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lunedì 18 marzo 2019

DIME WEB INTERVISTA GIGI "SIME" SIMEONI! (LE INTERVISTE LXVI)

a cura di Elio Marracci


Quando la storia diventa fumetto

Gigi Simeoni, che si firma spesso con lo pseudonimo Sime, è nato a a Brescia il 4 settembre 1967. Inizia a lavorare nel settore pubblicitario per poi creare i personaggi comici e grotteschi di Zompi, Dr Jekill & Mrs. Hyde e il Lupo Mannaggia per la Acme/Macchia Nera. Successivamente collabora con Bonvi sulle pagine di "Nick Carter", pubblicando il personaggio umoristico di Mac Murphy, e si dedica al fumetto realistico disegnando, all'inizio degli anni '90, un albo di "Lazarus Ledd" delle Edizioni Star Comics e alcune storie per L'Intrepido dell'editrice Universo. In seguito, insieme con altri fumettisti bresciani, crea la collana horror-poliziesca "Full Moon Project", che anticipa di qualche anno l'idea centrale della serie TV "X-Files", e il serial cyberpunk "Hammer" che in qualche modo è antesignano di ciò che si vedrà solo anni dopo nel primo film della saga di "Matrix". Nel 1995 approda alla Sergio Bonelli Editore, dapprima come disegnatore e infine come autore completo, per "Nathan Never" e numerose altre testate. Dal 2002 si occupa stabilmente sia dei testi sia dei disegni di albi avventurosi per le serie mensili e periodici di più ampio respiro, veri e propri romanzi grafici, pubblicati nelle collane "Romanzi a Fumetti" e "Le Storie" della casa editrice di via Buonarroti. Dal 2013 è collaboratore fisso per "Dylan Dog" in qualità di autore completo e sceneggiatore per altri colleghi disegnatori. In occasione dell'uscita della storia La corsa del lupo, l'ultima opera in tre parti, ambientata alla fine della Seconda Guerra Mondiale, che lo vede al timone come autore completo, Simeoni ha voluto rispondere ad alcune domande che gli ho posto. 
Quindi senza indugio, lascio a lui la parola.


Cosa c'entra Zorro? Leggete sotto...



DIME WEB - Per i lettori che non ti conoscono potresti presentarti? In due parole: chi è Gigi Simeoni?

GIGI "SIME" SIMEONI - Un ex ragazzo testardo che aveva capito cosa voleva fare da grande, e che è poi diventato un signore di mezza età che ha capito cosa vuole fare da grande. Solo che nell’Arte, grandi veramente non si diventa mai. L’Artista smette di crescere solo quando muore. Sono nato a Brescia oltre 51 primavere fa, nell’anno in cui i Beatles pubblicavano Lady MadonnaA cinque anni avevo già gli occhiali, un pastore tedesco di nome Full e un futuro a scelta tra: 1) pasticciere, 2) muratore, 3) Zorro. Il più inusuale dei tre, muratore, era dovuto al fatto che volevo inventare case, ma ancora non era chiaro in me il concetto dell’architetto. Riguardo a Zorro, pensavo proprio fosse un mestiere, e non un nome proprio. Fare lo Zorro. Studiare per diventare Zorro. E, per male che andasse, Zorro della mutua. Un giorno, a Carnevale, uscii vestito da Zorro e mi accorsi con orrore crescente che già molti altri Zorro erano scesi per strada prima di me. Pure vestiti meglio. Sotto i loro mantelli neri si intravvedevano gilet col bordino di corda dorata, e la spada con l’elsa a coppa, quella giusta. Io avevo il mio golfino beige e una scimitarra da pirata a banana, sgraziata. Qui la lista d’attesa è lunga, intuii, così mollai la spada e presi in mano una matita. Ben appuntita, naturalmente. Il mio “segno di Zorro” l’avrei lasciato comunque.


DW - Come si è sviluppata in te la passione per la scrittura e per il disegno?

GS - È stato un evento naturale, in entrambi i casi. Prima ho scoperto la mia indole creativa per il disegno, e una capacità tecnica già molto evidente a soli cinque anni. Più che scoprirla, la vivevo con naturalezza. Furono gli altri a scoprirla in me, in effetti. Poi crebbi normalmente, dedicandomi a molte altre cose, ma passando anche molto tempo a disegnare. I miei mi permisero di approfondire la mia passione, frequentando scuole e corsi extrascolastici adeguati. Ma da adolescente detestavo leggere libri. Leggevo solo fumetti, e tanto mi bastava. Complice un prolungato periodo a letto a causa di una broncopolmonite, a quindici anni, non esisteva Internet, ovviamente, scoprii le librerie traboccanti volumi che, da sempre, mi circondavano in casa. Mai considerate da me. Ma nemmeno “viste”. Mia mamma era un’onnivora lettrice, ingorda di qualsiasi argomento. Iniziai a spiluccare, un volume … poi un altro … poi una collana … e infine lessi tutto. E andai avanti, insaziabile, facendomi prestare libri dagli amici o accantonando qualche soldo per comprarmeli. Da lì, spinto dal mio innato orgoglio “autodafè”, mi dissi che potevo anche cimentarmi con la scrittura. Cos’è, infatti, la scrittura se non un modo per disegnare con le parole?



Gigi Simeoni

DW - Hai scritto e disegnato sia fumetti comici sia realistici. Quale genere è più nelle tue corde?

GS - Entrambi. Se fossi costretto pistola alla tempia a scegliere… penso che morirebbe di vecchiaia il mio aguzzino, nell’attesa.


DW - Sei un autore completo, ma scrivi anche sceneggiature per colleghi disegnatori. Che differenze trovi nello scrivere per te e per altri?

GS - Nessuna. Quando scrivo, per esempio Dylan Dog, non so ancora se quella storia andrà a qualche collega o la disegnerò io stesso. In effetti, ho sempre scritto per me stesso come se stessi scrivendo per altri, con la medesima cura e chiarezza. È mia convinzione che i due personaggi che albergano in me, lo sceneggiatore e il disegnatore, debbano essere due distinti e irreprensibili professionisti, e che ognuno dei due faccia bene il proprio mestiere, al massimo delle possibilità, senza eccezioni. La molla che mi spinge a fare meglio è sempre quella della vaga possibilità, a volte davvero vaga, a volte solo presunta, che la storia che sto scrivendo potrebbe essere disegnata da me. E così, cerco di inserire sempre argomenti, scene o dialoghi che mi divertono, e che mi piacerebbe realizzare con i disegni.






DW - Le prime serie a fumetti che ti vedono come componente del team di autori che le ha realizzate sono state “Full Moon Project” edita dalla Eden e “Hammer” pubblicata da Star Comics. Come mai hai pensato che fosse meglio esordire in gruppo?

GS - No, no, ai tempi di “Full Moon Project” io avevo già esordito con la ACME su "Cattivik" e su "Zio Tibia". Facevo fumetti comici, underground, e in totale autonomia. Mi mancava, però, la vita “da college” che avevo sempre vissuto fin lì, una famiglia numerosa, la scuola, poi il gruppo tratrale col quale giravamo a portare i nostri musical, i corsi di fumetto, ecc... e quando sentii che alcuni compagni del corso di fumetto stavano organizzandosi per creare una “task-force” mi ci buttai a pesce. E fu l’occasione per riprendere il tratto realistico, che avevo lasciato sui banchi del Liceo Artistico.


DW - Dopo l'esordio con Bonvi e le parentesi Eden e Star Comics, sei diventato un collaboratore di Sergio Bonelli Editore. Puoi raccontarci come sei arrivato in via Buonarroti?

GS - Sergio Bonelli ci teneva d’occhio, sapeva che eravamo un gruppo di “appetibili” collaboratori. Una volta terminata l’esperienza con la Star Comics, uno per volta e alla chetichella venimmo assorbiti dalla casa editrice e sparsi su diverse testate. Sergio ci invitò a pranzo per farci gli “onori di casa”, editori vecchio stampo, dei veri signori, e da lì iniziò la collaborazione. Dapprima solo come disegnatore, ma poi mi imposi di propormi anche come soggettista e sceneggiatore, visto che fin lì avevo sempre scritto e disegnato in autonomia le mie storie. E dimostrai a tutti che ci sapevo fare, soprattutto su cose lunghe e elaborate, che per alcuni sono una maledizione, mentre io mi ci trovo come un topo sul formaggio!





DW - L'ultima opera che ti vede al timone come autore completo, "La corsa del lupo”, pubblicata su "Le Storie" in tre parti, è un fumetto ambientato alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Quali scelte ti hanno portato a crearlo? L'hai scritto perché consideri l’ambientazione storica una cornice insolita o c’è dell'altro?

GS - Il bellico è, tra molti altri, un genere che mi appassiona. Così come mi irretisce totalmente lo scoprire aspetti ancora controversi o oscuri della Guerra Civile, e argomenti correlati al Nazismo e all’incredibile ascesa di un folle sanguinario come Hitler. Aspettavo la mia occasione per raccontare una storia non “di guerra”, ma di “uomini sullo sfondo della guerra”, perché i miei panorami preferiti restano quelli interni ai personaggi, la loro psiche, e le stanze delle loro anime sono le case che mi piace costruire. Infine, vedi, sono diventato anche “muratore”.


DW - Questo fumetto inizia con una strage nazifascista mai avvenuta. Hai preso spunto da un evento particolare?

GS - Da molti, per la verità. Quel genere di orrori è diffuso capillarmente nelle singole storie di ogni frazione abitata del nostro Paese. Ho raccontato una strage di fantasia che fosse simbolo di tutte le stragi simili.





DW - Quanto di te è presente nel personaggio di Hans Weissman, il Lupo?

GS - Proprio niente. È la mia antitesi, quindi per me comunque facilmente definibile.


DW - Quanto di storico? E quanto di inventato?

GS - Non ho idea se sia esistito o meno un personaggio con queste caratteristiche. Direi che mi sono lasciato ispirare da diverse figure raccontate dalle cronache storiche, e da romanzi e film, in particolar modo il Maximilien Aue protagonista del libro Le benevole di Jonathan Littel e il colonnello Hans Landa interpretato da Cristoph Waltz in Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino.


DW - Hai qualche hobby o mania particolare che ti può identificare col protagonista di questi albi?

GS - Anche io sono metodico e testardo.






DW - Pensi la storia sia una materia che di per sé non riscuote molto interesse da parte del grande pubblico?

GS - Non lo penso affatto, a dire il vero. Ne sono prova tanti grandi successi che hanno sbancato in ogni settore. Penso, ad esempio, a Il nome della Rosa, o a Schindler’s List, oppure ancora a Troy, giusto per parlare di tre momenti storici molto lontani tra loro.


DW - I protagonisti dell'opera “La corsa del lupo”, appartengono a due schieramenti: nazisti e partigiani. In quali di questi si riconosce maggiormente l'autore Simeoni?

GS - C’è anche il banchiere svizzero Marchant, tra i protagonisti, e molti altri personaggi che fungono da ingranaggi della vicenda: l’orologiaio antifascista, il professore ebreo… Quindi, direi più che La corsa del Lupo è un racconto corale, ampio, che abbraccia tante diverse figure tutte necessarie affinché la storia si regga saldamente. Probabilmente, se mi fossi trovato lì in quegli anni, sarei partito a combattere sulle montagne insieme con i partigiani, ma non con quelli comunisti. Di certo, non sono incline ai regimi, di nessun colore.




DW - A quale dei personaggi dell'opera sei più affezionato?

GS - Ad Anna “La Rossa”, probabilmente.


DW - Perché? 

GS - Perché riesce a essere donna fino in fondo, nel senso più alto del termine, e al contempo dimostrare di avere più palle di tutti i maschi che le stanno intorno.


DW - Quali fonti hai usato per documentarti?

GS - Una montagna di romanzi, saggi, film, moltissimo Internet con controlli incrociati sulle stesse notizie per avere la visione meno artefatta possibile. E poi, ho intervistato persone esperte di questo o quell’argomento: dalla storia militare all’archeologia, fino all’automobilismo sportivo d’epoca. Insomma: tanto, tanto lavoro.




Tre dei grandi nel Pantheon di Simeoni: Magnus, Bernet & Eisner



DW - Quali sono gli artisti che ti ispirano?

GS - Beh, direi che Magnus emerge con forza. Ma, in genere, tutti quegli artisti che hanno sempre permeato di grande visionarietà e forza espressiva i loro personaggi, come, per fare solo due esempi, Jordi Bernet o Will Eisner, altrimenti non finiamo più...


DW - Hai lavorato su storie di vario genere tra cui horror, fantascienza, western. Questo mi dà lo spunto per chiederti: quali sono i generi prediletti da Gigi Simeoni? 


GS - Tutti, escluso il fantasy. Ma “mai dire mai”, potrebbe venirmi in mente una storia che reggerebbe bene solo se ambientata nel genere "maghi & draghi". Allora, potrei anche accettare la sfida.


DW - Perché secondo te le trame di genere sono tornate così in auge da colonizzare non solo romanzi e fumetti, ma anche altri media come cinema e televisione?

GS - Perché cinema e TV si nutrono del Genere, il mainstream è drogato di Genere. E oggi i fumetti soffrono, in Italia, di fronte allo strapotere del piccolo e grande schermo, oltre che del Web. Per contro, come è successo già anni fa in America, qui qualcuno sta accorgendosi che il bacino di creativi del fumetto ha molto da offrire anche in termini di progetti per il cinema e la televisione. Era ora. Però, è importante avere i budget adatti per realizzare le cose per bene, o si fa la figura dei pitocchi. Inoltre, sono convinto che il momento storico di grande crisi di valori e unità che stiamo vivendo a livello globale, ci porta a desiderare di svagarci il più possibile per allontanarci dai problemi reali, per catalizzarli ed esorcizzarli. E i più bravi hanno capito che si può veicolare una serie di concetti filosofici e di autoanalisi del genere umano fondamentali anche usando un “vestito” appetibile come un film, o un graphic novel, di guerra o di supereroi.






DW - Esiste una pubblicazione o un personaggio, anche non disegnato da te, che hai amato sopra ogni altro?

GS - Beh, uno per tutti: “Torpedo” di Abuli e Bernet. Eccezionale. Ma ce ne sarebbero molti altri, ovviamente.


DW - Oltre ai libri e ai fumetti che sicuramente userai per documentarti, quali altre letture fai?

GS - Come ho detto, leggo di tutto. Sia per piacere personale che per dovere professionale. Amo molto, ultimamente, dedicarmi alle biografie dei grandi registi e attori, sia italiani che stranieri. Attraverso le loro storie e le loro vicissitudini, ricevo precise informazioni su spaccati di vita incredibilmente lucidi e vibranti. Anche Inseguendo quel suono, la biografia di Ennio Morricone, mi ha acceso diverse lampadine.


DW - Sei un autore metodico che lavora a orari stabiliti, oppure sei uno di quelli che si alza di notte perché ti è venuta l’ispirazione? Come si svolge la tua giornata tipo?

GS - In un’altra vita sarei stato certamente un animale notturno. Ma in questa, dove il fumettista ha condiviso la condizione di marito e papà fino a pochi anni fa, ho dovuto darmi degli orari canonici. Lavoro dalle sei alle otto ore al giorno, costantemente. Dopo la colazione, porto a spasso il cane e poi mi metto a lavorare fino alle 12:30 circa. Poi mangio con i miei, e torno quasi subito al lavoro, con poche pause, fino alle 19/19:30. Di rado, e solo se sono sotto pressione per consegne oppure perché inseguo un’idea che rischia di sfuggirmi, dedico al lavoro anche qualche sera e qualche weekend.






DW - È innegabile il grande successo di autori come Sio e Zerocalcare che hanno cominciato a farsi conoscere diffondendo i propri lavori su Internet. Alla luce di questa considerazione ti chiedo: cosa ne pensi e come vedi l’utilizzo della Rete nel campo dei fumetti?

GS - Per me, il fumetto è “carta stampata”. Non sarei mai invogliato a leggere qualcosa su uno schermo. Gli schermi sono nati soprattutto per le immagini in movimento, quindi al di là della praticità di utilizzare i testi necessari a raccogliere informazioni, come Wikipedia, per intenderci, ritengo sempre un po’ fastidioso guardare le cose in piccolo, sul monitor del PC. E poi, l’odore della carta è un trip impagabile.


DW - Da professionista ormai affermato che consigli daresti a chi si volesse affacciare al mondo del fumetto?

GS - Di tenersi sempre un piano B a portata di mano, tipo un secondo lavoro, sebbene saltuario. Oggi non è più come venti o trent’anni fa. Riesce a mantenersi soltanto chi nel frattempo si sia fatto un nome, oppure il genio puro al quale è impossibile resistere. Ma sono condizioni rare, ad appannaggio di pochissimi. Prima parlavi di Sio e Zerocalcare, che sono dei genietti, ma io penso anche a Gigi Cavenago o all’esordiente Alessandro Giordano: due “novità” che hanno lasciato immediatamente un segno chiaro del loro arrivo. C’è però penuria di scrittori giovani, sembra quasi che le nuove generazioni non siano capaci di inanellare storie complesse e accattivanti. Lo so perché ho insegnato spesso, in passato, e di recente ho tenuto un corso alla Scuola Internazionale Comics di Brescia. Non c’era uno, dico uno solo, degli allievi che fosse stato capace di costruire una storia originale, anche se semplice, che fosse in qualche modo catching. Guardiamo in Bonelli, ad esempio: Sclavi, Berardi, Manfredi, Boselli... veleggiano intorno alla settantina. Poi Io, Paola Barbato, Ruju, Vietti, Enoch, Recchioni… che ci aggiriamo intorno alla cinquantina. E siamo la falange “giovane”, il che è tutto dire! Di questo passo, resteremo solo noi vecchietti a scrivere.






DW - A cosa stai lavorando attualmente?

GS - Sto concludendo i disegni per una mia storia di Dylan Dog, e poi mi lancerò su altri progetti nuovi. Proverò anche con editori esteri, è arrivato il momento.


DW - C'è una domanda che non ti è stata fatta alla quale vorresti rispondere?

GS - Sì: Pensi che il fumetto italiano sia diverso, in qualche modo, da quello pubblicato in altri Paesi e che stia soffrendo? Sì, penso che l’editoria italiana soffra di problemi storici proprio per il modo diverso di considerare, nel suo insieme, i fumetti. Sono sempre considerati marginali, una “quasi-arte”, e nella testa dell’uomo della strada, fumetto significa Tex o Topolino. Al massimo, Diabolik. Comunque sempre cose da ragazzini, semplici, da passatempo poco costoso e per nulla impegnativo. Perfino la parola “fumetto” è un vezzeggiativo un po’ sprezzante, in confronto a manga, bande dessinée o comic strips. Se pensiamo che il più grande successo di pubblico e vendite in Italia è stato per lungo tempo ed è tuttora Tex, ossia le storie non troppo ingarbugliate di un ranger tutto d’un pezzo e dei suoi pards, con i suoi amatissimi tormentoni verbali e scenici: Portami una bistecca alta due dita!, Tizzone d’inferno, mangia un po’ di piombo!, capiamo che il pubblico italiano vuole restare su un binario sicuro, assodato, tranquillizzante. Tex si conclude sempre bene, i suoi villain finiscono a faccia nella polvere. Le cose vanno immancabilmente al loro posto, albo dopo albo, e lo sappiamo sin dalla prima pagina. Perché c’è bisogno di queste assicurazioni? Perché vogliamo sempre riconoscere la mano che ci dondola la culla? Io, dal canto mio, amo cercare di seminare i miei lettori. Di prenderli in contropiede, ammazzando il protagonista oppure facendoli sentire quasi empatici con un vero bastardo. Insomma, trovo che inquietare e destabilizzare sia incredibilmente divertente e, perfino, salvifico. È la stessa operazione che compi sul tuo muscolo, quando vai in palestra: per rinforzarlo e rinvigorirlo, devi shockarlo.






a cura di Elio Marracci

N.B. Trovate i link agli altri dialoghi con gli artisti su Interviste & News!

domenica 15 luglio 2018

DIME WEB INTERVISTA MAJO! (LE INTERVISTE LIX)


a cura di Elio Marracci

L'autore con cui dialoghiamo oggi, Mario Rossi in arte Majo, è nato a Brescia il 31 gennaio 1963. Formatosi come altri futuri colleghi alla scuderia del disegnatore argentino Rubèn Sosa, nel 1991 esordisce sulle pagine di “Full Moon Project”, della Eden/Center TV, di cui disegna il terzo episodio, Bambole, e realizza le matite del quinto, Il ponte di AngoulêmeNel 1993 presta collaborazione alla Star Comics, disegnando l’episodio Operazione Goliath scritto da Stefano Vietti per la serie “Lazarus Ledd”, creata da Ade Capone. Nel 1994, insieme con il gruppo di fumettisti bresciani con il quale collabora, riceve l’incarico dalla casa editrice perugina di creare “Hammer”, una nuova testata fantascientifica.

Majo, da "Tex Willer Blog"


Disegna e partecipa alla scrittura del primo albo, che anticipa di qualche anno temi solo in seguito approfonditi e rilanciati da cinema e letteratura. Alla chiusura prematura di “Hammer”, Majo viene arruolato in forza alla Sergio Bonelli Editore dove viene coinvolto nel "progetto Dampyr", divenendo il characters-designer dei personaggi principali e degli antagonisti e definendone gli stilemi visivi fortemente realistici. Otre che con Bonelli, ha collaborato alla realizzazione di serial, destinati al mercato francese, pubblicati dalle editrici Soleil e Glénat. È anche autore dei disegni del "Texone" dal titolo I Rangers di Finnegan, uscito il 20 giugno 2018 nelle edicole e nelle fumetterie italiane.


DIME WEB - Per i lettori che non ti conoscono potresti presentarti? In due parole chi è Mario Rossi in arte Majo?

MAJO - Ho cinquantacinque anni, ho moglie e un figlio di dieci anni e vivo in provincia di Brescia. Ho un diploma artistico e dopo la scuola ho iniziato a lavorare in pubblicità fino al 2000, quando ho abbandonato l’attività per dedicarmi completamente al fumetto, di cui mi occupavo già dal 1991.

Rubén Sosa

DW - Come si è sviluppata in te la passione per il disegno?

MAJO - È il cosiddetto “dono di natura”. Ho sempre coltivato la passione, sin da piccolo.


DW - Quando hai deciso che saresti diventato un fumettista?

MAJO - È successo verso la fine degli anni '80, mentre frequentavo la Scuola di Fumetto di Brescia del compianto autore argentino Rubén Sosa. Grazie a lui ho capito che avevo le attitudini necessarie per affrontare la carriera fumettistica. Al resto ci hanno pensato una serie di fortunate coincidenze.


DW - Hai lavorato sia per il mercato italiano, sia per quello estero, in particolare quello francese. Quali analogie e quali differenze hai trovato fra i due ambienti?

MAJO - In realtà le mie esperienze sul mercato francese si riducono solo a quattro progetti, troppo poco per avere un'idea generale sufficiente a evidenziare eventuali analogie e differenze. Ho potuto solo constatare che in Francia il fumetto è considerato, di norma, al pari di altre arti, come la letteratura o la pittura, che in Italia vengono ancora ritenute “più nobili”. Inoltre, un aspetto puramente tecnico, nel fumetto francese si prediligono i campi lunghi, piuttosto che i primi piani sui personaggi, come nella tradizione italiana o americana.




DW - Le prime serie a fumetti che ti vedono come componente del team di autori che le ha realizzate sono state “Full Moon Project” edita dalla Eden e “Hammer” pubblicata da Star Comics. Come mai hai pensato che fosse meglio esordire in gruppo?

MAJO - Non l’ho pensato affatto. Come membro della compagnia di ragazzi uniti dalla stessa passione, usciti dalla scuola di Fumetto, ho partecipato a quello che è stato il mio/nostro primo progetto. L’aderirvi è stata una cosa del tutto naturale, coinvolgente ed entusiasmante.


DW - Sia “Full Moon Project” che “Hammer” sono state ottime serie. Cosa secondo te non è andato come avrebbe dovuto portandole ad una chiusura prematura?

MAJO - Con il primo progetto, eravamo esordienti chiamati a gestire una serie in quattro e quattr’otto, con il supporto alquanto altalenante della casa editrice. Sicuramente l’inesperienza è stata penalizzante. Ciò nonostante il lavoro prodotto aveva rafforzato il collante del gruppo, permettendoci di presentarci e inserendoci sul mercato, prima alla spicciolata con alcune esperienze singole, poi nuovamente insieme con "Hammer", un serial strutturato che poteva benissimo competere con le testate concorrenti della Bonelli. Purtroppo le vendite non ci ripagarono delle buone intenzioni e fummo costretti a chiudere.



DW - A conferma di quello che ho affermato precedentemente, “Hammer” è stato ristampato nel 2014, in volumetti con nuove copertine, da Mondadori Comics. Che effetto ti ha fatto rivedere questo lavoro pubblicato nuovamente dopo più di vent'anni?

MAJO - La fiamma si è riaccesa per un attimo e per poco si è vagheggiato di alimentarla, ma le insondabili alchimie editoriali ci hanno riportato alla realtà, complici anche i vari impegni professionali di ognuno di noi, con carriere ormai avviate su percorsi paralleli, ma diversi.



DW - Dopo l'esordio con Eden e la parentesi Star Comics, sei diventato un collaboratore di Sergio Bonelli Editore dove attualmente sei a lavoro sulla serie "Dampyr". Puoi raccontarci come sei arrivato in via Buonarroti?

MAJO - Attualmente, in realtà, non faccio parte effettivamente di uno staff, e questo mi piace. Diciamo che saltabecco fra "Dampyr" e "Tex". L’arrivo in Bonelli lo devo a Mauro Boselli. Era il '97 e dopo aver effettuato alcune prove per "Zagor", Mauro mi ha affidato la realizzazione degli studi del nuovo personaggio creato in coppia con Maurizio Colombo, che nel 2000 sarebbe uscito in edicola col nome di "Dampyr". Da quel momento ho realizzato per la serie sedici albi e ho collaborato ultimamente per un numero corale disegnando una ventina di pagine.


DW - In Bonelli lavori a stretto contatto con Mauro Boselli. Visto che lo conosci bene, puoi raccontarci un aneddoto su questo gigante della cultura fumettistica italiana?

MAJO - Mauro Boselli è uno straordinario autore, con una spaventosa cultura non solo fumettistica. Si dedica al suo lavoro senza risparmio e pretende la stessa attenzione dai suoi collaboratori, ma è anche un uomo di cuore che non dimentica mai di avere a che fare con delle persone, prima che con professionisti. Non ho aneddoti particolari che possano descrivere meglio di così un amico e stimato collega.




DW - Sei autore del "Texone" uscito in edicola e in fumetteria il 20 giugno 2018. Come è stato confrontarsi con il personaggio principe della nona arte italiana?

MAJO - Disegnare il genere western è stato il mio più grande desiderio fin dagli inizi della mia carriera. Dopo venticinque anni sono stato esaudito rappresentando il personaggio principe del panorama fumettistico italiano. Mai me lo sarei aspettato quando ho iniziato a leggerlo da ragazzino. È stato un lavoro molto impegnativo, durato tre anni e mezzo, ma sono felice di averlo affrontato con la maturità necessaria, non solo nella tecnica, ma soprattutto nella testa. Ho rappresentato infatti un West meno carico di cliché che probabilmente avrei usato in età giovanile.


DW - Nel tuo accostarti al personaggio ti sei rifatto ad un modello preciso?

MAJO - Sì! Per costruire i miei personaggi ho sempre adottato lo stesso metodo: ispirarmi a modelli reali. Questo, per quanto mi riguarda, per preservarmi il più possibile dal rischio di realizzare un parco di “personaggi tipo” che ruotano nel tempo, finendo inevitabilmente per assomigliarsi. Basandomi invece su uno o anche più modelli di riferimento riesco a costruire dei protagonisti sempre originali, unici e a tutto tondo.




DW - C’è un’altra testata bonelliana per la quale non hai mai lavorato e che ti piacerebbe disegnare?

MAJO - Mi piacerebbe realizzare un progetto personale per “Le storie”, la testata curata da Gianmaria Contro, e non è detto che prima o poi non provi a propormi.


DW - Quali sono gli artisti che ti ispirano?

MAJO - Tutti e nessuno, nel senso che sono un grande ammiratore del segno, del disegno e della scrittura, più che dell’autore, che si tratti di arte figurativa, compresa la fotografia, o letteraria. Potrei citarti, così sulle prime, ma solo indicativamente, artisti come Hermann e Frazetta, Caravaggio e Hopper, oppure Curtis e Avedon.


DW - Hai lavorato su storie di vario genere tra cui horror, fantascienza, western. Questo mi dà lo spunto per chiederti: quali sono i generi prediletti da Majo?

MAJO - Inizialmente il western. Diciamo, adesso, lo storico con tutte le sue varie declinazioni. A parte questo, come tu hai giustamente notato, non è mai stato il genere a crearmi particolari problemi. La sperimentazione è sempre fonte di arricchimento. Facendo un parallelo con il cinema, ad esempio, amo e ammiro i registi che si sono cimentati in vari generi, anche se con risultati non sempre brillanti.




DW - C'è un motivo particolare per cui firmi i tuoi lavori con uno pseudonimo?

MAJO - Quando ero ragazzo tutti i miei amici avevano un soprannome tranne me. Mi è sempre rimasto il singolare desiderio di averne uno, così me lo sono inventato e l’ho adottato come firma.


DW - Esiste una pubblicazione o un personaggio, anche non disegnato da te, che hai amato sopra ogni altro?

MAJO - Quando ero ragazzo andavo pazzo per “La storia del west” di Gino D’Antonio e per gli acquerelli di Remington.


DW - Quali fonti usi per documentarti?

MAJO - Prima dell’avvento di Internet, pescavo fra libri illustrati e fotografici, riviste di moda e specialistiche, monografie di artisti di vario genere, foto di amici che si prestavano a fare da modelli e, soprattutto, autoscatti al sottoscritto. Ora Google ha facilitato enormemente la ricerca, anche se, per approfondire, non ho trovato ancora nulla che sostituisca una buona pubblicazione cartacea.


DW - Oltre ai libri e ai fumetti che sicuramente userai per documentarti, quali altre letture fai?

MAJO - Leggo veramente di tutto e dipende spesso dal lavoro che sto facendo. Se mi volto a dare uno sguardo ai miei scaffali, riesco a decifrare Conrad, Flaiano, Saviano, Wallace, Stevenson…


DW - Sei un disegnatore metodico che lavora a orari stabiliti, oppure sei uno di quelli che si alza di notte a disegnare perché ti è venuta l’ispirazione?

MAJO - Sono abbastanza metodico, ma soprattutto lento, e quando arriva il momento della consegna qualche notte ci scappa inevitabilmente.


DW - Come si svolge la tua giornata tipo?

MAJO - Essendo il programmatore del mio lavoro, non ho altri obblighi da rispettare se non i termini di consegna, per cui gestisco le giornate come mi fa comodo, secondo i diversi impegni extralavorativi.



DW - Quanto di te c’è nel tuo lavoro? Quanto di quello che ti circonda? Quanto d'inventato?

MAJO - Tutto ciò che hai menzionato c’è nel mio lavoro; in che misura non te lo so definire, ma sono convinto che sia così anche per tutti i miei colleghi, è inevitabile. Il nostro lavoro è quello di trasmettere e suscitare emozioni e ognuno lo può fare solo alla propria maniera, con le sue conoscenze, la sua sensibilità e la sua fantasia.


DW - È innegabile il grande successo di autori come Sio e Zerocalcare che hanno cominciato a farsi conoscere diffondendo i proprio lavori su Internet. Alla luce di questa considerazione ti chiedo: cosa ne pensi e come vedi l’utilizzo della Rete nel campo dei fumetti?

MAJO - La Rete ha fornito a tutti la possibilità di rendersi visibili ed è perciò un grande vantaggio per chi fa il mio lavoro. Personalmente, mi limito a frequentarla solo a fini documentativi o d’informazione, ma ciò non toglie che ne riconosca l’indubbia potenzialità, se usata nella giusta maniera. È giusto che chi ha iniziativa colga questa possibilità e la sfrutti per far conoscere le proprie idee e i propri progetti. Alla fine la Rete non fa regali ma sottostà alle regole di qualsiasi mezzo di comunicazione, e chi ha qualcosa d’interessante da dire riesce a ottenere prima o poi la giusta attenzione.



DW - Da professionista ormai affermato che consigli daresti a chi si volesse affacciare al mondo del fumetto?

MAJO - Di usare tutti i mezzi possibili per poter fare conoscere le proprie capacità. Di non scoraggiarsi al primo rifiuto. Di ricordarsi che non c’è nulla di facile, nemmeno il lavoro del fumettista. Di essere coerenti con i propri obiettivi ma senza pregiudizi di genere. Di non montarsi mai la testa, una volta raggiunto il traguardo, perché, in fondo, stiamo facendo fumetti!


DW - A cosa stai lavorando attualmente?

MAJO - Sto scrivendo e disegnando una storia breve per il "Color Tex" e poi, probabilmente, realizzerò l’albo del ventennale di "Dampyr".



DW - C'è una domanda che non ti è stata fatta alla quale vorresti rispondere?

MAJO - Sì: Quando pensi che smetterai di fare fumetti? Bada bene, non è una riflessione effetto di prolungata crisi di mezza età, tuttavia sono convinto che esiste un punto nella vita di un disegnatore di fumetti in cui il suo stile raggiunge l’apice, oltre il quale non ci può essere che un’inevitabile declino. Ecco, a quel punto, nella piena speranza che favorevoli circostanze me lo permettano, mi auguro di poter smettere di disegnare, e magari, chissà, solo scrivere.


a cura di Elio Marracci

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