
all’unico amico che aveva per pregarlo di badare a sua moglie e al
figlio rimasto, perché temeva che a breve sarebbe toccato anche a
lui.
Per
un paio di settimane Ammi non rivide più il suo amico. Preoccupato
per quello che poteva essergli accaduto, vinse le sue paure e si
decise a recarsi alla fattoria.
“Dal
gran comignolo non usciva fumo, e per un attimo il visitatore temette
il peggio. L’aspetto della casa era terribile: erba grigia e vizza,
foglie sul terreno, viticci che cadevano in friabile rovina dalle
mura di arcaici abbaini, alberi nudi che artigliavano il cielo grigio
di novembre con una tal studiata malvagità che Ammi non poté far a
meno di pensare a un sottile cambiamento nella conformazione dei
rami. Ma dopotutto Nahum era vivo. Era debole, e giaceva su un letto
nella bassa cucina, perfettamente conscio e in grado di dare a Zenas
gli ordini più semplici. La stanza era freddissima, e poiché Ammi
tremava visibilmente l’ospite gridò a Zenas con voce roca di
aggiungere altra legna. In realtà, la legna mancava del tutto:
l’enorme camino era spento e vuoto, e il vento freddo che veniva
giù dalla canna alzava una nuvola di fuliggine. Dopo un po’ Nahum
chiese all’amico se la legna aggiunta lo facesse sentire meglio,
allora Ammi si rese conto di ciò che era accaduto: anche la corda
più robusta si era spezzata, e la mente del fattore disperato si era
messa al riparo da altri dolori.
Ponendogli
una serie di domande discrete, Ammi non riuscì a farsi una chiara
idea di dove fosse Zenas, che in realtà non si vedeva. Tutto ciò
che il padre sapeva dire era: «È
nel pozzo… adesso vive nel pozzo…». Poi, nella mente di Ammi
balenò il pensiero della moglie pazza, e cambiò la linea
dell’interrogatorio. «Nabby? Ma come, se è là!» fu la risposta
del povero Nahum, e Ammi capì che avrebbe dovuto cercare da solo.
Lasciato l’innocuo farneticante sul lettuccio, prese le chiavi dal
chiodo accanto alla porta e salì le scale cigolanti che portavano in
soffitta. Lassù c’era una terribile aria di chiuso: un odore
disgustoso e un silenzio totale gravavano da ogni parte. Delle
quattro porte che si presentarono ad Ammi una sola era sprangata, e
qui egli provò le varie chiavi dell’anello. La terza si rivelò
quella giusta, e dopo qualche tentativo Ammi aprì la bassa porta
bianca.
All’interno
era piuttosto buio, perché la finestra era piccola e oscurata a metà
dalle rozze sbarre di legno; sul pavimento di assi bianche Ammi non
riuscì a vedere nulla. Il puzzo era insopportabile, e prima di
avanzare ancora egli dovette rifugiarsi in un’altra stanza e
riempirsi i polmoni d’aria respirabile. Quando rientrò vide
qualcosa di scuro nell’angolo, e rendendosi conto di ciò che aveva
davanti gridò a squarciagola. Mentre urlava gli parve che una nuvola
passeggera oscurasse la finestra, e un attimo dopo si sentì sfiorare
da un’insopportabile corrente di vapore. Strani colori danzavano
davanti ai suoi occhi, e se l’orrore non lo avesse paralizzato
avrebbe ripensato al globulo che era apparso nel meteorite quando il
martello da geologo lo aveva frantumato, o all’assurda vegetazione
che era cresciuta in primavera. Ma in quel momento Ammi pensò solo
alla mostruosità che aveva davanti, e che fin troppo chiaramente
aveva condiviso il destino sconosciuto del giovane Thaddeus e del
bestiame. La cosa terribile era che l’orrore, benché continuasse a
cadere in pezzi, fosse ancora in grado di muoversi lentamente e
percettibilmente.
Su
quel particolare episodio Ammi non mi fornì altri particolari, ma è
certo che nel suo racconto l’ombra nell’angolo e la creatura in
movimento non appariranno più. Ci sono cose cui non si può nemmeno
accennare, e del resto la legge punisce atti che a volte vengono
commessi a scopo umanitario. Personalmente ne ricavai l’impressione
che in soffitta, dopo la visita di Ammi, non rimanesse nessun essere
vivente, e che lasciarvi una creatura ancora capace di muoversi
sarebbe stato un gesto così mostruoso da condannare qualunque essere
pensante all’eterno rimorso. Chiunque non fosse un semplice
agricoltore sarebbe svenuto o impazzito, ma Ammi uscì dalla bassa
porta perfettamente in sé, chiudendosi alle spalle il tremendo
segreto. Adesso bisognava pensare a Nahum: doveva essere nutrito e
accudito, ma soprattutto condotto in un luogo dove ci si potesse
prendere cura di lui.
Ammi
aveva appena incominciato a scendere la scala buia, quando sentì un
tonfo al piano inferiore. Gli parve di udire anche un grido
strozzato, e ricordò nervosamente la nebbia appiccicosa che lo aveva
sfiorato nella spaventosa soffitta. Quale presenza avevano
risvegliato il suo urlo e l’improvvisa irruzione di sopra?
Trattenuto da un vago terrore, udì altri rumori provenienti dal
piano terra. Indubbiamente veniva trascinato qualcosa di pesante, e a
questo si univa uno sgradevole sgocciolio appiccicoso, simile a
quello che potrebbe produrre una diabolica e oscena varietà di
suzione. Con i sensi spinti a livelli febbrili dal potere della
suggestione che quei rumori evocavano, Ammi pensò senza una precisa
ragione a ciò che aveva visto in soffitta. Buon Dio! In quale
sconosciuto regno degli incubi si era cacciato? Non osava andare
avanti né indietro, ma rimase tremando sul gomito della scala di
legno. Ogni più piccolo particolare della scena gli si era impresso
nella mente: i rumori, il senso di paurosa attesa, il buio, i gradini
ripidi e stretti e anche - cielo misericordioso! – la debole e
inconfondibile luminosità degli oggetti di legno attorno a lui:
gradini, pareti, corrimano e travi erano fosforescenti!
Poi
il cavallo di Ammi lanciò un nitrito disperato all’esterno,
seguito da un rumore di zoccoli al galoppo, segno inconfondibile di
una fuga precipitosa. Un attimo dopo del cavallo e del calesse non si
udì più nulla e l’uomo terrorizzato sulla scala buia non poté
fare altro che chiedersi cosa l’avesse spinto alla fuga. Ma non era
tutto. All’esterno era risuonato un altro rumore, come un tonfo
nell’acqua, proveniente con ogni probabilità dal pozzo. Ammi aveva
lasciato Hero, il cavallo, slegato lì vicino e forse una ruota del
calesse aveva sfiorato il bordo del pozzo e fatto cadere una pietra.
E intanto quel maledetto legno continuava a brillare come se fosse
fosforescente. Dio, come era vecchia la fattoria! La maggior parte
era stata costruita prima del 1670, e il tetto a doppio spiovente non
più tardi del 1730.
Al
piano di sotto si udiva distintamente un rumore che pareva adesso
quello di un debole grattare sul pavimento, e la mano di Ammi si
serrò sul pesante bastone che aveva raccolto in soffitta per ogni
evenienza. Facendo forza sui propri nervi, terminò la discesa e si
incamminò coraggiosamente verso la cucina, ma non completò il
tragitto perché quello che cercava non si trovava più là. Gli era
venuto incontro, e in un certo senso era ancora vivo: Ammi non poteva
dire se avesse strisciato o se fosse stato attratto da una forza
esterna, ma ormai la morte lo aveva ghermito. Tutto era avvenuto nel
giro di mezz’ora, ma il collasso, l’ingrigimento e la
disgregazione erano già molto avanzati. Il corpo recava orribili
segni di sbriciolamento, e i frammenti secchi venivano via a scaglie;
Ammi non riuscì a toccarlo, ma guardò atterrito la distorta parodia
di quello che era stato un volto. «Che cosa è stato, Nahum… che
cosa è stato?» sussurrò, e le labbra gonfie ma spaccate dell’altro
riuscirono a malapena a sillabare un’ultima risposta.
«Niente…
niente… il colore brucia… è freddo e umido, però brucia…
viveva nel pozzo, l’ho visto… una specie di fumo, sì, come i
fiori la primavera scorsa… il pozzo di notte brilla… Thad, Mernie
e Zenas… tutto ciò che vive… succhia la vita da ogni cosa… era
nella pietra… poi ha avvelenato tutto… non so cosa voglia…
quella cosa rotonda che gli scienziati dell’università hanno
tirato fuori dalla pietra… l’hanno schiacciato… era dello
stesso colore, lo stesso ti dico, come i fiori e le piante…
dovevano essercene altri… come semi, semi… che sono cresciuti.
L’ho visto per la prima volta questa settimana… si è nutrito di
Zenas… era un ragazzo grande e grosso, piena di vita… il colore
ti entra nel cervello e poi ti brucia… nell’acqua del pozzo…
Avevi ragione su quell’acqua maledetta… Zenas non è mai tornato
dal pozzo, e non ha potuto allontanarsi… lui ti attira e tu sai che
sta venendo, ma è inutile… L’ho visto altre volte, da quando
Zenas è stato preso… Ammi, che ne è di Nabby? La mia testa non è
più a posto… non so più da quanto tempo non le porto da mangiare…
prenderà anche lei se non stiamo attenti… il colore, voglio dire…
a volte, di notte, mi pare che la faccia di Nabby sia già diventata
di quel colore… brucia, succhia… è venuto da un posto dove le
cose non sono come qui… l’ha detto uno di quei professori, e
aveva ragione… fai attenzione, Ammi, lo farà ancora… succhia la
vita…»
Questo
fu tutto. L’essere che aveva parlato non poteva più farlo, perché
era completamente crollato su sé stesso. Ammi stese sui resti una
tovaglia da tavola a scacchi rossi e uscì all’aperto dalla porta
sul retro. Risalì il declivio fino al pascolo di quattro ettari e
barcollò in direzione di casa seguendo la strada del nord nei
boschi. Di passare accanto al pozzo da cui il cavallo era fuggito non
se la sentiva: lo aveva guardato dalla finestra e si era accorto che
dal bordo non era stata rimossa neppure una pietra. Questo
significava che il calesse non aveva urtato proprio nulla, e quindi
il tonfo nell’acqua era dovuto a qualcos’altro… qualcosa che si
era tuffato nel pozzo dopo aver finito con il povero Nahum.”
FINALE:
Una volta raggiunta casa, Ammi vide che il suo cavallo col calesse lo
aveva preceduto. Dopo aver rassicurato la moglie si precipitò ad
Arkham per avvertire che la famiglia Gardner non esisteva più a
causa della misteriosa malattia provocata dal meteorite. Ammi fu
costretto ad accompagnare malvolentieri le autorità sul posto. I
funzionari non rimasero indifferenti a ciò che trovarono in soffitta
e sotto la tovaglia sul pavimento. Il medico legale constatò che
c’era ben poco da esaminare, però si prodigò a prelevare diversi
campioni per farli analizzare.
“Se
avesse immaginato che intendevano passare all’azione subito, Ammi
non avrebbe parlato del pozzo ai suoi accompagnatori. Era ormai quasi
il tramonto e personalmente non vedeva l’ora di andarsene, ma non
poté fare a meno di gettare un’occhiata nervosa all’orlo di
pietra che scorgeva nel cortile, e quando un agente gliene chiese il
perché, Ammi riconobbe che Nahum aveva temuto qualcosa che si
annidava laggiù. Anzi, l’aveva temuto a tal punto che non aveva
neppure osato cercarvi Merwin e Zenas, i figli scomparsi. Dato che
non si poteva fare altro che svuotare il pozzo ed esplorarlo
immediatamente, Ammi dovette aspettare tremando che secchio dopo
secchio d’acqua putrida venisse tirata su e rovesciata sul terreno
già intriso del cortile. Gli uomini annusarono il liquido con
disgusto e alla fine il fetore insopportabile li costrinse a turarsi
il naso. Il lavoro non richiese tanto tempo quanto avevano temuto,
visto che l’acqua era straordinariamente bassa, e non c’è
bisogno di descrivere in tutti i particolari ciò che trovarono.
Basti dire che i resti di Merwin e Zenas erano almeno in parte sul
fondo. Ciò che rimaneva faceva parte soprattutto dello scheletro:
con loro, inoltre, c’erano un piccolo cervo e un grosso cane più o
meno nello stesso stato, e un certo numero di ossa d’animali più
piccoli. La fanghiglia e il viscidume sul fondo avevano un aspetto
inspiegabilmente poroso, ricco di bolle; un uomo si calò reggendosi
agli appigli e, munito di una lunga pertica, scoprì che poteva
immergere l’asta di legno a qualunque profondità nel fango del
fondale, senza incontrare ostacoli solidi.”
Dal
pozzo non si ricavò altro. Con il calare del buio tutti gli uomini
tornarono all’interno della fattoria e si sistemarono in soggiorno.
Poco dopo un bagliore ben noto ad Ammi cominciò a emergere dalla
cavità e l’uomo consigliò a tutti i presenti di non uscire per
nessuna ragione.
Un
investigatore guardò fuori, verso l’alto, e vide i nudi rami degli
alberi agitarsi convulsamente, nonostante la completa assenza di
vento.
“Era
una sorta di contorcimento morboso, spasmodico, come una danza di
artigli animati dalle convulsioni dell’epilessia e che volessero
afferrare le nuvole rischiarate dalla luna; artigli che graffiavano
impotenti l’aria pestilenziale, agitati da una forza sconosciuta e
senza corpo che si fosse alleata con gli orrori sotterranei che
strisciavano e lottavano sotto le radici nere.
Per
diversi secondi nessuno respirò, poi una nuvola più oscura delle
altre passò sulla luna e la sagoma dei rami-artiglio svanì per un
attimo. Gli uomini gridarono all’unisono: un urlo strozzato dal
timore, ma roco e quasi identico da tutte le gole. Il terrore,
infatti, non era scomparso con la sagoma degli alberi, e in quel
terribile momento di buio profondo gli osservatori videro una catena
di scintille, formata da mille puntolini di debole e misteriosa
fosforescenza, serpeggiare sulla cima degli alberi, formando su
ciascun ramo una fiammella simile ai fuochi di sant’Elmo o a quelle
che si posarono sulla testa degli apostoli il giorno della
Pentecoste. Era una costellazione mostruosa di luce innaturale, e
guizzava come uno sciame di lucciole nutrite da cadaveri che
danzassero un’infernale sarabanda sopra una palude maledetta; ma il
colore era quello dell’invasore senza nome che Ammi aveva imparato
a riconoscere e a temere. Nel frattempo il fascio di luce che si
alzava dal pozzo era diventato sempre più intenso, e alla mente
degli uomini raccolti intorno alla finestra trasmetteva un senso di
fatalità e innaturalezza che di gran lunga superava qualsiasi
immagine potesse essersi formata nelle loro fantasie coscienti. Il
fascio non si limitava più a brillare,
perché si riversava
dal pozzo; e nel lasciarlo, il flusso informe di colore senza nome
pareva scorrere direttamente nel cielo.”
All’interno
della fattoria gli uomini, in preda allo sgomento, cominciarono a
parlare nervosamente fra di loro, facendo ipotesi e commenti su
quanto stava accadendo. L’agente che si era calato nel pozzo
immaginò che con la lunga pertica avesse smosso dal fondo della
cavità qualcosa di inimmaginabile, all’esterno il cavallo di Ammi
scalciava e nitriva disperatamente, mentre l’uomo farfugliava
riflessioni informi: «È
venuto con quella pietra… è cresciuto laggiù, nutrendosi di cose
vive che catturava… divorava mente e corpo... Thad e Mernie, Zenas
e Nabby… Nahum è stato l’ultimo, ma tutti hanno bevuto l’acqua…
quella cosa si è fortificata grazie a loro… è venuta da fuori,
dove le cose non sono come qui… e adesso sta tornando a casa…»
Passarono
alcuni minuti, poi il cavallo crollò a terra morto, dopo aver
frantumato il calesse a furia di calci. All’interno della casa gli
uomini si accorsero che l’intero appartamento era completamente
ricoperto della spaventosa fosforescenza. Fu chiaro a tutti che se ne
sarebbero dovuti andare il prima possibile.
Ammi
mostrò agli altri l’uscita sul retro e tutti si diressero verso i
pascoli sulla collina senza mai voltarsi indietro, almeno fino a
quando raggiunsero la sommità dell’altura.
“Quando
finalmente si voltarono a guardare la valle e l’ormai lontana
fattoria Gardner che sorgeva nel mezzo, videro uno spettacolo
pauroso. Tutta la casa splendeva di un orrendo miscuglio di colori
sconosciuti: gli alberi, gli edifici, e perfino quell’erba che non
si era del tutto trasformata in friabile grigiore. I rami puntavano
tutti al cielo, punteggiati da terribili lingue di fiamma, mentre i
rivoli scintillanti di quell’incendio mostruoso si insinuavano fra
le travi della casa, della stalla e dei capanni. Era una scena degna
di un quadro di Füssli,
e su tutto regnava il tripudio di quella luce senza forma, arcobaleno
estraneo e senza dimensioni di veleno misterioso che s’alzava dal
pozzo: ribollente, senziente, ondeggiante, scintillante e
gorgogliante nel suo cromatismo cosmico e ignoto.
Poi,
senza preavviso, l’orribile colore scoccò verso il cielo in
verticale, come un razzo o una meteora, senza lasciare alcuna traccia
e scomparendo attraverso un buco tra le nuvole, curiosamente
circolare e regolare, prima che qualcuno potesse sorprendersi o
gridare.
Nessuno
dei testimoni avrebbe potuto dimenticare la scena, e Ammi fissò
senza capire le stelle del Cigno, fra cui Deneb splendeva più delle
altre: lì il colore si era fuso con la Via Lattea. Ma un attimo dopo
il suo sguardo fu riportato a terra da un crepitio che si udiva nella
valle, un rumore di legno spezzato e crepitante, non un’esplosione,
come affermarono molti altri del gruppo. Eppure il risultato fu lo
stesso, perché in un attimo febbrile e caleidoscopico, dalla
fattoria condannata e maledetta eruttò un diluvio di scintille e di
sostanza innaturale che abbagliò quei pochi che lo videro, per poi
scagliare verso lo zenit un nugolo di frammenti dai colori fantastici
fermamente ripudiati dal nostro universo. Scintille e lembi di
materia seguirono la grande anomalia scomparsa attraverso il foro che
si era aperto tra le nuvole e un attimo dopo scomparvero anch’essi.
Al loro posto non c’erano che tenebre, fra le quali gli uomini non
osavano tornare, e si era levato un vento che pareva soffiare in
raffiche nere e gelide dallo spazio interstellare. Urlava e urlava
sferzando i campi e i boschi contorti con folle frenesia cosmica,
finché il gruppo di attoniti spettatori si rese conto che era
inutile aspettare che la luna mostrasse ciò che restava della
fattoria di Nahum.
Troppo
spaventati anche per azzardare un’ipotesi, i sette uomini sconvolti
si avviarono verso Arkham per la strada che piegava a settentrione.
Ammi stava peggio degli altri e li pregò di accompagnarlo fino alla
porta di casa invece di proseguire verso la città: non voleva
attraversare da solo i boschi avvolti dalla notte e frustati dal
vento oltre la strada principale. Ai compagni, infatti, era stato
risparmiato uno shock che lui non aveva potuto fare a meno di
provare, e che lo avrebbe schiacciato sotto un senso di tale terrore
da impedirgli di parlarne per anni. Mentre gli altri testimoni
avevano rivolto lo sguardo decisamente verso la strada, Ammi si era
fermato un attimo a fissare la valle d’ombre e di desolazione in
cui fino a poco prima sorgeva la fattoria dell’amico sfortunato. Da
un punto lontano, in mezzo alla rovina, aveva visto qualcosa alzarsi
debolmente, per poi affondare di nuovo nel posto da cui il grande
orrore senza forma si era proiettato al cielo. Anche questo non era
che un colore, ma non un colore della terra o degli spazi a noi noti;
e siccome Ammi lo aveva riconosciuto, e sapeva che almeno un ultimo
brandello si nascondeva ancora nel pozzo, da quel momento in poi non
riuscì più a trovar pace.”
Amazing Stories: illustrazione per il frontespizio del racconto realizzata da JM de Aragon (settembre 1927) |
Ammi
non è mai ritornato in quei luoghi, da più di cinquant’anni, ed è
sollevato all’idea che la vallata verrà ricoperta dall’acqua del
nuovo bacino. Dopo il suo racconto, anche il tecnico inviato da
Boston si sente rincuorato e decide che mai più verrà da queste
parti, soprattutto dopo aver ispezionato quel territorio maledetto e
aver visto strane cose che non è riuscito a spiegarsi. Almeno fino a
quando non ha ascoltato il racconto dell’anziano. Non ha una
precisa opinione in merito, però teme anch’egli che qualcosa si
trovi ancora in fondo al pozzo, poiché ha visto la luce del sole
alterarsi nei pressi della sua bocca.
“I
contadini dicono che la malattia della terra si estende di un paio di
centimetri all’anno, per cui forse anche adesso trova di che
nutrirsi e crescere, ma quale sia il demone che si nasconde laggiù,
dev’essere trattenuto da qualcosa o si sarebbe diffuso molto più
in fretta. È avvinto alle radici degli alberi che sembrano
artigliare l’aria? Uno dei racconti più frequenti, ad Arkham,
riguarda grosse querce che di notte rilucono e i cui rami si agitano
come non dovrebbero.
Che
cosa sia, Dio solo lo sa. In termini di materia suppongo che la cosa
descritta da Ammi sia un gas, ma obbediente a leggi che non sono
quelle del nostro cosmo: non è il frutto dei pianeti o dei soli che
splendono nei telescopi e sulle lastre fotografiche dei nostri
osservatori. Non è un soffio dei cieli di cui i nostri astronomi
misurano i moti e le dimensioni, e neppure di quelli che giudicano
troppo vasti per essere misurati. Era soltanto un colore venuto dallo
spazio, messaggero spaventoso degli informi reami dell’infinito, al
di là della natura che noi conosciamo; luoghi la cui semplice
esistenza ci colpisce e ci paralizza con la visione dei neri golfi al
di là del cosmo che si apre, improvvisa, di fronte ai nostri occhi
terrorizzati.
Non
posso credere che Ammi mi abbia mentito consapevolmente, né credo
che il suo racconto sia frutto di follia, come gli abitanti della
città mi avevano fatto pensare. Qualcosa di terribile è sceso fra
quelle valli e colline al seguito di una meteora, e qualcosa di
terribile (anche se non so in che misura) vi rimane ancora. Sarò
contento quando l’acqua inonderà tutto, e nel frattempo spero che
ad Ammi non succeda niente. Ha visto così tanto di quella cosa il
cui influsso era così insidioso. Perché non era mai riuscito ad
andarsene? Con quanta chiarezza ricordava le ultime parole di Nahum:
«Non te ne puoi andare… ti attira… sai che qualcosa sta per
prenderti e non ci puoi fare niente…» Ammi è un buon vecchio:
quando la squadra che costruirà il bacino si metterà al lavoro
scriverò all’ingegnere capo e gli raccomanderò di vegliare su di
lui. Detesterei pensare a lui come alla mostruosità grigia, contorta
e friabile che continua a turbare i miei sogni.”
Come
per molti dei suoi lavori, Lovecraft ci ha lasciato un parere di ciò
che pensava di questo racconto nel suo sconfinato epistolario. “Ho
scritto un nuovo racconto – o studio d’atmosfera – che le
invierò non appena battuto a macchina. Si intitola The
Colour Out of Space
e racconta di un oggetto che precipita nelle colline a occidente di
Arkham”,
da una lettera spedita a Clark Ashton Smith nel 24 marzo 1927, cui
segue pochi mesi dopo una seconda lettera, datata 12 maggio: “Le
accludo The
Colour Out of Space,
che potrà restituirmi quando vorrà. Probabilmente gli mancano unità
e crescendo drammatico, ma d’altra parte va preso come uno studio
d’ambiente e d’atmosfera più che un vero e proprio racconto.”
Scrive
Giuseppe Lippi nella sua introduzione alla novella: “Nonostante
le pessimistiche valutazioni di Lovecraft, bisogna riconoscere che
The
Colour Out of Space
(scritto immediatamente dopo The
Case of Charles Dexter Ward)
è uno dei suoi capolavori in assoluto. Non è difficile capire
perché: qui non abbiamo un aggiornamento della famosa mitologia
extraterrestre, ma il racconto è semplicemente uno dei più
realistici, sapienti e controllati di Lovecraft, che si diffonde in
un magistrale ritratto d’ambiente e nella credibile ricostruzione
di una tragedia umana e naturale. Con le sue inesplicabili sventure,
il minaccioso senso di ostilità che grava dal cielo, la solitudine
maestosa e terrificante dell’ambiente, questo Colore
che fa pensare ad Ambrose Bierce è un grande risultato narrativo non
solo per Lovecraft (di cui rappresenta una personale elaborazione del
libro di Giobbe) ma rimase, probabilmente, fra i più intensi
racconti americani del periodo.”
(G.
Lippi, a cura di, H.
P. Lovecraft. Tutti i racconti 1927-1930,
Oscar Mondadori, Milano, 1991).
Le
impressioni iniziali di Lovecraft col tempo cambiarono, tanto da
arrivare a ritenerlo uno fra i suoi migliori lavori mai realizzati.
Scrivono
Pilo e Fusco in una nota in calce al racconto per l’opera integrale
dedicata a Lovecraft da loro curata: “Lovecraft
considerò sempre The
Colour Out of Space
uno dei suoi racconti meglio riusciti e quando voleva sottoporre a
qualcuno un elenco delle sue opere, lo poneva costantemente in testa.
L’appartenenza della storia al Ciclo di Cthulhu è determinata
soprattutto dalla collocazione geografica della vicenda nel
comprensorio di Arkham, del quale si cominciano a determinare i
contorni. In realtà la tematica del racconto – basata sul
fondamentale concetto lovecraftiano secondo cui negli abissi
sconosciuti dello spazio e del tempo sono in agguato orrori
innominabili – è di fatto strettamente fantascientifica, tant’è
che Hugo Gernsbach non esitò a pubblicarlo su Amazing
Stories,
la prima rivista di fantascienza americana, nata appena un anno
prima. Lo scrittore sperò che la pubblicazione da parte di Amazing
Stories
potesse aprire un altro sbocco per i suoi scritti, oltre a quello già
consolidato di Weird
Tales.
Ma Gernsbach, in crisi finanziaria cronica, ritardò fino
all’inverosimile il compenso, e alla fine inviò una cifra
risibile, di gran lunga inferiore perfino alle tariffe, già
estremamente basse, di Weird
Tales.
Dopo di allora Lovecraft, parlando di Gernsbach, usò sempre
l’appellativo di «Hugo il sorcio», e non volle più considerare
le riviste di fantascienza come potenziali sbocchi per i suoi
racconti.”
(G.
Pilo, S. Fusco, Lovecraft.
Tutti i romanzi e i racconti,
4ª edizione, Newton Compton Editori, 2011)
Tutti
i critici sono concordi nel ritenerlo uno dei capolavori dall’autore
di Providence. Come già detto, è un racconto d’ambiente, narrato
con piglio realistico e quasi distaccato, come un rapporto
scientifico, spaventoso nonostante non ci sia un mostro tangibile da
temere; sono infatti gli effetti devastanti sulla natura e sull’uomo
a incutere terrore e inquietudine.
La
fantascienza si fonde con il genere horror in un equilibrio
esemplare. Inoltre, qui Lovecraft realizza perfettamente quello che
lui ritiene una priorità per ciò che riguarda il primo genere sopra
menzionato, ovvero abbattere il punto di vista antropocentrico,
imperante all’epoca, per raccontare creature e civiltà aliene. La
letteratura di genere fantascientifico, infatti, descriveva queste
ultime come distorsioni delle strutture umane e terrestri senza mai
allontanarsene troppo, ma anzi scimmiottandole, e questo per lui era
inammissibile. Se una “cosa” è aliena, lo è perché
completamente diversa da noi, dunque non gli si possono attribuire
emozioni, intenti, etica e morale simili alle nostre.
Ciò
appare chiaro anche in un veloce e sconsolato passo di una lettera di
questo periodo (17 aprile) inviata a Vincent Starrett (1886-1974),
saggista, poeta, romanziere ed esperto conoscitore di Sherlock
Holmes: “[…]
Sono senz’altro d’accordo che la mancanza di un mercato per la
narrativa dell’orrore, al di là dei fascicoli da edicola, sia una
disgraziata circostanza. Ma temo sia un fatto irrimediabile, perché
le persone a cui interessano queste cose devono essere alquanto
poche. Io ho pubblicato un certo numero di racconti nell’ebdomadario
Weird
Tales,
ma credo che per me quel mercato si stia lentamente chiudendo a causa
dell’ossequio che il direttore porge a una clientela avida di
racconti fantastici semplici e potabili, con molto elemento
umano
e scritti in uno stile rapido, conciso, scanzonato e completamente
privo di atmosfera […].”
C’è
però anche un altro tema caro all’autore, la degenerazione fisica
e psichica che colpisce una comunità, soprattutto se isolata. Un
argomento affrontato in molti dei suoi lavori, a partire dalla
gioventù, come La
bestia nella caverna
(1905), per proseguire poi con Gli
avvenimenti riguardanti Arthur Jermyn e la sua famiglia
(1920), La
paura in agguato
(1922), I
ratti nei muri
(1923), e altri ancora che scriverà in futuro.
Il
cinema ha utilizzato più volte questo racconto, sia come semplice
spunto di partenza o suggestione, sia con trasposizioni più o meno
fedeli. Alla prima categoria appartiene sicuramente The
Blob
(1958) - conosciuto in Italia come “Blob, Fluido mortale”, che
vede fra i suoi protagonisti un giovane Steve McQueen - mentre alla
seconda categoria Die,
Monster, Die!
(1965), uscito da noi col titolo “La morte dall’occhio di
cristallo”, con Boris Karloff nella parte del capo famiglia Nahum.
Creepshow
(1982) è invece un film a episodi di George A. Romero e uno di
questi è chiaramente ispirato alla vicenda scritta da Lovecraft. Si
tratta di “La morte solitaria di Jordy Verrill” ed è
interpretato nientemeno che da Stephen King, sceneggiatore del film.
Seguono The
Farm
(1987), conosciuto anche come “The Curse” o “La fattoria
maledetta”, Colour
from the Dark
(2008) del regista italiano Ivan Zuccon, il tedesco Die
Farbe
(2010), fino ad arrivare ad Annihilation
(2018), di Alex Garland, con protagonista Natalie Portman, tratto dal
romanzo omonimo di Jeff VanderMeer ma con evidenti riferimenti al
racconto originale di Lovecraft, e infine The
Color out of Space
(2019), di Richard Stanley, con protagonista Nicolas Cage.
Luoghi:
Arkham e dintorni; la landa maledetta; fiume Miskatonic; Fattoria
Gardner; Magazzino di Potter a Clark’s Corners; Miskatonic
University; Meadow Hill; ruscello di Chapman.
Personaggi:
l’io narrante, un tecnico di Boston; Ammi Pierce, anziano
squinternato; Nahum Gardner, capofamiglia della fattoria nei pressi
della quale cadde il meteorite; Nabby Gardner, sua moglie; Zenas
Gardner, primogenito della famiglia; Thaddeus Gardner, quindicenne,
secondogenito di Nahum; Merwin Gardner, il più piccolo della
famiglia; i giovani McGregor; Potter, proprietario di un magazzino a
Clark’s Corners; Stephen Rice, contadino; tre scienziati della
Miskatonic University.
Maggio.
Conclude il suo famoso saggio L’Orrore
Soprannaturale nella Letteratura,
iniziato a partire dal novembre del 1925 su precisa richiesta
dell’amico Paul Cook, che infatti lo pubblica ad agosto di
quest’anno sul suo “Recluse”.
Si tratta del primo saggio critico esaustivo sull’argomento. Prima di questo, infatti, era stato pubblicato nel 1917 The Supernatural in Modern English Fiction, di Dorothy Scarborough, che prendeva in esame la narrativa inglese contemporanea, prediligendo gli epigoni della narrativa gotica, omettendo così gli autori europei e americani. Era seguito poi, nel 1923, The Tale of Terror, di Hellen Birkhead, che però si occupava esclusivamente di autori gotici inglesi, tralasciando curiosamente J. S. Le Fanu, che non viene mai nominato. E noi sappiamo che quest’autore fu fondamentale per lo sviluppo futuro della narrativa di genere [v. “Nona parte (1926)” fra i commenti in calce al racconto “Il Richiamo di Cthulhu”].
Lovecraft continuerà ad aggiornare il suo saggio ogni volta che scoprirà un nuovo autore (come Gustav Meyrink e William Hope Hodgson) fino al 1936. Verrà infatti ripreso a puntate su “The Fantasy Fan” dal 1933 al 1935, ma in forma incompleta (fino alla metà del capitolo VIII, su un totale di dieci) a causa della chiusura della rivista. Apparirà finalmente nella sua interezza nel primo volume rilegato delle opere di Lovecraft pubblicato dalla Arkham House, The Outsider and Others (1939), appena due anni dopo la sua morte.
Maggio.
Comincia il lavoro di revisione per conto di una nuova cliente, la
signora Zealia Bishop. Basandosi su semplici idee da lei fornite,
Lovecraft scrive i racconti The
Curse of Yig
(concluso il 9 marzo 1928), The
Mound
(nell’inverno a cavallo fra il 1929 e il 1930) e Medusa’s
Coil
(nella primavera del 1930).
Luglio.
Vengono a trovarlo diversi amici a Providence. Donald Wandrei,
giovane e nuovo amico di penna, arriva in città in autostop da Saint
Paul, nel lontano Minnesota, e si ferma una settimana. Seguono poi
James Ferdinand Morton, Frank Belknap Long e famiglia, W. Paul Cook e
H. Warner Munn.
Agosto.
Stavolta è Lovecraft che si muove dalla sua amata città, per
visitare Arthur H. Goodenough, poeta, nella sua fattoria del Vermont,
assieme a W. Paul Cook.
Agosto.
HPL cura una raccolta postuma di poesie del dilettante John Ravenor
Bullen, dal titolo White
Fire.
Agosto.
Pubblicazione di Supernatural
Horror in Literature sul
“Recluse” di W. Paul Cook.
Sul
finire dell’estate lo scrittore compie una serie di gite nel New
England, in particolare nello stato del Maine.
Settembre.
In visita a Providence giunge Wilfred B. Talman [v. “Nona parte
(1926)” al racconto Due
bottiglie nere].
Settembre.
L’Orrore
a Red Hook
viene pubblicato nel terzo volume della serie di antologie “Not at
Night”, You’ll
Need a Night Light,
a cura di Christine Campbell Thompson. L’editore è il londinese
Selwyn & Blount. È
la prima apparizione di un racconto di Lovecraft in edizione
rilegata.
Settembre.
Amazing Stories pubblica uno dei suoi migliori racconti, che “Weird
Tales” aveva rifiutato: The
Colour Out of Space.
Ottobre-novembre.
Nuove visite di W. Paul Cook.
L’ANTICO
POPOLO
(THE
VERY OLD FOLK, 2 novembre)
“Caro
Melmoth,
recentemente
ho dato un’occhiata all’Eneide tradotta da James Rhodes, una
versione che finora non avevo mai visto e che mi ha riportato col
pensiero al tempo degli antichi romani. Quella di Rhodes è più
fedele a Virgilio di qualsiasi altra traduzione da me letta, compresa
quella inedita del mio defunto zio dr. Clark. La parentesi
virgiliana, unita ai fantastici pensieri che sempre in me suscitano
la vigilia di Ognissanti e i sabba di Halloween celebrati fra le
colline, deve avermi ispirato, la notte di lunedì, un sogno di
eccezionale forza e vividezza ambientato in epoca romana; un sogno
così ricco d’orrore gigantesco e latente che un giorno me ne
servirò senz’altro in uno dei miei racconti. I sogni di
ambientazione romana non erano affatto rari durante la mia
giovinezza: ricordo di essere stato al seguito del divino Cesare in
tutta la Gallia e di notte assumevo la personalità del tribuno
Milibo; ma è passato tanto tempo che questo mi ha impressionato con
forza straordinaria.
Nel
sogno era l’ora di un tramonto fiammeggiante, o comunque il tardo
pomeriggio; mi trovavo nella città di Pompelo, nella Spagna
Citeriore, ai piedi dei Pirenei. L’epoca doveva essere la tarda
repubblica, perché la provincia era ancora governata da un
proconsole del senato invece che da un legato pretorio come ai tempi
degli imperatori, e il giorno era quello che precedeva le Calende di
novembre.”
Lovecraft,
nei panni del questore provinciale L. Celio Rufo, viene convocato in
città assieme ad altri rappresentanti dell’autorità della regione
basca perché ogni anno, in questo periodo, un antico e misterioso
popolo dagli occhi a mandorla che vive rintanato sui monti, scende
per devastare le campagne e rapire i cittadini per farne vittime
sacrificali di macabri rituali.
“Che
il pericolo per la città e gli abitanti di Pompelo fosse autentico,
i miei studi non mi permettevano di dubitare. Avevo letto molti
papiri raccolti in Siria, in Egitto e nelle misteriose città
dell’Etruria e avevo parlato a lungo con il sanguinario sacerdote
di Diana Aricina nel tempio che sorge fra i boschi del lago di Nemi.
La notte del sabba potevano calarsi dalle montagne pericoli orrendi,
calamità per cui non doveva esserci posto nelle terre abitate dal
popolo romano. Consentire le orge che prevalevano durante quelle
celebrazioni sarebbe equivalso a tradire i costumi dei nostri
antenati, che sotto il console Postumio avevano messo a morte molti
cittadini romani per la pratica dei baccanali: avvenimenti la cui
memoria veniva perpetuata dal Senatus
consultum de Bacchanalibus,
scolpito sul bronzo e messo a disposizione di chiunque volesse
leggerlo.
Repressi
in tempo, e prima che riuscissero nello scopo di evocare entità che
il ferro di un pilum
romano non sarebbe stato in grado di affrontare, i riti dei barbari
non avrebbero rappresentato un difficile ostacolo anche per una sola
coorte. Solo i partecipanti avrebbero dovuto essere arrestati: la
tattica di lasciar liberi i semplici spettatori avrebbe ridotto
considerevolmente il risentimento dei montanari. In poche parole,
tanto i nostri princìpi che la nostra politica richiedevano
un’azione drastica.”
La
coorte affronta le montagne salendo per ripidi e stretti pendii,
accompagnata dal suono inquietante di tamburi lontani. Coloro che
procedono a cavallo sono costretti a farli fermare e a proseguire
senza, lasciandoli in custodia a una decina di uomini. Poco dopo, dal
basso giungono nitriti di cavalli imbizzarriti, mentre sulle cime di
fronte si accendono luci di fuochi. Cercano la guida e la trovano in
una pozza di sangue: si è suicidato dopo aver sentito le urla dei
cavalli.
FINALE:
“La
luce delle torce cominciò a impallidire e le grida dei legionari
terrorizzati si mescolarono con quelle incessanti dei cavalli. L’aria
si era fatta più fredda, certo più di quanto ci si possa aspettare
all’inizio di novembre, ed era agitata da folate terribili che non
potei fare a meno di attribuire al battito di ali gigantesche. La
coorte era paralizzata, e mentre le torce impallidivano vidi quelle
che mi sembravano ombre fantastiche giganteggiare nel cielo,
delineate dalla spettrale luminosità della Via Lattea che correva
attraverso Perseo, Cassiopea, Cefeo e il Cigno. Ma all’improvviso
le stelle furono cancellate dal cielo: perfino le splendide Deneb e
Vega che si trovavano davanti a noi, la solitaria Altair e Fomalhaut
alle nostre spalle. Quando le torce si furono spente definitivamente,
sulla coorte paralizzata e in preda al terrore non brillarono che le
orrende lingue di fiamma degli altari sui monti: fiamme rosse,
infernali, che ora permettevano di intravvedere le sagome colossali e
in movimento di mostri così estranei che mai prete frigio o indovino
campano s’era azzardato a parlarne nei suoi racconti.
E
su tutto le urla notturne di uomini e cavalli che il demoniaco
frastuono dei tamburi spingeva a vette sempre più disperate, mentre
dai monti proibiti calava un vento gelido e dotato di una tremenda
volontà, di una vitalità propria che gli permetteva di stringersi
intorno a ogni uomo separatamente, finché la coorte fu sopraffatta
dagli elementi e dal buio contro cui lottava invano, destinata a un
fato simile a quello di Laocoonte e dei suoi figli. Solo il vecchio
Scribonio Libone pareva rassegnato, e gridò alcune parole che
sovrastarono il fragore generale, e che ancora echeggiano nelle mie
orecchie: «Malitia
vetus, malitia vetus est… venit… tandem venit»
A
questo punto del sogno mi sono svegliato. È
stato il più vivido che abbia fatto in anni, e certo attinge a
profondità del subconscio che da tempo non venivano sfiorate, tanto
da sembrare addirittura dimenticate. Sul destino della coorte non
esistono dati storici, ma se non altro la città fu salvata, perché
le enciclopedie ci dicono che Pompelo è sopravvissuta fino a oggi
sotto il nome moderno di Pamplona…”
Che
il modo di sognare di Lovecraft fosse quantomeno particolare è cosa
nota. In questa sede abbiamo incontrato più volte alcuni racconti
nati proprio da un sogno e talvolta scritti subito dopo il risveglio
dall’autore, ancora non completamente lucido. La
dichiarazione di Randolph Carter
(1919), Nyarlathotep
e alcune parti di Celephaïs
(1920) sono nati proprio in questo modo. Stavolta però, da questa
avventura onirica, un racconto non venne mai realizzato, come invece
avrebbe voluto fare l’autore da quanto emerge da alcune lettere
inviate ad alcuni suoi amici di penna.
La
versione sopra riportata è infatti tratta da una missiva spedita a
Donald Wandrei del 3 novembre, ma ne esistono almeno altre due, una
all’interno di una lettera a Bernard Austin Dwyer (sempre di
novembre) e l’altra a Frank Belknap Long (spedita invece a
dicembre), in cui Lovecraft si dilunga in una introduzione dove
spiega all’amico il punto di partenza del futuro racconto che
elaborerà da questo sogno.
Poiché,
invece, non riuscirà mai a scriverlo, permetterà al suo amico F. B.
Long di inserirne alcune parti all’interno del suo romanzo breve
The
Horror from Hills
(“Weird Tales” gennaio-marzo 1931).
Dal
sogno-racconto emerge una conoscenza profonda del mondo romano, con i
suoi riferimenti al Santuario di Diana Aricina (o Nemorense) situato
a Nemi, e del suo “sacerdote sanguinario”, visto che in tempi
antichi si praticava un insolito sacrificio umano, nel quale il nuovo
sacerdote otteneva il suo ruolo solo se riusciva a uccidere il
sacerdote precedente durante un combattimento corpo a corpo.
Oppure
nella menzione del Senatus
consultum de Bacchanalibus,
del 186 a. C., decreto col quale furono vietati in tutta Italia i
baccanali, dopo una serie di processi che, ci dice Tito Livio,
condannarono a morte più persone di quante ne finirono incarcerate.
Luoghi:
Spagna, città provinciale di Pompelo, l’antica Pamplona;
Calagurris; Tarragona.
Personaggi:
L. Celio Rufo, questore provinciale; P. Scribonio Libone, proconsole;
Sesto Asellio, tribuno militare; Curio Balbuzio, legato della
regione; Tiberio Anneo Stilpone, edile; Elvia, madre dell’edile;
Antipater, schiavo greco; Vercellio, giovane guida; D. Vinulano,
sub-centurione.
Novembre.
Comincia il lavoro di revisione per Adolphe Danziger De Castro, col
quale inizia una corrispondenza che terminerà solo nel 1936. Tra il
dicembre del 1927 e il gennaio del 1928 rivede tre dei suoi racconti
tratti da un suo vecchio libro, In
the Confessional and the Following,
pubblicato nel 1893. Due vengono accettati da “Weird Tales”: The
Last Test
(pubblicato nel novembre del 1928) e The
Electric Executioner
(nell’agosto 1930).
Ebreo
nato in Polonia, De Castro a ventinove anni si trasferì negli Stati
Uniti, dove visse in diverse città, ed ebbe modo di conoscere
Ambrose Bierce, di cui poi scriverà una biografia nel 1929. Fu uno
dei fondatori della comunità sefardita di Los Angeles e affermò di
aver ricevuto l’ordinazione rabbinica.
L’ULTIMO
ESPERIMENTO
(THE
LAST TEST)
in
collaborazione con Adolphe De Castro (r. p.)
“Pochi
conoscono i risvolti del caso Clarendon o addirittura sono al
corrente che esistono risvolti sconosciuti alla stampa. Fece grande
scalpore a San Francisco nei giorni immediatamente precedenti
l’incendio, sia per il panico e la minaccia che l’accompagnarono,
sia perché vi era coinvolto il governatore dello Stato. Il
governatore Dalton, si ricorderà, era il miglior amico di Clarendon,
e più tardi ne sposò la sorella. Né Dalton né la sua signora
hanno mai parlato di quella penosa faccenda, ma in qualche modo una
ristretta cerchia di persone è venuta a conoscenza di come stavano
davvero le cose.”
Il
governatore James Dalton incontra a San Francisco, dopo dieci anni,
Alfred Clarendon, di cui era amico, e sua sorella Georgina, per la
quale spasimava ed era ricambiato, conosciuti quando le rispettive
famiglie vivevano a New York.
Divenuto
nel frattempo uno dei più grandi biologi e internisti, Clarendon
viene nominato da Dalton direttore del Servizio sanitario del
penitenziario di San Quentin. Con la sua esperienza maturata nei più
remoti angoli del pianeta, il dottore è alla ricerca di
un’antitossina basica capace di combattere ogni forma febbrile alla
radice. I Clarendon decidono di acquistare una villa con ampio
giardino nei pressi di Goat Hill, dove si trasferiscono assieme alla
servitù e al loro amato cane Dick, un grosso Sanbernardo.
“Incurante
delle cose materiali, con la classica trascuratezza del genio, Alfred
faceva totale affidamento sulla sorella, che si occupava di tutto, e
nell’intimo era grato che il ricordo di James l’avesse tenuta
lontana da altri legami più vincolanti.”
Georgina
non solo si occupa delle cose pratiche, ma appiana anche i numerosi
screzi con i colleghi e gli amici che il carattere scostante del
fratello causa di continuo.
“Il
dottore viaggiava molto, e generalmente la sorella lo accompagnava
negli spostamenti più brevi. In tre occasioni, tuttavia, aveva
compiuto lunghi e solitari viaggi in luoghi misteriosi e remoti per
studiare febbri esotiche e pestilenze semi favolose, perché egli
sapeva che è dalle sconosciute terre dell’antica e criptica Asia
che si diffondono gran parte delle malattie. Aveva fatto ritorno ogni
volta con singolari souvenir che si aggiungevano alle stranezze della
sua casa, tra cui il numero inutilmente sovrabbondante di domestici
tibetani scovati da qualche parte nell’U-tsang nel corso di
un’epidemia di cui il mondo mai sentì parlare, ma durante la quale
Clarendon aveva scoperto e isolato il germe della febbre nera. Questi
uomini, più alti della media dei tibetani ed evidentemente
appartenenti a una razza poco nota, erano d’una magrezza
scheletrica che induceva più d’uno a chiedersi se il dottore li
avesse scelti perché gli ricordavano i modelli anatomici degli anni
d’università. Intabarrati nelle ampie tuniche di seta nera dei
sacerdoti Bonpo che egli voleva indossassero, avevano un aspetto
oltremodo grottesco, e si muovevano con gesti rigidi e silenziosi che
accentuavano il loro sembiante fantastico, tanto che Georgina provava
la bizzarra e inquietante sensazione d’essere precipitata in
qualche pagina del Vathek
o delle Mille
e una notte.
Ma
il più strambo di tutti era il factotum, cui Clarendon si rivolgeva
chiamandolo Surama, che si era portato a casa dopo una lunga
permanenza in Nordafrica, dove aveva studiato certe strane febbri
intermittenti tra i misteriosi Tuareg del Sahara i quali, stando a
una vecchia diceria archeologica, discendono dalla razza primordiale
della perduta Atlantide. Surama, uomo di prodigiosa intelligenza e di
erudizione similmente inesauribile, era, al pari dei domestici
tibetani, d’una magrezza patologica: la nera pelle incartapecorita
aderiva tanto alla testa calva e al viso glabro che ogni linea del
cranio spiccava con spettrale risalto; l’effetto era accresciuto
dai neri occhi ardenti, incassati tanto profondamente nelle orbite da
lasciare scorgere solo le occhiaie vuote e scure.”
Il
dottore in breve tempo migliora l’efficienza della struttura
sanitaria, fino a quando il dottor Jones gli annuncia di aver
riscontrato in un paziente un grave caso di febbre nera. Clarendon
mette in isolamento l’uomo e comincia a curarlo. Inizialmente
sembra che il dottore sia riuscito a guarire il suo paziente, ma il
giorno dopo quest’ultimo muore. Due giorni dopo altri tre casi
vengono riscontrati e diventa chiaro a tutti che è in corso una vera
e propria epidemia. Nel giro di una settimana gli infettati arrivano
a quaranta e la notizia trapela all’esterno, dove la stampa scatena
il panico in città, provocando un esodo che rientra solo qualche
giorno dopo, quando si appura che l’infezione è rimasta confinata
all’interno del penitenziario. Alcuni dottori lo accusano di non
aver saputo arginare l’epidemia, mentre altri ne lodano
l’abnegazione con la quale ha saputo affrontarla. Molti giornalisti
prendono d’assedio la sua dimora e la scoperta dei bizzarri
domestici non fa che alimentare altre dicerie sul suo conto. Il
dottore però non bada affatto ai pettegolezzi, al contrario della
sorella che, preoccupata, fa sempre più affidamento sul governatore,
alimentando così le braci della vecchia fiamma che li aveva scaldati
in passato. Infatti, qualche tempo dopo, James Dalton annuncia al suo
amico Alfred di voler sposare la sorella, chiedendogli la sua
benedizione. La reazione del medico sorprende i giovani innamorati,
perché Alfred nega con freddezza il permesso al matrimonio,
ritenendo l’opera di Georgina indispensabile per il prosieguo delle
sue ricerche. A nulla valgono gli appelli di James, così Georgina
gli chiede di avere pazienza e lo convince ad aspettare ancora del
tempo, fino a quando il fratello, che evidentemente ha bisogno delle
sue cure e attenzioni, non avrà raggiunto i suoi agognati traguardi.
“Nel
frattempo a San Francisco, dove l’epidemia era sempre l’argomento
del giorno, cresceva l’odio per Clarendon. I casi al di fuori delle
mura del penitenziario erano pochissimi, per la verità, e quasi
interamente limitati ai bassifondi messicani, dove l’assoluta
mancanza di igiene faceva prosperare malattie d’ogni sorta; ma i
politicanti e la gente non avevano bisogno d’altro per confermare
gli attacchi dei nemici del dottore. Vedendo che Dalton non recedeva
di un passo nel difendere Clarendon, i malcontenti, i fanatici della
medicina e i loro tirapiedi rivolsero la loro attenzione alla
legislazione dello Stato; con grande astuzia raccolsero in un’unica
alleanza gli anticlarendonisti e i vecchi nemici del governatore, e
si prepararono a varare una legge, con una maggioranza a prova di
veto, che trasferiva il potere di nomina dei responsabili di
istituzioni minori dal capo dell’esecutivo, nella fattispecie il
governatore, ai vari enti e commissioni competenti.”
Chi
trama più di tutti è il braccio destro di Clarendon all’interno
del penitenziario, il dottor Jones, che mira a usurparne il posto.
Così, Alfred viene esautorato dall’incarico proprio quando,
secondo lui, gli sarebbero bastati solo altri tre mesi per mettere a
punto un vaccino che
avrebbe relegato la febbre tra i cattivi ricordi del passato.
Il famoso medico cade in depressione e per molto tempo non si dedica
più alle sue ricerche, rifiutando anche di cibarsi. Solo grazie
all’affetto di Georgina, lentamente, Alfred supera questo momento
di apatia e l’arrivo di una scatola da Algeri, presa inizialmente
in custodia da Surama, contribuisce a fargli tornare la voglia di
mettersi nuovamente a lavoro. Le povere cavie, alcune scimmiette che
Surama afferra quasi con piacere, spariscono rapidamente e Clarendon
trascorre la maggior parte del tempo in laboratorio, tanto che
talvolta la sorella va a letto senza neanche riuscire a vederlo per
la cena. Una notte, Georgina viene svegliata da una discussione
animata tra Surama e il fratello.
“Sebbene
non fosse stata sua intenzione origliare, Georgina colse qualche
frase di quella strana conversazione, e intuì un alcunché di
sinistro che la spaventò moltissimo, ancorché non capisse bene di
cosa si trattasse. La voce del fratello, tesa, tagliente, catturava
tutta la sua attenzione con inquietante intensità.
«E
in ogni modo» stava dicendo «non abbiamo abbastanza animali per un
altro giorno, e sai quanto sia difficile procurarsene una buona
scorta senza preavviso. Mi sembra stupido sprecare i nostri sforzi su
simile robaccia, quando, dandoci un po’ più da fare, potremmo
procurarci esemplari umani.»
Georgina
si sentì nauseata al pensiero delle possibili implicazioni che
quelle parole sottintendevano, e si aggrappò all’attaccapanni
dell’atrio per non cadere. Surama stava rispondendo con quella voce
bassa e cavernosa che sembrava riecheggiare il male di mille secoli e
di mille pianeti.
«Calma,
calma… hai la fretta e l’impazienza di un bambino! Sei troppo
precipitoso! Se tu fossi vissuto a lungo come me, tanto che un’intera
vita sembra un’ora soltanto, non ti scalderesti così per un
giorno, una settimana o un mese! Lavori troppo in fretta. Nelle
gabbie ci sono esemplari per almeno un’altra settimana se soltanto
lavorassi meno freneticamente. Potresti anche cominciare con il
materiale più vecchio, se tu fossi sicuro di non esagerare.»”
Surama
prosegue facendo riferimento ad altre cavie umane che si è già
procurato, ma che sarebbe difficile procacciarsi ancora, e suggerisce
a Clarendon di servirsi di Tsanpo, uno degli inservienti tibetani.
Georgina, a questo punto, torna spaventata nella sua stanza.
Il
giorno dopo, per un caso fortuito, la donna assiste da lontano alla
lotta tra Surama e Tsanpo nel giardino vicino al laboratorio, nel
quale viene trascinato infine il tibetano. Trascorre una notte
insonne e il giorno dopo, vedendo suo fratello fare la spola tra la
casa e il laboratorio per tutto il giorno in preda a una forte
tensione, quando la sera lo trova in biblioteca gli domanda cosa lo
preoccupi tanto, sperando che le dica qualcosa a proposito del povero
Tsanpo. Ma il dottore non fa alcun accenno al tibetano, si lascia
andare invece a uno sfogo isterico e quando la sorella gli domanda:
“«Ma
sei veramente convinto che la tua scoperta sarà tanto utile
all’umanità da giustificare simili sacrifici?»
Gli
occhi di Clarendon brillarono di una luce pericolosa.
«L’umanità!
Cosa diavolo è l’umanità! La scienza! Imbecilli. Solo individui,
ancora e poi ancora! L’umanità è fatta per i predicatori, per cui
significa soltanto ciechi creduloni; è fatta per la rapacità dei
ricchi, per cui significa denaro; è fatta per i politicanti, per cui
significa potere collettivo da usare a proprio vantaggio! Cos’è
l’umanità? Niente! Grazie a Dio questa rozza illusione non è
durata! Ciò che un uomo maturo adora è la verità… la conoscenza…
la scienza… la luce… strappare il velo e dissipare le ombre! C’è
morte nei nostri riti, la scienza è il nostro Moloc! Dobbiamo
uccidere… sezionare… distruggere… tutto per amore della
scoperta… il culto della luce ineffabile. La dea Scienza lo
pretende. Sperimentiamo un veleno dubbio uccidendo. Come potremmo
fare, diversamente? Non è possibile pensare al singolo individuo…
solo alla scienza… è necessario conoscere gli effetti.»”
Georgina,
scossa dalle parole del fratello, replica dicendogli che ciò che ha
appena affermato è orribile, ma lui risponde concludendo:
“«Sì,
sarà orribile ma è anche stupendo. La ricerca della conoscenza,
voglio dire. Certamente, nulla concede al sentimentalismo. Del resto,
anche la Natura non uccide sistematicamente, continuamente, e
soltanto gli idioti inorridiscono di questa incessante lotta per la
vita? Uccidere è necessario. È
la gloria della scienza. Impariamo qualcosa anche da ciò, e non
possiamo sacrificare la conoscenza ai sentimenti. Sai come gridano i
sentimentali contro la vaccinazione! Hanno paura che uccida il
bambino. E con ciò? Come potremmo, diversamente, scoprire
l’incubazione e lo sviluppo della malattia? In quanto sorella di
uno scienziato potresti far di meglio che cianciare di sentimenti.
Dovresti cercare di aiutarmi nel mio lavoro anziché crearmi
problemi!»”
A
questo punto Clarendon esce dalla casa, seguito però dalla sorella e
una volta all’esterno vedono Surama chino sul corpo di Dick, il
cane Sanbernardo, steso a terra con gli occhi arrossati e la lingua
fuori. La donna prega il fratello di salvarlo, ma lui le risponde con
distacco che deve aver contratto la febbre e ordina all’aiutante di
portarlo in laboratorio, dopo di che si reca in biblioteca e comincia
a leggere un vecchio e grosso libro già aperto sul tavolo. A questo
punto Georgina, seriamente preoccupata, si decide a inviare un
messaggio a James Dalton.
In
attesa dell’arrivo del governatore, la ragazza, che non si era mai
avvicinata al laboratorio del fratello per non disturbarlo, decide di
entrare nell’edificio con l’intenzione di scoprire i motivi di
tutta quella segretezza. Arrivata alla porta interna, chiusa a
chiave, ascolta un’altra conversazione animata tra Alfred e Surama.
“«Tu,
maledetto… sei proprio il più adatto a predicare moderazione, a
parlare di sconfitta! Chi ha dato inizio a tutto ciò, d’altra
parte? Io
non avevo la più pallida idea dei tuoi dannati dèi-demoni e del tuo
antico mondo! Io
non avevo mai pensato in vita mia ai tuoi stramaledetti spazi al di
là delle stelle e a quel tuo caos strisciante, Nyarlathotep! Ero un
comunissimo scienziato, dannazione a te, finché non sono stato tanto
sciocco da tirarti fuori dalle cripte con i tuoi diabolici segreti di
Atlantide! Tu mi hai istigato, e adesso vuoi tagliarmi fuori! Ti
ciondoli in giro senza far niente e mi dici di andarci piano, invece
di uscire e procurarmi del materiale. Lo sai bene, maledetto, che non
so come trattare queste cose, mentre tu ne eri già pratico prima che
si formasse la Terra. È degno di te, dannato cadavere ambulante,
cominciare qualcosa che non vuoi o non puoi finire!»
Georgina
udì la malefica risata di Surama.
«Sei
pazzo, Clarendon. Questa è l’unica ragione per cui ti permetto di
dire simili spropositi invece di spedirti all’inferno in tre
minuti. Quando è troppo è troppo, e tu hai già avuto per le mani
materiale più che bastante per un novizio del tuo livello. E, in
ogni modo, non ti procurerò più nulla! Ormai sei soltanto un
maniaco… che cosa folle e assurda sacrificare anche il cane della
tua povera sorella, quando avresti benissimo potuto risparmiarlo! Non
puoi più guardare nessun essere vivente senza desiderare di
conficcargli in corpo quella tua siringa d’oro. No… Dick doveva
finire nello stesso posto dove è finito il bambino messicano…
Tsanpo e gli altri sette… dove sono finiti tutti gli animali! Che
razza di allievo! Non sei più divertente… hai perso la testa.
Volevi controllare le cose, ma sono le cose a controllarti. Ho chiuso
con te, Clarendon. Avevo pensato che avessi stoffa, ma non è così.
È tempo che provi con qualcun altro. Temo che dovrai andartene!»
Il
dottore urlò una risposta in cui si mescolavano paura e parossismo.
«Bada
a te…! Vi sono poteri che si oppongono efficacemente ai tuoi… non
sono andato fino in Cina per niente, e ci sono cose nell’Azif
di Alhazred sconosciute all’antica Atlantide! Entrambi abbiamo
avuto a che fare con cose pericolose, ma non pensare di conoscere
tutte le mie risorse. Che mi dici della Nemesi di Fuoco? Nello Yemen
ho avuto modo di parlare con un vecchio che era uscito vivo dal
Deserto Scarlatto… aveva visto Irem, dalle mille colonne, e
partecipato ai rituali nei templi sotterranei di Nug e di Yeb… Iä!
Shub-Niggurath!»
La
beffarda risata di Surama sovrastò la voce in falsetto di Clarendon.
«Taci,
idiota! Pensi che le tue grottesche sciocchezze mi impressionino?
Parole e formule… parole e formule… che significato possono avere
per chi ne domina la sostanza? Adesso ci troviamo in una dimensione
materiale, soggetta alle leggi della materia. Tu hai la tua febbre,
io il mio revolver. Non avrai altri esemplari e io non prenderò
febbri di sorta finché tra noi due ci sarà questo revolver!»”
Georgina
rientra in casa sconvolta e si accascia sul divano. La sera il
fratello, rientrando e vedendola in quello stato, si preoccupa. La
ridesta con dell’acqua che le spruzza sul viso e mostra una sincera
apprensione nei suoi confronti, tanto che Georgina ritrova in quegli
istanti il fratello di una volta, prima che i suoi interessi lo
trasformassero in qualcuno che non riconosce più. Poco dopo però,
quando Alfred si rende conto che Georgina sta meglio, cambia
atteggiamento.
“La
paura del fratello svanì in un istante, e sul suo volto apparve
un’espressione indefinita, vagamente assorta, come se stesse
considerando qualche imprevista e meravigliosa possibilità. Mentre
osservava l’alternarsi di sfumature astute e compiaciute nei
lineamenti di Clarendon, si pentì di averlo rassicurato, rendendosi
conto che non era stato molto saggio, e prima che egli parlasse
scoprì di rabbrividire senza sapere perché.”
Nella
mente dello scienziato, infatti, sta maturando l’idea di usare la
sorella come ennesima cavia per i suoi esperimenti e si allontana per
preparare la siringa. Per fortuna proprio in quel momento arriva
Dalton, al quale Georgina rivela tutto ciò che è accaduto negli
ultimi giorni. Quando Clarendon ritorna si stupisce per questa visita
imprevista, ma l’uomo si dimostra preparato a una simile domanda,
perché tira fuori dalla tasca della giacca una rivista medica in cui
compare un articolo in cui si annuncia che è stato trovato un siero
per debellare la febbre nera. Questo è il motivo per cui si è
precipitato da lui, afferma. Lo scienziato è turbato, ma anche
irritato da questa notizia, così si precipita a leggere l’articolo
e, almeno per il momento, sospende l’iniezione che vuole eseguire.
Georgina ne approfitta per recarsi nella sua stanza.
“Osservando
Clarendon mentre leggeva, Dalton vide che il suo volto pallido,
incorniciato dalla barba, sbiancava. I grandi occhi lampeggiavano e
le pagine crocchiavano nella presa convulsa delle lunghe dita
sottili. L’alta fronte, bianca come l’avorio, era madida di
sudore dove l’attaccatura dei capelli cominciava a diradarsi, e
qualche istante dopo il medico si lasciò cadere stravolto sulla
sedia lasciata libera dal visitatore. Poi gettò un grido selvaggio,
come una belva in trappola, e barcollando in avanti spazzò via dal
tavolo con le braccia protese libri e carte, prima che la sua
coscienza si appannasse come la fiammella d’una candela spenta dal
vento.”
FINALE:
Dopo che l’amico lo ha rianimato, Clarendon prende la siringa che
aveva preparato per la sorella e si inietta il suo contenuto nel
braccio, poi confessa all’amico che a trascinarlo in questa storia
è stato Surama, il quale probabilmente non è nemmeno un essere
umano, e che non ha mai realmente cercato un’antitossina per
debellare la febbre nera!
Surama
è una creatura antichissima che gli ha insegnato a venerare blasfemi
e primordiali dèi, e che la febbre nera fa parte di uno dei suoi
culti. Infine gli annuncia che non esiste alcuna antitossina per la
febbre nera che conosce lui, perché non è una malattia di questo
mondo ed è stato proprio lui, persuaso da Surama, a diffonderla! La
scoperta del dottor Miller potrà curare una febbre nera terrestre,
ma non questa. Forse solo tra cinquanta anni lo si potrà fare, ma
solo dopo numerose modifiche.
A
questo punto Clarendon confessa anche di aver provato piacere,
accecato dalla volontà di uccidere, a inoculare il morbo in ogni
essere vivente: animali, delinquenti, bambini, domestici, e poi
sarebbe toccato perfino a Georgina.
Tuttavia,
tornato definitivamente lucido, Clarendon ha deciso di essere il
soggetto per il suo ultimo esperimento. Infine, prima che muoia,
illustra dettagliatamente a Dalton cose deve fare, ovvero distruggere
col fuoco l’intero laboratorio, compreso lo stesso Surama.
Aggiungendo però che forse solo la Nemesi di Fuoco è in grado di
eliminarlo per sempre. Dalton però, mentre è ancora indeciso se
cercare di aiutare il suo amico o di eseguire le istruzioni di
Alfred, crolla esausto non appena si siede su una sedia.
Il
governatore viene svegliato da un bagliore proviene dall’esterno.
Si tratta del laboratorio che sta andando a fuoco. Forse allora
Clarendon ha evocato davvero la misteriosa Nemesi di Fuoco, si chiede
l’uomo. Accanto a sé non c’è più Alfred e mentre si avvicina
alla finestra aperta per osservare meglio, vede che anche Georgina è
scesa, svegliata anche lei dall’incendio. Da fuori si ode una
risata maligna, appartenente a Surama, e proprio nel momento in cui i
due si affacciano alla finestra per guardare meglio, un fulmine
colpisce in pieno il centro dell’edificio già in fiamme.
“La
risata agghiacciata morì, sostituita da un ululato infernale che
sembrava prorompere da mille ghoul e lupi mannari torturati. Si
spense in lontananza in echi riverberanti, e lentamente le fiamme
riassunsero un aspetto normale.”
Le
autorità trovano i resti carbonizzati di un uomo e di un altro
essere solo parzialmente umano, perché soltanto il cranio sembra
appartenere a una persona, il resto del corpo è in parte sauro e in
parte scimmiesco.
Scrivono
Fusco e Pilo nella nota al racconto pubblicato nel loro Mammut della
Newton & Compton: “Questo
racconto venne scritto alla fine del 1927 da Lovecraft per Gustav
Adolf Danziger (1858-1959), un dentista tedesco trasferitosi negli
Stati Uniti nel 1886. Acquisita la cittadinanza americana, divenne
Console Generale degli USA a Madrid. Appassionato di narrativa
fantastica, era molto noto nell’ambiente dei fans,
che frequentava assiduamente. Uno di questi lo mise in contatto con
Lovecraft, al quale consegnò, pregandolo di rivederli, un gruppo di
suoi manoscritti già pubblicati nel 1893 in una raccolta intitolata
In
the Confessional and the Following.
Lovecraft (come si legge in una lettera inviata a Frank Belknap Long
nel dicembre del 1927) definì indescrivibili ed esecrabili i testi
inviatigli, e di conseguenza li riscrisse per intero, conservando
soltanto il senso generale della trama e i nomi di alcuni personaggi.
Il testo è dunque del tutto opera sua. Danziger non accolse di buon
grado la cosa: rispedì il materiale a Lovecraft, affermando che di
suo non era rimasto nulla, e che almeno una parte delle sue idee
doveva essere reinserita. Lovecraft si rifiutò di effettuare
qualsiasi modifica e rimandò i racconti al diplomatico, che alla
fine decise di utilizzarli pubblicandoli con lo pseudonimo di Adolphe
de Castro.
In
The
Last Test,
che Lovecraft – secondo quanto confidò all’amico Frank B. Long -
impiegò un mese a scrivere, si ritrova un concetto fondamentale
nella narrativa lovecraftiana, quello del Male venuto da ère
precedenti la nascita dell’uomo. The
Last Test
a sua volta, però, presenta un particolare assai significativo: il
Male giunge a contaminare anche il mondo della scienza (una occasione
di più perché l’autore polemizzi, non tanto con quest’ultima,
quanto con la mentalità ad essa connessa). Ciò in una ambientazione
e con un contorno di situazioni psicologiche (la famiglia, l’amore)
insolite in Lovecraft, e dovute evidentemente alla necessità di
mantenere il soggetto e i personaggi di Danziger.”
(Lovecraft.
Tutti i romanzi e i racconti,
a cura di G. Pilo e S. Fusco, 4ª edizione, Newton Compton Editori,
2011)
Queste
le parole usate da Lovecraft nella lettera del 27 dicembre 1927
inviata a Long, di cui parlano Pilo e Fusco: “Sto
invocando il tuo aiuto per la questione del vecchio Dolph! È così
dannatamente pignolo che per me non è più una proposta vantaggiosa,
perché la sua narrativa è indicibile, la sua capacità di pagamento
scarsa e le sue richieste di revisione - dopo la sua prima versione -
rilevanti. Sono quasi scoppiato per l’estenuante monotonia di
questa cosa sciocca che ho ribattezzato L'ultimo
esperimento di Clarendon...
Ora, dopo averci pensato su, ha deciso di usare il racconto proprio
come l'avevo sistemato. Vaya con Dios, Don Adolfo, ecco un revisore
che non solleverà alcuna controversia per rivendicare la paternità
di questo pasticcio bestiale!”
Il
racconto, effettivamente, non si può annoverare tra quelli fra i
migliori scritti dall’autore. Clarendon somiglia un po’ a Herbert
West per la sua ossessione (Herbert
West, Reanimator,
1921-1922), e a Joseph Curwen per l’uso delle arti magiche (The
Case of Charles Dexter Ward,
1927), ma
non possiede nemmeno un grammo del carisma di questi personaggi.
Di
contro, però, c’è il curioso fatto che Lovecraft debba misurarsi
con una storia d’amore, caso piuttosto insolito per la sua
narrativa, e a fare un uso massiccio del discorso diretto, espediente
che nei suoi racconti viene utilizzato raramente.
Un
po’ forzoso appare il tentativo di farne un altro tassello del
“Ciclo di Arkham”, perché i Grandi Antichi e gli Altri Dèi
restano solo sullo sfondo, senza mai manifestarsi. Vediamo così
nominare Yog-Sothoth (che Clarendon ha sentito invocare da un vecchio
cinese) e Nyarlathotep. È
invece citato per la prima volta Shub-Niggurath, assieme ad altre due
divinità alle quali – ci viene detto - sono stati eretti dei
templi sotterranei, ovvero Nug e Yeb, che non sono altro che due
gemelli nati dall’accoppiamento tra Shub-Niggurath e Yog-Sothoth.
Questo lo si apprende da un paio di lettere del vasto epistolario di
Lovecraft. Tra
tutti questi, tuttavia, appare un’entità presente solo in questo
racconto e che incarna il deus
ex machina
della storia, la fantomatica
Nemesi di Fuoco
che distrugge sia il laboratorio che Surama nel finale.
Interessante
può essere invece l’idea che anche nell’antica Atlantide c’era
chi si dilettava a evocare gli Altri Dèi e i Grandi Antichi. Da lì,
infatti, proviene Surama, il quale potrebbe essere un sacerdote di
quell’antica civiltà che, grazie alle arti magiche, è riuscito a
prolungare la sua vita. Però nel finale scopriamo che è umano solo
per metà. Dunque gli atlantidei erano una razza non umana? Non è
detto, poiché Surama potrebbe essersi trasformato proprio in virtù
dell’uso sconsiderato di quella magia che lo ha reso quasi
immortale. Però una razza di sauri appare anche nel racconto del
1920, La
Città senza Nome,
la quale si trova anch’essa fra le sabbie del deserto del Sahara,
mentre una razza anfibia compare in La
rovina di Sarnath,
del 1919. Pertanto resta il dubbio che gli atlantidei potessero
essere una razza non umana.
Luoghi:
New York; San Francisco: penitenziario di San Quentin; Market Street,
dove i due vecchi amici si rincontrano, davanti al Royal Hotel; Villa
Bannister, a Goat Hill, dove decide di risiedere Clarendon assieme
alla sorella e alla servitù; Hoggar (o Ahaggar), massiccio montuoso
che si trova nel cuore del Sahara, è qui che Clarendon, grazie ai
tuareg, scopre l’esistenza di Surama; Irem, dalle mille colonne, è
solo citata.
Personaggi:
dottor Alfred Schuyler Clarendon, biologo e internista; Georgina
Clarendon, sorella di Alfred; governatore James Dalton, amico di
vecchia data della famiglia Clarendon; Surama, assistente personale
del dottor Clarendon; dottor Wilfred Jones, dipendente del comune;
Margarita, vecchia cuoca messicana alle dipendenze dei Clarendon;
Tsanpo (domestico tibetano); Dick, cane Sanbernardo dei Clarendon;
dottor Mac Neil, socio del club a cui appartiene il governatore
Dalton, al quale mostra l’articolo in cui si annuncia che è stato
trovato un rimedio per la febbre nera; dottor Miller, medico di
Filadelfia che scopre il siero per debellare la febbre nera.
INCONTRO
NELLA BRUGHIERA
(o
LA CREATURA ILLUMINATA DALLA LUNA, 24 novembre)
Il
seguente estratto non è altro che un sogno fatto da Lovecraft e
raccontato a Donald Wandrei, per iscritto, all’interno di una
lettera datata 24 novembre 1927. Non ha dunque un titolo, ma è stato
poi pubblicato da August Derleth - con l’aggiunta di un prologo e
un epilogo e col titolo di “La Creatura illuminata dalla Luna” -
il quale gli ha assegnato il 1934 come anno di stesura. Poiché non
si è certi che il prologo e l’epilogo li abbia scritti Lovecraft,
come invece affermava Derleth, ho preferito includere all’interno
di questa biobibliografia la versione che lo scrittore inviò per
lettera all’amico.
“Una
scena è rimasta impressa in particolare nella mia memoria: quella di
una palude umida, fetida e infestata da erbacce che si stendeva sotto
un grigio cielo autunnale, contro il quale si profilava a
settentrione un’alta parete di roccia incrostata di licheni. Spinto
da un oscuro impulso, cominciai ad ascendere un costone della ripida
pendice, notando nel corso della scalata l’aprirsi di immense
bocche nere di burroni e fenditure che affondavano nella profondità
della parete rocciosa. In diversi punti, il passaggio era oscurato
dall’ombra di rocce sporgenti; e allora la tenebra era così nera
da impedirmi di notare l’aprirsi di spaccature improvvise.
Nell’attraversare quelle zone, venivo colto da un singolare brivido
di terrore, come se delle sottili e immateriali emanazioni
dell’abisso soverchiassero il mio spirito: tuttavia le tenebre
erano tali da impedirmi di scorgere una qualsiasi ragione obiettiva
che giustificasse il mio senso di allarme. Alla fine, emersi su una
vasta pianura di rocce coperte di muschi e terra brulla, illuminata
da un debole chiarore lunare che aveva sostituito la fosforescenza
del crepuscolo. Gettando lo sguardo all’intorno, non vidi essere
vivente; mi accorsi però di uno strano e inquietante movimento tra
le erbe della fetida palude che avevo lasciato lontano, sotto di me.
Dopo
aver camminato per qualche tempo, incontrai la doppia fila di un
rugginoso binario del tram, accanto al quale si levavano i pali
corrosi che ancora sostenevano una linea elettrica allentata e
ondeggiante. Seguendoli, incontrai una gialla vettura tranviaria (ne
ricordo il numero: 1852), del tipo a doppia snodatura diffuso tra il
1900 e il 1910. Non aveva guidatore, ma era evidentemente pronta a
partire, perché le antenne erano sollevate a contatto con la linea
elettrica, e si sentiva il vibrare del generatore nascosto al di
sotto.
Salii,
cercando invano un interruttore per accendere le luci all’interno.
Quindi mi accomodai su un sedile centrale, e mi disposi ad attendere
l’arrivo del conducente e del bigliettaio. Dopo un poco, sentii un
fruscio tra le erbe alla mia sinistra, e apparvero le sagome scure di
due individui che avanzavano nel chiaro di luna. Avevano i
caratteristici berretti degli impiegati dell’azienda tranviaria, e
non dubitai che fossero coloro che aspettavo. Poi, uno di loro annusò
l’aria in modo strano, e alzò il volto per ululare all’indirizzo
della Luna. L’altro si mise a quattro zampe, e iniziò a correre
intorno alla vettura.
A
tale vista, balzai in piedi come un folle, scesi dal tram e cominciai
a fuggire per la pianura desolata, finché non mi destai, esausto
come per una vera corsa. E ciò che mi aveva spinto alla fuga non era
il fatto che una figura si fosse messa a correre a quattro zampe, ma
che l’altra, ululando alla luna, avesse rivelato al posto della
testa un cono bianco e disgustoso dal quale spuntava un lungo
tentacolo rosso sangue…”
Nonostante
la sua estrema brevità, questo racconto si dimostra alquanto
efficace. Prima lo scrittore prepara la giusta atmosfera con la
descrizione del luogo in cui si trova, poi ci sorprende inizialmente
con elementi cittadini che parevano estranei a quanto scritto fino a
un momento prima e in seguito con l’apparizione di quelli che
sembrano due lupi mannari, fino a raggiungere il climax
con un sorprendente finale.
STORIA
DEL NECRONOMICON
(HISTORY
OF THE NECRONOMICON)
“Titolo
originale Al
Azif:
questa è la parola usata in arabo per indicare il rumore notturno
prodotto da certi insetti, e che si crede sia anche il verso dei
demoni.
Il
testo fu composto da Abdul Alhazred, poeta pazzo di Sanaa nello
Yemen, forse fiorito all’epoca dei califfi Omayyadi intorno al 700
d.C. Costui visitò le rovine di Babilonia e le segrete sotterranee
di Menfi, dopodiché trascorse dieci anni nel grande deserto
meridionale d’Arabia, il Roba el Khaliyeh o “Spazio Vuoto”
degli antichi e il Dahna o Deserto Scarlatto degli arabi moderni, che
lo ritengono protetto da spiriti maligni e abitato da mostri letali:
coloro che sostengono di averlo attraversato ne raccontano
meraviglie.
Nei
suoi ultimi anni Abdul Alhazred abitò a Damasco, dove il
Necronomicon
(Al
Azif)
fu scritto; sulla morte o scomparsa del poeta, avvenuta nel 728 d.C.,
si raccontano molte cose terribili e spesso contrastanti. Un biografo
del sec. XII, Ebn Khallikan, riferisce che fu afferrato da un mostro
invisibile nella piena luce del giorno e divorato davanti a un gran
numero di testimoni agghiacciati. Sulla pazzia di Abdul Alhazred si è
a lungo speculato. Sosteneva di aver visto la favolosa Irem, Città
delle Colonne, e di aver trovato sotto le rovine di una sconosciuta
metropoli del deserto i segreti e gli annali mostruosi di una razza
più antica dell’umanità; non era di fede musulmana, ma adorava
entità sconosciute che chiamava Yog-Sothoth e Cthulhu.
Nel
950 d.C. l’Al
Azif,
che aveva ottenuto una discreta e ufficiosa diffusione tra i filosofi
del tempo, fu tradotto segretamente in greco da Teodoro Fileta di
Costantinopoli, che gli attribuì il titolo di Necronomicon.
Per un secolo circa il grimorio spinse alcuni sperimentatori a
compiere terribili esperienze, finché venne bandito e fatto bruciare
dal patriarca Michele. In seguito se ne è sentito parlare poco e
segretamente, ma nel 1228 Olaus Wormius ne fece una traduzione in
latino medievale che fu stampata due volte: una nel XV secolo in
caratteri gotici (evidentemente in Germania) e l’altra nel XVII,
probabilmente in Spagna. Entrambe le edizioni non hanno data né
altri segni di identificazione, ed è possibile stabilire una
collocazione geografico-temporale solo in base alle caratteristiche
tipografiche interne.
Tanto
la versione greca che quella latina furono messe all’indice nel
1232 da papa Gregorio IX: evidentemente la traduzione del Wormius,
avvenuta poco prima, aveva richiamato l’attenzione della Chiesa.
L’originale arabo era da considerarsi perduto già ai tempi di
Wormius, come da lui indicato nell’introduzione all’opera; quanto
alla versione greca – che fu stampata in Italia fra il 1500 e il
1550 – nessun esemplare è stato più visto dopo l’incendio di
una certa biblioteca privata a Salem, nel 1692. Una traduzione
inglese effettuata dal dottor Dee non fu mai stampata ed esiste solo
in frammenti recuperati dal manoscritto originale. Del testo latino
esiste una copia (ed. sec. XV) nella sezione riservata del British
Museum, mentre un’altra (sec. XVII) si trova nella Bibliothèque
Nationale di Parigi. Altri esemplari del sec. XVII sono reperibili
presso la Winder Library ad Harvard, nella biblioteca della
Miskatonic University ad Arkham e in quella dell’università di
Buenos Aires.
È
probabile che numerose altre copie esistano in segreto, e pare che un
esemplare del sec. XV faccia parte della collezione di un famoso
milionario americano. Una voce ancora più vaga attribuisce la
conservazione di una copia del testo greco (XVI secolo) alla famiglia
Pickman di Salem: ma se anche così fosse, è probabile che sia
scomparsa con l’artista R. U. Pickman all’inizio del 1926. Il
libro è rigorosamente vietato dalle autorità di molti paesi e da
tutte le fedi organizzate. La sua lettura produce orribili
conseguenze. Pare che voci riguardanti quest’opera (pressoché
sconosciuta al grande pubblico) abbiano ispirato a R. W. Chambers
l’idea centrale di uno fra i suoi primi libri, Il
re in giallo.”
Cronologia
Al
Azif
scritto intorno al 730 d.C. a Damasco da Abdul Alhazred
Tradotto
in greco nel 950 d.C. come Necronomicon
di Theodorus Philetas
Bruciato
dal Patriarca Michele nel 1050 (il testo greco). Il testo arabo
invece è andato perduto.
Olaus
lo traduce dal greco al latino nel 1228
Nel
1232 edizione latina (e greca) soppresse da Papa Gregorio IX
14...
Edizione stampata in lettere nere (in Germania)
15...
Testo greco stampato in Italia
16...
Ristampa spagnola del testo latino
La
storia del Necronomicon è tutta in questo testo che, data la sua
brevità, ho riportato per intero. A partire dalle
sue origini, ad opera di Abdul Alhazred, vissuto nello Yemen nel 700
d. C. e che gli attribuì il nome di Al
Azif,
fino al suo possesso da parte della famiglia Pickman.
Un
suggestivo percorso cronologico che, più che un racconto vero e
proprio, sembra un
elaborato appunto per
eventuali racconti futuri.
Vengono
citati i racconti La
Città senza Nome,
del 1921 (“Sosteneva
di aver visto la favolosa Irem, Città delle Colonne, e di aver
trovato sotto le rovine di una sconosciuta metropoli del deserto i
segreti e gli annali mostruosi di una razza più antica
dell’umanità”)
e Il
Modello di Pickman,
del 1926 (Una
voce ancora più vaga attribuisce la conservazione di una copia del
testo greco (XVI secolo) alla famiglia Pickman di Salem: ma se anche
così fosse, è probabile che sia scomparsa con l’artista R. U.
Pickman all’inizio del 1926).
Luoghi:
Sanaa, nello Yemen; le rovine di Babilonia; le segrete sotterranee di
Menfi; il
deserto
meridionale d’Arabia; Damasco; Irem, la città delle Colonne, e La
Città senza Nome; Costantinopoli; varie università che, si dice,
conservino il testo proibito.
Personaggi:
Abdul Alhazred, poeta pazzo, estensore del pericoloso grimorio; Ebn
Khallikan, un biografo arabo del XII secolo; Teodoro Fileta,
traduttore del testo dall’arabo al greco; patriarca Michele, che ne
ordinò la distruzione; Olaus Wormius, colui che lo tradusse in
latino medievale; Gregorio IX, il papa che lo mise all’indice nel
1232; John Dee, personalità poliedrica alla corte della regina
Elisabetta I.
Dicembre-gennaio.
Sonia Greene, dopo aver inizialmente rifiutato un lavoro ben pagato a
Chicago per stare più vicino al marito continuando a vivere a New
York, in estate cambia idea. Lavora nella ‘Windy City’ da luglio
a dicembre ma, in occasione delle vacanze di Natale, si stabilisce a
Providence per diverse settimane, in modo da poter trascorrere con il
marito il periodo delle vacanze. Una sua testimonianza ci racconta
quanto Lovecraft non sopportasse le basse temperature.
“Faceva
molto freddo quell’inverno, a Providence, ma poiché il clima
freddo mi piaceva, convinsi H.P. ad accompagnarmi in alcune
passeggiate ed escursioni. Howard tuttavia non sopportava
assolutamente le temperature rigide, cosicché dovevo aiutarlo a
salire pendii e colline, camminandogli accanto, cingendogli la vita
con un braccio e sorreggendogli l’altro. Ad un certo punto, durante
una delle nostre passeggiate, mi resi conto che non ce la faceva più;
in simili frangenti di solito chiamavo un taxi, ma in quel momento
non ne passava neanche uno e non intendevo certo lasciarlo da solo in
quelle condizioni per andare a cercare un taxi. Come Dio volle,
riuscimmo a tornare a casa; gli tolsi subito le scarpe e cominciai a
frizionargli i piedi intirizziti dal freddo. Era semisvenuto mentre
giaceva sul letto. Dopo avergli ‘scongelato’ mani e piedi, gli
preparai una tazza di tè bollente al limone colma di zucchero. Mi
era estremamente grato per le mie premure.”
(Vita
privata di H. P. Lovecraft,
AA.VV., a cura di C. De Nardi, Reverdito Editore, 1987)
(fine
12° parte)
Sergio
Climinti
Note.
Per
stilare la seguente biobibliografia ho fatto riferimento ai quattro
volumi editati dalla Mondadori tra la fine degli anni ’80 e gli
inizi dei ’90, Tutti
i racconti
(più volte ristampati) e il volume Lettere
dall’altrove
(1993), una selezione di lettere estratte dal vasto epistolario
dell’autore, tutti curati da Giuseppe Lippi. Più il poderoso
mammut dedicato a Lovecraft dalla Newton Compton, Lovecraft
Tutti i romanzi e i racconti
(2011, quarta edizione) a cura di Gianni Pilo e Sebastiano Fusco.
Oltre naturalmente a una serie di siti sul web, su tutti The
H. P. Lovecraft Archive,
consultato per una più precisa cronologia delle sue opere.
-
La sottolineatura
che appare nei titoli dei racconti originali (tra parentesi), sta ad
indicare il filo comune che li lega al famoso “Ciclo di Arkham”,
o “Miti di Cthulhu”.
-
I titoli dei racconti non in grassetto sono quelli giovanili, quelli
scritti in collaborazione e quelli che destinava ai suoi
corrispondenti, che non era interessato a pubblicare.
-
La data che compare, a volte, dopo il titolo in lingua originale (che
si trova tra parentesi) si riferisce a quella di stesura.
-
I racconti scritti in collaborazione sono divisi fra “revisioni
primarie” (r. p.) per quei lavori scritti per la maggior parte
dall’autore, e “revisioni secondarie” (r. s.) fatte di
interventi tesi per lo più a migliorarli. Tali sigle sono riportate
tra parentesi, dopo il nome dell’autore che ha lavorato con
Lovecraft.
-
Il corsivo usato all’interno dei racconti ne individua il testo
originale, nella traduzione offerta dai quattro volumi della
Mondadori sopra indicati, nella maggior parte dei casi di Giuseppe
Lippi.
-
Al termine di alcuni racconti la parola FINALE avverte il lettore che
nelle prossime righe viene svelato il finale della storia.
N.B. Trovate i link alle altre parti della biografia lovecraftiana nella pagina dedicata e nella Biblioteca di Altrove!
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