lunedì 2 dicembre 2024

BONELLI IN DIGITALE - PUNTATA # 5

di Giampiero Belardinelli




Introduzione

Siamo arrivati alla quinta puntata, quella del mese di dicembre. Il mese del Natale è quello a cui sono più legato, in primis perché è quello del mio compleanno e quello, se posso aggiungere un’altra nota personale, in cui – lo scorso anno – ho convolato a nozze con Anna Maria, un matrimonio i cui allestimenti sono stati realizzati sotto il segno dello Spirito con la Scure, come ben sanno alcuni dei miei amici del mondo del Fumetto da noi invitati alla cerimonia. Quindi, a un anno di distanza, per celebrare il dicembre 2023 ho scelto di far debuttare in questa rubrica Zagor, il personaggio a cui sono legato fin da ragazzino. Per l’occasione ho selezionato dal catalogo di Bonelli Digital Classic una storia scritta da Marcello Toninelli e disegnata da Marco Torricelli: Yeti! (ZG 271-273), pubblicata nei mesi di febbraio, marzo e aprile del 1988. L’avventura è un inno al genere Fantastico e ha molti punti in comune con i classici nolittiani, ma allo stesso tempo introduce alcune caratteristiche utilizzate in seguito dagli autori che hanno preso il posto di Toninelli ai testi della serie.


Battaglia onirica


Dal Tibet con furore

Darkwood è il luogo dove la contaminazione dei generi si incontra, si abbraccia e infine si mescola. Camminando per i sentieri della Foresta, oltre a trapper e pellerossa, a ogni angolo possiamo incontrare un Vampiro, uno Scienziato pazzo, la Creatura del Dark Canal, un Mago Druido, ecc. E quando c’è stato bisogno che Zagor incontrasse strane popolazioni, Nolitta ha portato a Darkwood e dintorni Samurai, Russi, Guerrieri Masai, ecc. Luoghi nascosti, città perdute, valli inaccessibili hanno permesso di mettere Zagor a contatto con realtà che difficilmente avrebbe potuto incontrare. È una meravigliosa regola dell’avventura classica, fatta sua anche da Marcello Toninelli. Il malvagio Krinhar arriva dal Tibet portando con sé anche un altro mito della mitologia delle popolazioni locali dell’Himalaya: lo Yeti. Lo sceneggiatore ha gestito questi personaggi esotici – il mago Krinhar e l’Abominevole Uomo delle Nevi – creando con abilità quel sottile senso di inquietudine che avvolge la marcia di Zagor e Cico verso le Montagne Lucenti, dove nascosto da qualche parte li sta attendendo Ramath.


Ramath



Ramath e il Darkwood Monitor

Ramath torna per la prima volta sulle pagine di Zagor dopo il periodo nolittiano. Toninelli ha l’idea giusta di utilizzare il Fachiro come alter-ego positivo del malvagio Krinhar: i due si combattono a distanza come in una sorta di guerra magica tolkeniana. Ramath è l’uomo che mette in moto il meccanismo del racconto e lo fa in maniera insolita trasmettendo un messaggio che Cico troverà a sua insaputa scritto sul Darkwood Monitor, l’improbabile giornale ideato e stampato dal Messicano. È un’idea simpatica e intelligente che dà alla figura di Ramath una rinnovata aurea magica. Toninelli, infatti, è stato l’autore che ha introdotto tra le facoltà di Ramath la telepatia. Mauro Boselli, evidentemente ispirato dall’intuizione toninelliana, ha più volte utilizzato Ramath in questa maniera, con Cico protagonista di insoliti messaggi telepatici.


Lo Yeti

Il mostro in azione


Lo Zagor magico

Ramath non si limita però al ruolo di personaggio funzione: essendo stato ferito dagli uomini di Krinhar (consapevole che il Fachiro è l’unico al mondo capace di contrastarlo) e quindi impossibilitato a unirsi a Zagor e Cico, trasferisce tramite un estenuante rito magico i suoi poteri allo Spirito con la Scure. L’uomo di Darkwood qui riceve conoscenze magiche che gli permettono di fronteggiare con efficacia sia lo Yeti, sia il maligno Krinhar. Già l’Eroe Rosso di nolittiana memoria aveva utilizzato una situazione simile concedendo a Zagor le armi magiche in grado di sconfiggere i potenti Akkroniani. Certo, sia in quell’occasione, sia in questa l’eroe ci metterà il suo coraggio e il suo intuito per distruggere gli avversari: nel nostro caso, quando Krinhar sembra sul punto di sconfiggere Zagor/Ramath un’intuizione dello Spirito con la Scure – per quanto istintiva – annienta per sempre la proiezione psichica del monaco tibetano, il cui corpo fisico resta un inutile involucro vuoto. È stato semplicemente un gran colpo di fortuna, amico mio… – afferma Ramath nel finale – o, forse, un intervento degli Dei!


Duello oscuro


Le fiamme


Un interessante aneddoto

A chiusura dell’analisi della storia voglio riportare un interessante aneddoto, forse non noto a tutti. Nell’intervista contenuta nello Speciale Zagor di Collezionare (volume realizzato nel 1990 da Moreno Burattini. Francesco Manetti e Alessandro Monti), Toninelli ci fornisce un interessante aneddoto sulla vignetta finale di quest’avventura:

La versione originale della mia storia sullo Yeti prevedeva che alla fine il mostro venisse fatto tornare in Tibet insieme a Ramath e a tutti i guerrieri mandati in America dal monaco. Invece mi hanno consigliato di fare una sorta di aggancio con la leggenda del Sasquatch, spiegando cioè con la mia avventura la presenza di questo misterioso uomo dei boschi nelle foreste americane, che altro non sarebbe dunque se non uno Yeti. Sclavi mi ha telefonato e mi ha detto: ‘Ma che cavolo fai? Rimandi lo Yeti sull’Himalaya? Io mi aspettavo che rimanesse in America!’ E così l’ultima tavola della storia, il finale, l’ha riscritta direttamente lui.

 

La sconfitta di Krinhar


Torricelli in digitale

Marco Torricelli ha iniziato la sua collaborazione con Zagor nel 1986 e in quel periodo faceva parte dello Staff di If, abbandonato poi nel 1988. Lo Staff di If è stata un’agenzia di autori creata nel 1974 da Gianni Bono. È probabile che quest’avventura sia stata realizzata da Torricelli direttamente per Sergio Bonelli Editore senza la mediazione dello Staff di If. Lo stile di Torricelli in questa avventura, dopo le pur buone prove dei suoi primi lavori zagoriani, raggiunge una rinnovata sintesi. Come potete notare nella galleria di immagini a corredo di questo articolo, Marco Torricelli realizza intensi primi piani in stile ferriano ma allo stesso tempo le ambientazioni fantasy di alcune sequenze mostrano una stimolante linea chiara. Negli anni Duemila, su testi di Mauro Boselli, Torricelli avrebbe esplorato questa sua predisposizione per il Fantasy in maniera molto più esplicita. A una mia domanda sugli eventuali riferimenti artistici in alcune sequenze visionarie (pensavo alle opere di M.C. Escher), l’autore ha risposto così:

Io no, e penso neppure Marcello vi abbia pensato. Semplicemente in sceneggiatura mi chiedeva un ambiente metafisico, peraltro stimolante da realizzare.


Il Sasquatch

Arrivederci al 2025!

Con questa quinta puntata di Bonelli in digitale chiudiamo il 2024: do appuntamento a chi segue questa rubrica al mese di febbraio. Colgo l’occasione per augurare ai lettori di Dime Web Buone Feste e Buon Anno!


Giampiero Belardinelli


N.B. Trovate i link alle altre puntate di Bonelli in digitale su Cronologie & Index!

domenica 1 dicembre 2024

È LUI O NON È LUI IL MYSTÈRE DEI FUMETTI?

di Filippo Pieri

Sulla "Settimana Enigmistica" n. 4830 del 17 Ottobre 2024, a pagina 7, troviamo un quesito bonelliano. Infatti al 35 orizzontale delle "Parole crociate" viene chiesto: Il Mystère dei fumetti.



N.B.: Trovate i link alle altre novità bonelliane su Interviste & News!

venerdì 29 novembre 2024

SECRET ORIGINS: TEX CLASSIC 202

di Saverio Ceri
con la collaborazione di Francesco Bosco e Mauro Scremin

Bentornati a Secret Origins l'appuntamento quattordicinale che ci conduce alla scoperta delle origini delle copertine di Tex Classic e di eventuali altre cover ispirate alle pagine a fumetti dell'albo in edicola.


Su Tex Classic 202 troviamo ristampate a colori 64 tavole pubblicate in origine a cavallo tra i numeri 96 e 97 della collana principale del ranger, usciti ad ottobre e novembre del 1968. L'episodio riproposto in queste pagine è La Caccia, disegnato dalla coppia Galleppini-Muzzi, ovviamente su testi di Gianluigi Bonelli. L'avventura iniziata sul Classic 201, vede trai protagonisti il Maggiore Ferriman del titolo, che trama ai danni di Tex e Carson attraverso i suoi scagnozzi. Il baffuto avversario del ranger non è però quello cha appare nell'illustrazione di copertina firmata da Claudio Villa, e pubblicata in origine come miniposter su Tex Nuova Ristampa 206 del maggio 2008. 


Il maggiore Ferriman in queste 64 tavole non viene in contato col protagonista, ne tantomeno lo affronta pistola in pugno. Il malcapitato della cover di Villa è invece Leister Mills bandito al soldo del colonnello Watson, antagonista di Tex nell'episodio Cheyenne Club di Nolitta e Fusco pubblicato tra i numeri 289 e 292 nell'inverno 1984/85 e casualmente riproposto in edicola in contemporanea con questo Classic, sul quattordicesimo volume del trimestrale Le grandi storie Bonelli
In particolare la vignetta scelta come riferimento da Villa è la prima di pagina 27 del numero 292 di Tex, o, se preferite rintracciarla sul balenottero in edicola, la prima di pagina 294, in cui Tex dopo un lungo inseguimento affronta e disarma Mills proprio in casa di Watson.
Questa illustrazione di Villa non era mai stata usata come copertina fino a oggi.

Scoperta l'origine "segreta" dalla copertina ufficiale di questo 202° Classic, potremmo occuparci degli albi che hanno ristampato queste pagine, ma avendo già parlato della cover del numero 96 nella scorsa puntata, e avendo scoperto la genesi della cover del numero 97 nel giugno del 2020, in occasione della puntata 86 di questa rubrica, dobbiamo ripiegare su una illustrazione di Galep che avevamo tralasciato in attesa venisse usata come copertina, ma che viste le scelte redazionali per questa collana, non vedremo mai in quella veste sul Classic
Grazie alle ricerche di Francesco Bosco e Mauro Scremin, andiamo a scoprire la fonte di ispirazione della copertina di un'albo le cui tavole sono recentemente ricomparse in edicola, sotto forma di strisce, nella collana collaterale alla Gazzetta dello Sport, che ripropone in forma anastatica gli albetti di Tex, nel loro formato originale. Stiamo parlando della cover del primo Albo d'Oro della sesta serie.


Bosco e Scremin ci raccontano fin dal loro primo volume di Western all'italiana che Galep si ispirò per quella copertina alla cover di Tales of the Pony Express, numero 942 della gloriosa collana Four Colors della Dell Publishing, uscito solo un paio di mesi prima, nell'Ottobre del 1958. La copertina originale è dipinta da Sam Sevitt.


La sovrapposizione delle immagini non lascia dubbi. Anche gli indiani sullo sfondo che stanno inseguendo Tex sono tratti dalla stessa fonte, ma posizionati diversamente rispetto all'illustrazione di Sevitt. Sfalsando, ridimensionando e sovrapponendo le immagini li ritroviamo tutti.


Saverio Ceri

N.B. Vi invitiamo a scoprire anche le precedenti puntate di Secret Origins in Cronologie & Index.     

giovedì 28 novembre 2024

È LUI O NON È LUI IL WILLER DEI FUMETTI?

di Filippo Pieri

Sulla "Settimana Enigmistica" n. 4830 del 17 Ottobre 2024, a pagina 13, nel gioco "Un grande schema per tutti", troviamo un quesito bonelliano. Infatti al 19 orizzontale viene chiesto: Il Willer dei fumetti.



N.B.: Trovate i link alle altre novità bonelliane su Interviste & News!

mercoledì 27 novembre 2024

È LUI O NON È LUI IL DYLAN DEI FUMETTI?

di Filippo Pieri

Sulla "Settimana Enigmistica" n. 4829 del 10 Ottobre 2024, a pagina 13, nelle "Parole crociate a schema libero", troviamo un quesito bonelliano. Infatti al 38 orizzontale viene chiesto: Il Dylan dei fumetti.



N.B. Trovate i link alle altre novità bonelliane su Interviste & News!

sabato 16 novembre 2024

VITA E OPERE DI HOWARD PHILLIPS LOVECRAFT - DODICESIMA PARTE (1927 - II)

di Sergio Climinti

Illustrazione per un ebook pubblicato nel 2018



1927 – II


IL COLORE VENUTO DALLO SPAZIO
(THE COLOUR OUT OF SPACE, marzo)

A occidente di Arkham le colline s’innalzano ripide, con valli e boschi profondi che non hanno mai conosciuto la scure. Vi sono macchie strette e buie dove gli alberi hanno bizzarre inclinazioni e sottili ruscelli non hanno mai visto la luce del sole. Sui pendii più dolci sorgono antiche fattorie di pietra e tozze casette coperte di muschio che meditano in eterno sugli antichi segreti del New England, al riparo di grandi costoni di roccia; ma ormai sono tutte abbandonate: i grandi comignoli si sgretolano e le pareti ricoperte di scandole si gonfiano pericolosamente sotto i tetti bassi a doppio spiovente.
La gente che ci abitava è andata via, e ai forestieri quei posti non piacciono: ci hanno provato i franco-canadesi, gli italiani e i polacchi, ma come sono venuti così se ne sono andati. Il motivo non è qualcosa che si veda, si senta o che si possa toccare, ma anzi, qualcosa che si immagina soltanto. È una regione che non fa bene all’immaginazione, e di notte non procura sonni tranquilli. Dev’essere questo che tiene alla larga i forestieri, perché con loro il vecchio Ammi Pierce non ha mai aperto bocca su ciò che ricorda dei giorni terribili. Ammi, che da qualche anno non ha la testa del tutto a posto, è l’unico che ancora rimanga laggiù o che osi parlare di quei giorni, e se si azzarda a tanto è perché la sua casa è molto vicina ai campi aperti e alle strade trafficate intorno ad Arkham.
Una volta c’era una strada che attraversava le valli e le colline in linea retta fino alla landa maledetta, ma la gente ha smesso di usarla, allora hanno aperto una nuova strada che gira intorno alla landa e piega molto più a sud. Le tracce della vecchia via si notano ancora tra la vegetazione selvatica che riprende il sopravvento, e qualcuna resterà anche dopo che metà delle valli saranno inondate dalle acque del nuovo bacino. Allora i boschi oscuri verranno abbattuti, e la landa devastata dormirà sotto acque azzurre la cui superficie specchierà il cielo increspandosi alla luce del sole. E i segreti di quei terribili giorni saranno tutt’uno con i segreti dell’abisso, tutt’uno con la sapienza occulta del vecchio oceano e con i misteri della terra primordiale.
Quando m’inoltrai tra valli e colline per ispezionare il nuovo bacino idrico, mi dissero che la regione era maledetta. Me lo dissero ad Arkham, e poiché è un’antica città ricca di leggende sulle streghe, pensai che il male a cui alludevano fosse uno degli spauracchi con cui le nonne avevano atterrito i bambini per secoli. Il nome ‘landa maledetta’ mi sembrò strano e teatrale, e mi chiesi come fosse entrato nel folklore di quelle genti puritane.”

La città di Arkham, attraversata dal fiume MIskatonic, immaginata da Richard Wright (2018)



Un tecnico arriva da Boston per fare alcuni sopralluoghi in una vallata che dovrà essere inondata dall’acqua a causa della costruzione di una nuova diga. La sua impressione è quella di un territorio devastato da un incendio, infatti non è presente alcuna traccia di vegetazione per ben due ettari di terreno, coperto solo di polvere grigia che neanche il vento è riuscito a disperdere.
Tornato ad Arkham chiede informazioni agli anziani del posto e scopre che tutto risale agli anni ottanta del secolo precedente, quando una famiglia della zona era scomparsa misteriosamente. C’è qualcuno, però, che sembra saperne di più, il bizzarro Ammi Pierce. La mattina dopo il tecnico si presenta alla sua cadente abitazione con la scusa di fargli delle domande sulla zona per via del lavoro che deve svolgere. Il vecchio dalla barba bianca e dagli occhi socchiusi indossa dei vestiti bisunti che lo fanno apparire scarno e povero, ma non appena comincia a parlare si dimostra più lucido e istruito di quanto non appaia.
Ammi non era come gli altri contadini che avevo incontrato nella zona del futuro bacino: non protestò minimamente per i chilometri di boschi di terra di pastura che stavamo per inondare, anche se forse l’avrebbe fatto se la sua casa si fosse trovata nei limiti del lago artificiale. Al contrario, mostrò sollievo per il destino che attendeva le antiche valli oscure in cui aveva vagato tutta la vita. Era meglio che si trovassero sott’acqua: meglio, sì, dopo i giorni terribili. Dopo questo esordio la voce rauca di Ammi Pierce si abbassò, mentre il corpo si protendeva verso di me e l’indice della mano destra indicava qualcosa nell’aria, vibrando in modo impressionante.”
Il vecchio comincia a raccontare la storia di quei terribili giorni e, quando conclude, l’uomo si affretta a tornare al suo albergo prima del tramonto.
Tutto cominciò, disse il vecchio Ammi, con il meteorite. Prima di allora la regione non aveva conosciuto altre leggende che quelle ricamate intorno ai processi per stregoneria, e anche allora i boschi occidentali di quella parte dello Stato non avevano goduto di una fama paragonabile alle isolette nel corso del fiume Miskatonic, dove il diavolo teneva corte davanti a un bizzarro altare di pietra più antico degli indiani. Non erano, insomma, boschi infestati, e fino ai giorni del meteorite i loro suggestivi crepuscoli non furono mai ritenuti spaventosi. Poi, un giorno a mezzogiorno in cielo si era addensata una nuvola bianca, nell’aria era risuonata una serie di scoppi e dalla valle in mezzo al bosco si era levata una colonna di fumo. Entro sera tutta Arkham aveva saputo del grande sasso piovuto dal cielo che si era conficcato nel terreno adiacente al pozzo della fattoria di Nahum Gardner. Quella era la casa che sorgeva dove ora si stende la landa maledetta: la bella, bianca casetta di Nahum Gardner in mezzo ai suoi fertili giardini e frutteti.”

Illustrazione di Mihail Bila (2016)



Il fattore voleva avvertire della caduta del meteorite la gente in città e lungo la strada si era fermato a casa di Ammi e di sua moglie. Poi la coppia, il mattino dopo, aveva accompagnato sul luogo i tre professori della Miskatonic University arrivati per esaminare la roccia spaziale.
Nahum aveva detto che era grande, ma poi riferì agli studiosi che si era rimpicciolita e che di notte emanava un debole bagliore. Era caduta nei pressi del pozzo, dove i professori cominciarono a testarlo con un martello da geologo e si resero conto che era stranamente morbido. Ne presero un campione da studiare meglio all’università e lo misero in un secchio per trasportarlo. Sulla via del ritorno si fermarono a casa dei Pierce per riposare e la moglie di Ammi fece loro notare che il frammento rimpiccioliva a stava bruciando il fondo del secchio.
Il giorno dopo gli scienziati tornarono in preda a una grande eccitazione. Ad Ammi raccontarono che quando avevano messo il campione in un contenitore di vetro, poco dopo era scomparso. Poi era scomparso anche il recipiente. Avevano però fatto in tempo a sottoporlo ad alcuni test e la cosa più sorprendente era che, oltre a non raffreddarsi, scaldato davanti a uno spettroscopio, aveva rivelato una serie di bande luminose diverse da qualsiasi colore dello spettro normale.
Tornati nei pressi del pozzo constatarono che le dimensioni del meteorite si erano ulteriormente ridotte e decisero di estrarne un altro frammento.
Stavolta lo intaccarono profondamente, e nell’asportare la massa prelevata si accorsero che il nucleo dell’oggetto non era affatto omogeneo. Avevano scoperto ciò che sembrava il fianco di un globulo colorato, incassato profondamente nella materia esterna. Il colore, che somigliava ad alcune bande dello straordinario spettro della meteora, era quasi impossibile a descriversi, e solo per analogia gli studiosi lo definirono tale. Era fatto di una sostanza lucida che, percossa, faceva pensare a una certa fragilità e a un’eventuale concavità. Uno degli scienziati gli assestò un colpetto col martello e il globo scoppiò con un piccolo schiocco nervoso. Non ne uscì niente, e ogni traccia del rivestimento lucido scomparve dopo la martellata: al suo posto rimase uno spazio sferico e cavo del diametro di circa sette centimetri, e tutti pensarono che, a patto di frantumare il guscio esterno, ne sarebbero stati scoperti altri. Ma era inutile fare congetture, e dopo un vano tentativo di trovare altri globuli perforando il meteorite, i ricercatori se ne andarono ancora una volta con l’esemplare che avevano asportato, il quale si rivelò, in laboratorio, altrettanto enigmatico del suo predecessore.”

La meteora realizzata da Ani Casale (2021)



Quando il giorno successivo gli scienziati tornarono ancora una volta alla fattoria di Nahum, quest’ultimo gli raccontò che durante la notte c’era stato un forte temporale e che i fulmini sembravano attirati dalla pietra, tanto da averne visti ben sei colpire il pozzo. Il meteorite, invece, era scomparso del tutto e al suo posto era rimasta solo una voragine irregolare, probabilmente causata dalla caduta delle folgori sul terreno.
La stampa locale, assieme a qualche giornale di Boston, si occupò della vicenda e per un po’ di tempo Nahum Gardner, sua moglie e i loro tre figli vissero alcuni momenti di notorietà. Poi il tempo passò, arrivò l’estate e la terra cominciò a dare i frutti del lavoro dell’attività agricola della famiglia Gardner. I loro prodotti avevano un aspetto magnifico ed erano di una tale abbondanza che dovettero ordinare altri barili per poterli raccogliere tutti. Peccato però che il loro sapore aveva un gusto amaro e disgustoso: tutto il raccolto era perduto. Il meteorite aveva avvelenato la terra, ma fortunatamente i Gardner possedevano anche altri terreni. Durante l’inverno la famiglia cominciò a non frequentare più la chiesa ed evitò i raduni degli altri contadini. Nahum confessò all’amico Ammi che sulla neve aveva trovato le solite tracce di scoiattoli, conigli e volpi ma lasciò intendere che stavolta c’era qualcosa di anomalo in quelle orme. A febbraio i ragazzi McGregor scesero da Meadow Hill per andare a caccia di merli, non lontano dalla fattoria Gardner, ma quando abbatterono il primo esemplare si affrettarono a lasciarlo sul terreno, spaventati dal suo aspetto. Attorno alla fattoria cominciarono a circolare racconti sensazionali, i quali però non furono mai presi in considerazione dagli scienziati della Miskatonic University, che li giudicarono come semplice superstizione.
Intorno alla fattoria di Nahum gli alberi fiorirono prematuramente e di notte si agitavano al vento minaccioso. Il secondo figlio di Nahum, Thaddeus, un ragazzo di quindici anni, giurò che si agitassero anche quando non c’era vento, ma questo neppure le superstizioni locali potevano accettarlo. Era certo, però, che nell’aria ci fosse una certa inquietudine; l’intera famiglia Gardner prese l’abitudine di aguzzare le orecchie, benché non lo facessero per catturare un suono specifico. Anzi, quel drizzare le antenne avveniva in momenti in cui la coscienza sembrava ritirarsi. Disgraziatamente i momenti del genere si moltiplicarono di settimana in settimana, finché la gente del circondario cominciò a dire che ‘nella famiglia di Nahum c’era qualcosa che non andava’.”
Quando fiorirono le sassifraghe, mostrarono un colore mai visto prima. Il capofamiglia ne raccolse alcune e le portò al direttore del giornale di Arkham, ma costui si limitò a farne un pezzo umoristico che metteva alla berlina le paure dei contadini.
Ad aprile la gente del posto cominciò a non usare più la strada che passava accanto alla fattoria, fino ad abbandonarla del tutto; poi con l’arrivo della primavera la vegetazione assunse caratteri bizzarri e colori straordinari. Fiori, alberi, foglie, erba, radici, nessuna di queste aveva più il consueto colore e acquisì un aspetto minaccioso e inquietante. Tutta la vegetazione ricordava quello strano colore che si era visto nel globo trovato all’interno del meteorite.


Illustrazione di Paul Mudie (2019)


A maggio arrivarono gli insetti, anche loro non erano normali, e il latte munto prese un sapore acido. Nahum allora decise di pascolare le vacche sulla collina, lontano dalla casa, e allo stesso modo arò e seminò il campo di quattro ettari sopraelevato. La famiglia Gardner si trovò isolata dagli altri compaesani e solo i ragazzi, per obblighi scolastici, sopportarono meglio questa situazione, anche se furono oggetto di vari pettegolezzi da parte degli altri alunni. Le cose peggiorarono quando terminò la scuola e ben presto si diffuse la notizia della follia della signora Gardner, di cui nessuno si meravigliò.
Accadde in giugno, nel periodo dell’anniversario della caduta del meteorite, quando la povera donna cominciò a urlare che nell’aria si vedevano cose che non riusciva a descrivere. Nei suoi vaneggiamenti non c’era un solo sostantivo, ma solo verbi e pronomi. C’erano cose che si muovevano, cambiavano, fluttuavano e le orecchie pizzicavano per impulsi che non erano completamente suoni. Qualcosa le era stato portato via, o forse la stava prosciugando, qualcosa che non avrebbe dovuto esistere la teneva stretta nella sua morsa, qualcosa che qualcuno avrebbe dovuto tenere lontana. Niente era immobile di notte, i muri e le finestre si spostavano in ogni direzione. Nahum non fece rinchiudere la moglie nel manicomio della contea, ma decise che fino a quando fosse stata innocua per sé e per gli altri l’avrebbe lasciata vagare per la casa.
Non fece nulla neanche quando l’espressione della signora cambiò e solo quando i ragazzi cominciarono ad averne paura, e Thaddeus per poco non svenne alle smorfie che gli faceva, decise di confinarla in soffitta. Entro il mese di luglio la donna aveva smesso di parlare e camminava a quattro zampe, e prima della fine del mese a Nahum venne la folle idea che nel buio fosse lievemente luminosa, proprio come la vegetazione che circondava la casa.”
Nel frattempo, appena i cavalli ne ebbero l’occasione, fuggirono via dalla stalla e il capofamiglia impiegò una settimana per rintracciarli tutti e quattro. Purtroppo però, erano ormai indomabili, perché qualcosa nel loro sistema nervoso aveva ceduto, così fu costretto ad abbatterli. Si fece prestare un cavallo da Ammi per trasportare il fieno, ma quest’ultimo non ne voleva sapere di avvicinarsi al granaio, così furono costretti a trascinare il carro a mano fino al fienile, per poterlo caricare.
Contemporaneamente, la vegetazione cominciò a diventare grigia e infine friabile, così come i frutti. Anche gli insetti dagli strani corpi rigonfi morirono durante quel periodo e a settembre, quando la scuola riaprì, i ragazzi non ci andarono.
Durante una delle sue rare visite, Ammi si rese conto che l’acqua del pozzo non era più buona e consigliò all’amico di scavarne un altro sulla collina, fino a quando il terreno non fosse tornato normale.

Un'edizione del racconto pubblicato dalla Lancer Book (1969)



Nahum, tuttavia, ignorò il consiglio, perché ormai si era abituato alle cose più strane e sgradevoli. Tanto lui che i ragazzi continuarono a usare il pozzo avvelenato, bevendone l’acqua con la stessa incuranza e meccanicità con cui consumavano i pasti frugali e mal cucinati, e svolgevano i loro compiti monotoni e ingrati in lunghe giornate senza scopo. Nella famiglia si era insinuata una forma di stolida rassegnazione, come se si muovessero in un altro mondo e procedessero, fra due file di guardiani senza nome, verso un triste e inevitabile destino.
Thaddeus impazzì a settembre dopo una visita al pozzo. Ci era andato con il secchio ed era tornato a mani vuote, urlando e agitando le braccia, e abbandonandosi ogni tanto a un lamento farneticante sui «colori che si muovevano laggiù». Due folli nella stessa famiglia sono una tragedia, ma Nahum l’affrontò con coraggio. Lasciò libero il ragazzo per una settimana, finché cominciò a inciampare sempre più spesso e a farsi male; allora il padre lo rinchiuse in una stanza della soffitta di fronte a quella in cui teneva la madre, separata soltanto da un corridoio. Il modo in cui madre e figlio urlavano l’una all’altro, dietro le porte chiuse, si rivelò terribile soprattutto per il piccolo Merwin, che immaginava di sentirli parlare in un linguaggio non di questo mondo. Merwin aveva cominciato a sviluppare un’immaginazione spaventosa, e la sua inquietudine peggiorò dopo la follia del fratello, che era stato il suo migliore compagno di giochi.”
In quello stesso periodo cominciò la moria del bestiame, in modo così strano e ripugnante che nessun veterinario osava avvicinarsi alla fattoria. Come per la vegetazione, gli animali subivano delle strane mutazioni prima di ingrigirsi e cominciare a sbriciolarsi, al punto che molti perdevano pezzi anatomici ancor prima di morire. In questo modo, nel giro di poco tempo non restò vivo neanche un animale da allevamento, neanche quelli tenuti lontano dal terreno contaminato sfuggirono al contagio.
Il 19 ottobre Nahum si presentò a casa di Ammi con una terribile notizia, suo figlio Thaddeus era morto, in una maniera che era meglio non indagare. Aveva seppellito quel che restava dei suoi resti sul retro della casa. L’amico lo accompagnò sulla via del ritorno e cercò di consolare gli altri due figli, ma non appena cominciò a fare buio non se la sentì di rimanere e si riavviò verso casa, accompagnato dalle grida isteriche della signora Gardner e con la vegetazione che cominciava ad assumere la sua inquietante luminosità. Tre giorni dopo, il capofamiglia si ripresentò in casa Pierce, disperato perché suo figlio Merwin era scomparso nei pressi del pozzo, dove si era recato per attingere l’acqua. Nelle sue vicinanze aveva trovato solo una massa di ferro semifuso, schiacciata, che era stata la lanterna, e un recipiente curvo con due anelli di ferro: ciò che restava del secchio. Nahum si era rivolto all’unico amico che aveva per pregarlo di badare a sua moglie e al figlio rimasto, perché temeva che a breve sarebbe toccato anche a lui.
Per un paio di settimane Ammi non rivide più il suo amico. Preoccupato per quello che poteva essergli accaduto, vinse le sue paure e si decise a recarsi alla fattoria.

Illustrazione di David Garcia Forés (2017)



Dal gran comignolo non usciva fumo, e per un attimo il visitatore temette il peggio. L’aspetto della casa era terribile: erba grigia e vizza, foglie sul terreno, viticci che cadevano in friabile rovina dalle mura di arcaici abbaini, alberi nudi che artigliavano il cielo grigio di novembre con una tal studiata malvagità che Ammi non poté far a meno di pensare a un sottile cambiamento nella conformazione dei rami. Ma dopotutto Nahum era vivo. Era debole, e giaceva su un letto nella bassa cucina, perfettamente conscio e in grado di dare a Zenas gli ordini più semplici. La stanza era freddissima, e poiché Ammi tremava visibilmente l’ospite gridò a Zenas con voce roca di aggiungere altra legna. In realtà, la legna mancava del tutto: l’enorme camino era spento e vuoto, e il vento freddo che veniva giù dalla canna alzava una nuvola di fuliggine. Dopo un po’ Nahum chiese all’amico se la legna aggiunta lo facesse sentire meglio, allora Ammi si rese conto di ciò che era accaduto: anche la corda più robusta si era spezzata, e la mente del fattore disperato si era messa al riparo da altri dolori.
Ponendogli una serie di domande discrete, Ammi non riuscì a farsi una chiara idea di dove fosse Zenas, che in realtà non si vedeva. Tutto ciò che il padre sapeva dire era: «È nel pozzo… adesso vive nel pozzo…». Poi, nella mente di Ammi balenò il pensiero della moglie pazza, e cambiò la linea dell’interrogatorio. «Nabby? Ma come, se è là!» fu la risposta del povero Nahum, e Ammi capì che avrebbe dovuto cercare da solo. Lasciato l’innocuo farneticante sul lettuccio, prese le chiavi dal chiodo accanto alla porta e salì le scale cigolanti che portavano in soffitta. Lassù c’era una terribile aria di chiuso: un odore disgustoso e un silenzio totale gravavano da ogni parte. Delle quattro porte che si presentarono ad Ammi una sola era sprangata, e qui egli provò le varie chiavi dell’anello. La terza si rivelò quella giusta, e dopo qualche tentativo Ammi aprì la bassa porta bianca.
All’interno era piuttosto buio, perché la finestra era piccola e oscurata a metà dalle rozze sbarre di legno; sul pavimento di assi bianche Ammi non riuscì a vedere nulla. Il puzzo era insopportabile, e prima di avanzare ancora egli dovette rifugiarsi in un’altra stanza e riempirsi i polmoni d’aria respirabile. Quando rientrò vide qualcosa di scuro nell’angolo, e rendendosi conto di ciò che aveva davanti gridò a squarciagola. Mentre urlava gli parve che una nuvola passeggera oscurasse la finestra, e un attimo dopo si sentì sfiorare da un’insopportabile corrente di vapore. Strani colori danzavano davanti ai suoi occhi, e se l’orrore non lo avesse paralizzato avrebbe ripensato al globulo che era apparso nel meteorite quando il martello da geologo lo aveva frantumato, o all’assurda vegetazione che era cresciuta in primavera. Ma in quel momento Ammi pensò solo alla mostruosità che aveva davanti, e che fin troppo chiaramente aveva condiviso il destino sconosciuto del giovane Thaddeus e del bestiame. La cosa terribile era che l’orrore, benché continuasse a cadere in pezzi, fosse ancora in grado di muoversi lentamente e percettibilmente.

Illustrazione di Virgil Finlay (1941)



Su quel particolare episodio Ammi non mi fornì altri particolari, ma è certo che nel suo racconto l’ombra nell’angolo e la creatura in movimento non appariranno più. Ci sono cose cui non si può nemmeno accennare, e del resto la legge punisce atti che a volte vengono commessi a scopo umanitario. Personalmente ne ricavai l’impressione che in soffitta, dopo la visita di Ammi, non rimanesse nessun essere vivente, e che lasciarvi una creatura ancora capace di muoversi sarebbe stato un gesto così mostruoso da condannare qualunque essere pensante all’eterno rimorso. Chiunque non fosse un semplice agricoltore sarebbe svenuto o impazzito, ma Ammi uscì dalla bassa porta perfettamente in sé, chiudendosi alle spalle il tremendo segreto. Adesso bisognava pensare a Nahum: doveva essere nutrito e accudito, ma soprattutto condotto in un luogo dove ci si potesse prendere cura di lui.
Ammi aveva appena incominciato a scendere la scala buia, quando sentì un tonfo al piano inferiore. Gli parve di udire anche un grido strozzato, e ricordò nervosamente la nebbia appiccicosa che lo aveva sfiorato nella spaventosa soffitta. Quale presenza avevano risvegliato il suo urlo e l’improvvisa irruzione di sopra? Trattenuto da un vago terrore, udì altri rumori provenienti dal piano terra. Indubbiamente veniva trascinato qualcosa di pesante, e a questo si univa uno sgradevole sgocciolio appiccicoso, simile a quello che potrebbe produrre una diabolica e oscena varietà di suzione. Con i sensi spinti a livelli febbrili dal potere della suggestione che quei rumori evocavano, Ammi pensò senza una precisa ragione a ciò che aveva visto in soffitta. Buon Dio! In quale sconosciuto regno degli incubi si era cacciato? Non osava andare avanti né indietro, ma rimase tremando sul gomito della scala di legno. Ogni più piccolo particolare della scena gli si era impresso nella mente: i rumori, il senso di paurosa attesa, il buio, i gradini ripidi e stretti e anche - cielo misericordioso! – la debole e inconfondibile luminosità degli oggetti di legno attorno a lui: gradini, pareti, corrimano e travi erano fosforescenti!
Poi il cavallo di Ammi lanciò un nitrito disperato all’esterno, seguito da un rumore di zoccoli al galoppo, segno inconfondibile di una fuga precipitosa. Un attimo dopo del cavallo e del calesse non si udì più nulla e l’uomo terrorizzato sulla scala buia non poté fare altro che chiedersi cosa l’avesse spinto alla fuga. Ma non era tutto. All’esterno era risuonato un altro rumore, come un tonfo nell’acqua, proveniente con ogni probabilità dal pozzo. Ammi aveva lasciato Hero, il cavallo, slegato lì vicino e forse una ruota del calesse aveva sfiorato il bordo del pozzo e fatto cadere una pietra. E intanto quel maledetto legno continuava a brillare come se fosse fosforescente. Dio, come era vecchia la fattoria! La maggior parte era stata costruita prima del 1670, e il tetto a doppio spiovente non più tardi del 1730.


Disegno della landa devastata eseguito da Lovecraft, da una lettera a F. L. Baldwin del 1934



Al piano di sotto si udiva distintamente un rumore che pareva adesso quello di un debole grattare sul pavimento, e la mano di Ammi si serrò sul pesante bastone che aveva raccolto in soffitta per ogni evenienza. Facendo forza sui propri nervi, terminò la discesa e si incamminò coraggiosamente verso la cucina, ma non completò il tragitto perché quello che cercava non si trovava più là. Gli era venuto incontro, e in un certo senso era ancora vivo: Ammi non poteva dire se avesse strisciato o se fosse stato attratto da una forza esterna, ma ormai la morte lo aveva ghermito. Tutto era avvenuto nel giro di mezz’ora, ma il collasso, l’ingrigimento e la disgregazione erano già molto avanzati. Il corpo recava orribili segni di sbriciolamento, e i frammenti secchi venivano via a scaglie; Ammi non riuscì a toccarlo, ma guardò atterrito la distorta parodia di quello che era stato un volto. «Che cosa è stato, Nahum… che cosa è stato?» sussurrò, e le labbra gonfie ma spaccate dell’altro riuscirono a malapena a sillabare un’ultima risposta.
«Niente… niente… il colore brucia… è freddo e umido, però brucia… viveva nel pozzo, l’ho visto… una specie di fumo, sì, come i fiori la primavera scorsa… il pozzo di notte brilla… Thad, Mernie e Zenas… tutto ciò che vive… succhia la vita da ogni cosa… era nella pietra… poi ha avvelenato tutto… non so cosa voglia… quella cosa rotonda che gli scienziati dell’università hanno tirato fuori dalla pietra… l’hanno schiacciato… era dello stesso colore, lo stesso ti dico, come i fiori e le piante… dovevano essercene altri… come semi, semi… che sono cresciuti. L’ho visto per la prima volta questa settimana… si è nutrito di Zenas… era un ragazzo grande e grosso, pieno di vita… il colore ti entra nel cervello e poi ti brucia… nell’acqua del pozzo… Avevi ragione su quell’acqua maledetta… Zenas non è mai tornato dal pozzo, e non ha potuto allontanarsi… lui ti attira e tu sai che sta venendo, ma è inutile… L’ho visto altre volte, da quando Zenas è stato preso… Ammi, che ne è di Nabby? La mia testa non è più a posto… non so più da quanto tempo non le porto da mangiare… prenderà anche lei se non stiamo attenti… il colore, voglio dire… a volte, di notte, mi pare che la faccia di Nabby sia già diventata di quel colore… brucia, succhia… è venuto da un posto dove le cose non sono come qui… l’ha detto uno di quei professori, e aveva ragione… fai attenzione, Ammi, lo farà ancora… succhia la vita…»
Questo fu tutto. L’essere che aveva parlato non poteva più farlo, perché era completamente crollato su sé stesso. Ammi stese sui resti una tovaglia da tavola a scacchi rossi e uscì all’aperto dalla porta sul retro. Risalì il declivio fino al pascolo di quattro ettari e barcollò in direzione di casa seguendo la strada del nord nei boschi. Di passare accanto al pozzo da cui il cavallo era fuggito non se la sentiva: lo aveva guardato dalla finestra e si era accorto che dal bordo non era stata rimossa neppure una pietra. Questo significava che il calesse non aveva urtato proprio nulla, e quindi il tonfo nell’acqua era dovuto a qualcos’altro… qualcosa che si era tuffato nel pozzo dopo aver finito con il povero Nahum.”

Illustrazione di Ihor Vitkovskyi (2016)



FINALE: Una volta raggiunta casa, Ammi vide che il suo cavallo col calesse lo aveva preceduto. Dopo aver rassicurato la moglie si precipitò ad Arkham per avvertire che la famiglia Gardner non esisteva più a causa della misteriosa malattia provocata dal meteorite. Ammi fu costretto ad accompagnare malvolentieri le autorità sul posto. I funzionari non rimasero indifferenti a ciò che trovarono in soffitta e sotto la tovaglia sul pavimento. Il medico legale constatò che c’era ben poco da esaminare, però si prodigò a prelevare diversi campioni per farli analizzare.
Se avesse immaginato che intendevano passare all’azione subito, Ammi non avrebbe parlato del pozzo ai suoi accompagnatori. Era ormai quasi il tramonto e personalmente non vedeva l’ora di andarsene, ma non poté fare a meno di gettare un’occhiata nervosa all’orlo di pietra che scorgeva nel cortile, e quando un agente gliene chiese il perché, Ammi riconobbe che Nahum aveva temuto qualcosa che si annidava laggiù. Anzi, l’aveva temuto a tal punto che non aveva neppure osato cercarvi Merwin e Zenas, i figli scomparsi. Dato che non si poteva fare altro che svuotare il pozzo ed esplorarlo immediatamente, Ammi dovette aspettare tremando che secchio dopo secchio d’acqua putrida venisse tirata su e rovesciata sul terreno già intriso del cortile. Gli uomini annusarono il liquido con disgusto e alla fine il fetore insopportabile li costrinse a turarsi il naso. Il lavoro non richiese tanto tempo quanto avevano temuto, visto che l’acqua era straordinariamente bassa, e non c’è bisogno di descrivere in tutti i particolari ciò che trovarono. Basti dire che i resti di Merwin e Zenas erano almeno in parte sul fondo. Ciò che rimaneva faceva parte soprattutto dello scheletro: con loro, inoltre, c’erano un piccolo cervo e un grosso cane più o meno nello stesso stato, e un certo numero di ossa d’animali più piccoli. La fanghiglia e il viscidume sul fondo avevano un aspetto inspiegabilmente poroso, ricco di bolle; un uomo si calò reggendosi agli appigli e, munito di una lunga pertica, scoprì che poteva immergere l’asta di legno a qualunque profondità nel fango del fondale, senza incontrare ostacoli solidi.”
Dal pozzo non si ricavò altro. Con il calare del buio tutti gli uomini tornarono all’interno della fattoria e si sistemarono in soggiorno. Poco dopo un bagliore ben noto ad Ammi cominciò a emergere dalla cavità e l’uomo consigliò a tutti i presenti di non uscire per nessuna ragione.
Un investigatore guardò fuori, verso l’alto, e vide i nudi rami degli alberi agitarsi convulsamente, nonostante la completa assenza di vento.
Era una sorta di contorcimento morboso, spasmodico, come una danza di artigli animati dalle convulsioni dell’epilessia e che volessero afferrare le nuvole rischiarate dalla luna; artigli che graffiavano impotenti l’aria pestilenziale, agitati da una forza sconosciuta e senza corpo che si fosse alleata con gli orrori sotterranei che strisciavano e lottavano sotto le radici nere.
Per diversi secondi nessuno respirò, poi una nuvola più oscura delle altre passò sulla luna e la sagoma dei rami-artiglio svanì per un attimo. Gli uomini gridarono all’unisono: un urlo strozzato dal timore, ma roco e quasi identico da tutte le gole. Il terrore, infatti, non era scomparso con la sagoma degli alberi, e in quel terribile momento di buio profondo gli osservatori videro una catena di scintille, formata da mille puntolini di debole e misteriosa fosforescenza, serpeggiare sulla cima degli alberi, formando su ciascun ramo una fiammella simile ai fuochi di sant’Elmo o a quelle che si posarono sulla testa degli apostoli il giorno della Pentecoste. Era una costellazione mostruosa di luce innaturale, e guizzava come uno sciame di lucciole nutrite da cadaveri che danzassero un’infernale sarabanda sopra una palude maledetta; ma il colore era quello dell’invasore senza nome che Ammi aveva imparato a riconoscere e a temere. Nel frattempo il fascio di luce che si alzava dal pozzo era diventato sempre più intenso, e alla mente degli uomini raccolti intorno alla finestra trasmetteva un senso di fatalità e innaturalezza che di gran lunga superava qualsiasi immagine potesse essersi formata nelle loro fantasie coscienti. Il fascio non si limitava più a brillare, perché si riversava dal pozzo; e nel lasciarlo, il flusso informe di colore senza nome pareva scorrere direttamente nel cielo.”

Copertina del numero di Amazing Stories dove venne pubblicato il racconto (settembre 1927)



All’interno della fattoria gli uomini, in preda allo sgomento, cominciarono a parlare nervosamente fra di loro, facendo ipotesi e commenti su quanto stava accadendo. L’agente che si era calato nel pozzo immaginò che con la lunga pertica avesse smosso dal fondo della cavità qualcosa di inimmaginabile, all’esterno il cavallo di Ammi scalciava e nitriva disperatamente, mentre l’uomo farfugliava riflessioni informi: «È venuto con quella pietra… è cresciuto laggiù, nutrendosi di cose vive che catturava… divorava mente e corpo... Thad e Mernie, Zenas e Nabby… Nahum è stato l’ultimo, ma tutti hanno bevuto l’acqua… quella cosa si è fortificata grazie a loro… è venuta da fuori, dove le cose non sono come qui… e adesso sta tornando a casa…»
Passarono alcuni minuti, poi il cavallo crollò a terra morto, dopo aver frantumato il calesse a furia di calci. All’interno della casa gli uomini si accorsero che l’intero appartamento era completamente ricoperto della spaventosa fosforescenza. Fu chiaro a tutti che se ne sarebbero dovuti andare il prima possibile.
Ammi mostrò agli altri l’uscita sul retro e tutti si diressero verso i pascoli sulla collina senza mai voltarsi indietro, almeno fino a quando raggiunsero la sommità dell’altura.
Quando finalmente si voltarono a guardare la valle e l’ormai lontana fattoria Gardner che sorgeva nel mezzo, videro uno spettacolo pauroso. Tutta la casa splendeva di un orrendo miscuglio di colori sconosciuti: gli alberi, gli edifici, e perfino quell’erba che non si era del tutto trasformata in friabile grigiore. I rami puntavano tutti al cielo, punteggiati da terribili lingue di fiamma, mentre i rivoli scintillanti di quell’incendio mostruoso si insinuavano fra le travi della casa, della stalla e dei capanni. Era una scena degna di un quadro di Füssli, e su tutto regnava il tripudio di quella luce senza forma, arcobaleno estraneo e senza dimensioni di veleno misterioso che s’alzava dal pozzo: ribollente, senziente, ondeggiante, scintillante e gorgogliante nel suo cromatismo cosmico e ignoto.
Poi, senza preavviso, l’orribile colore scoccò verso il cielo in verticale, come un razzo o una meteora, senza lasciare alcuna traccia e scomparendo attraverso un buco tra le nuvole, curiosamente circolare e regolare, prima che qualcuno potesse sorprendersi o gridare.
Nessuno dei testimoni avrebbe potuto dimenticare la scena, e Ammi fissò senza capire le stelle del Cigno, fra cui Deneb splendeva più delle altre: lì il colore si era fuso con la Via Lattea. Ma un attimo dopo il suo sguardo fu riportato a terra da un crepitio che si udiva nella valle, un rumore di legno spezzato e crepitante, non un’esplosione, come affermarono molti altri del gruppo. Eppure il risultato fu lo stesso, perché in un attimo febbrile e caleidoscopico, dalla fattoria condannata e maledetta eruttò un diluvio di scintille e di sostanza innaturale che abbagliò quei pochi che lo videro, per poi scagliare verso lo zenit un nugolo di frammenti dai colori fantastici fermamente ripudiati dal nostro universo. Scintille e lembi di materia seguirono la grande anomalia scomparsa attraverso il foro che si era aperto tra le nuvole e un attimo dopo scomparvero anch’essi. Al loro posto non c’erano che tenebre, fra le quali gli uomini non osavano tornare, e si era levato un vento che pareva soffiare in raffiche nere e gelide dallo spazio interstellare. Urlava e urlava sferzando i campi e i boschi contorti con folle frenesia cosmica, finché il gruppo di attoniti spettatori si rese conto che era inutile aspettare che la luna mostrasse ciò che restava della fattoria di Nahum.
Troppo spaventati anche per azzardare un’ipotesi, i sette uomini sconvolti si avviarono verso Arkham per la strada che piegava a settentrione. Ammi stava peggio degli altri e li pregò di accompagnarlo fino alla porta di casa invece di proseguire verso la città: non voleva attraversare da solo i boschi avvolti dalla notte e frustati dal vento oltre la strada principale. Ai compagni, infatti, era stato risparmiato uno shock che lui non aveva potuto fare a meno di provare, e che lo avrebbe schiacciato sotto un senso di tale terrore da impedirgli di parlarne per anni. Mentre gli altri testimoni avevano rivolto lo sguardo decisamente verso la strada, Ammi si era fermato un attimo a fissare la valle d’ombre e di desolazione in cui fino a poco prima sorgeva la fattoria dell’amico sfortunato. Da un punto lontano, in mezzo alla rovina, aveva visto qualcosa alzarsi debolmente, per poi affondare di nuovo nel posto da cui il grande orrore senza forma si era proiettato al cielo. Anche questo non era che un colore, ma non un colore della terra o degli spazi a noi noti; e siccome Ammi lo aveva riconosciuto, e sapeva che almeno un ultimo brandello si nascondeva ancora nel pozzo, da quel momento in poi non riuscì più a trovar pace.”

Amazing Stories: illustrazione per il frontespizio del racconto realizzata da JM de Aragon (settembre 1927)



Ammi non è mai ritornato in quei luoghi, da più di cinquant’anni, ed è sollevato all’idea che la vallata verrà ricoperta dall’acqua del nuovo bacino. Dopo il suo racconto, anche il tecnico inviato da Boston si sente rincuorato e decide che mai più verrà da queste parti, soprattutto dopo aver ispezionato quel territorio maledetto e aver visto strane cose che non è riuscito a spiegarsi. Almeno fino a quando non ha ascoltato il racconto dell’anziano. Non ha una precisa opinione in merito, però teme anch’egli che qualcosa si trovi ancora in fondo al pozzo, poiché ha visto la luce del sole alterarsi nei pressi della sua bocca.
I contadini dicono che la malattia della terra si estende di un paio di centimetri all’anno, per cui forse anche adesso trova di che nutrirsi e crescere, ma quale sia il demone che si nasconde laggiù, dev’essere trattenuto da qualcosa o si sarebbe diffuso molto più in fretta. È avvinto alle radici degli alberi che sembrano artigliare l’aria? Uno dei racconti più frequenti, ad Arkham, riguarda grosse querce che di notte rilucono e i cui rami si agitano come non dovrebbero.
Che cosa sia, Dio solo lo sa. In termini di materia suppongo che la cosa descritta da Ammi sia un gas, ma obbediente a leggi che non sono quelle del nostro cosmo: non è il frutto dei pianeti o dei soli che splendono nei telescopi e sulle lastre fotografiche dei nostri osservatori. Non è un soffio dei cieli di cui i nostri astronomi misurano i moti e le dimensioni, e neppure di quelli che giudicano troppo vasti per essere misurati. Era soltanto un colore venuto dallo spazio, messaggero spaventoso degli informi reami dell’infinito, al di là della natura che noi conosciamo; luoghi la cui semplice esistenza ci colpisce e ci paralizza con la visione dei neri golfi al di là del cosmo che si apre, improvvisa, di fronte ai nostri occhi terrorizzati.
Non posso credere che Ammi mi abbia mentito consapevolmente, né credo che il suo racconto sia frutto di follia, come gli abitanti della città mi avevano fatto pensare. Qualcosa di terribile è sceso fra quelle valli e colline al seguito di una meteora, e qualcosa di terribile (anche se non so in che misura) vi rimane ancora. Sarò contento quando l’acqua inonderà tutto, e nel frattempo spero che ad Ammi non succeda niente. Ha visto così tanto di quella cosa il cui influsso era così insidioso. Perché non era mai riuscito ad andarsene? Con quanta chiarezza ricordava le ultime parole di Nahum: «Non te ne puoi andare… ti attira… sai che qualcosa sta per prenderti e non ci puoi fare niente…» Ammi è un buon vecchio: quando la squadra che costruirà il bacino si metterà al lavoro scriverò all’ingegnere capo e gli raccomanderò di vegliare su di lui. Detesterei pensare a lui come alla mostruosità grigia, contorta e friabile che continua a turbare i miei sogni.”

Locandina di un film di produzione tedesca del 2010



Come per molti dei suoi lavori, Lovecraft ci ha lasciato un parere di ciò che pensava di questo racconto nel suo sconfinato epistolario. “Ho scritto un nuovo racconto – o studio d’atmosfera – che le invierò non appena battuto a macchina. Si intitola The Colour Out of Space e racconta di un oggetto che precipita nelle colline a occidente di Arkham”, da una lettera spedita a Clark Ashton Smith nel 24 marzo 1927, cui segue pochi mesi dopo una seconda lettera, datata 12 maggio: “Le accludo The Colour Out of Space, che potrà restituirmi quando vorrà. Probabilmente gli mancano unità e crescendo drammatico, ma d’altra parte va preso come uno studio d’ambiente e d’atmosfera più che un vero e proprio racconto.”
Scrive Giuseppe Lippi nella sua introduzione alla novella: “Nonostante le pessimistiche valutazioni di Lovecraft, bisogna riconoscere che The Colour Out of Space (scritto immediatamente dopo The Case of Charles Dexter Ward) è uno dei suoi capolavori in assoluto. Non è difficile capire perché: qui non abbiamo un aggiornamento della famosa mitologia extraterrestre, ma il racconto è semplicemente uno dei più realistici, sapienti e controllati di Lovecraft, che si diffonde in un magistrale ritratto d’ambiente e nella credibile ricostruzione di una tragedia umana e naturale. Con le sue inesplicabili sventure, il minaccioso senso di ostilità che grava dal cielo, la solitudine maestosa e terrificante dell’ambiente, questo Colore che fa pensare ad Ambrose Bierce è un grande risultato narrativo non solo per Lovecraft (di cui rappresenta una personale elaborazione del libro di Giobbe) ma rimase, probabilmente, fra i più intensi racconti americani del periodo.” (G. Lippi, a cura di, H. P. Lovecraft. Tutti i racconti 1927-1930, Oscar Mondadori, Milano, 1991).
Le impressioni iniziali di Lovecraft col tempo cambiarono, tanto da arrivare a ritenerlo uno fra i suoi migliori lavori mai realizzati.


Poster del film di Richard Stanley, l'ultima pellicola tratta dal noto racconto (2019)



Scrivono Pilo e Fusco in una nota in calce al racconto per l’opera integrale dedicata a Lovecraft da loro curata: “Lovecraft considerò sempre The Colour Out of Space uno dei suoi racconti meglio riusciti e quando voleva sottoporre a qualcuno un elenco delle sue opere, lo poneva costantemente in testa. L’appartenenza della storia al Ciclo di Cthulhu è determinata soprattutto dalla collocazione geografica della vicenda nel comprensorio di Arkham, del quale si cominciano a determinare i contorni. In realtà la tematica del racconto – basata sul fondamentale concetto lovecraftiano secondo cui negli abissi sconosciuti dello spazio e del tempo sono in agguato orrori innominabili – è di fatto strettamente fantascientifica, tant’è che Hugo Gernsbach non esitò a pubblicarlo su Amazing Stories, la prima rivista di fantascienza americana, nata appena un anno prima. Lo scrittore sperò che la pubblicazione da parte di Amazing Stories potesse aprire un altro sbocco per i suoi scritti, oltre a quello già consolidato di Weird Tales. Ma Gernsbach, in crisi finanziaria cronica, ritardò fino all’inverosimile il compenso, e alla fine inviò una cifra risibile, di gran lunga inferiore perfino alle tariffe, già estremamente basse, di Weird Tales. Dopo di allora Lovecraft, parlando di Gernsbach, usò sempre l’appellativo di «Hugo il sorcio», e non volle più considerare le riviste di fantascienza come potenziali sbocchi per i suoi racconti.”
(G. Pilo, S. Fusco, Lovecraft. Tutti i romanzi e i racconti, 4ª edizione, Newton Compton Editori, 2011)
Tutti i critici sono concordi nel ritenerlo uno dei capolavori dall’autore di Providence. Come già detto, è un racconto d’ambiente, narrato con piglio realistico e quasi distaccato, come un rapporto scientifico, spaventoso nonostante non ci sia un mostro tangibile da temere; sono infatti gli effetti devastanti sulla natura e sull’uomo a incutere terrore e inquietudine.

Un fotogramma del film 'Annihilation' (2018)



La fantascienza si fonde con il genere horror in un equilibrio esemplare. Inoltre, qui Lovecraft realizza perfettamente quello che lui ritiene una priorità per ciò che riguarda il primo genere sopra menzionato, ovvero abbattere il punto di vista antropocentrico, imperante all’epoca, per raccontare creature e civiltà aliene. La letteratura di genere fantascientifico, infatti, descriveva queste ultime come distorsioni delle strutture umane e terrestri senza mai allontanarsene troppo, ma anzi scimmiottandole, e questo per lui era inammissibile. Se una “cosa” è aliena, lo è perché completamente diversa da noi, dunque non gli si possono attribuire emozioni, intenti, etica e morale simili alle nostre.
Ciò appare chiaro anche in un veloce e sconsolato passo di una lettera di questo periodo (17 aprile) inviata a Vincent Starrett (1886-1974), saggista, poeta, romanziere ed esperto conoscitore di Sherlock Holmes: “[…] Sono senz’altro d’accordo che la mancanza di un mercato per la narrativa dell’orrore, al di là dei fascicoli da edicola, sia una disgraziata circostanza. Ma temo sia un fatto irrimediabile, perché le persone a cui interessano queste cose devono essere alquanto poche. Io ho pubblicato un certo numero di racconti nell’ebdomadario Weird Tales, ma credo che per me quel mercato si stia lentamente chiudendo a causa dell’ossequio che il direttore porge a una clientela avida di racconti fantastici semplici e potabili, con molto elemento umano e scritti in uno stile rapido, conciso, scanzonato e completamente privo di atmosfera […].”
C’è però anche un altro tema caro all’autore, la degenerazione fisica e psichica che colpisce una comunità, soprattutto se isolata. Un argomento affrontato in molti dei suoi lavori, a partire dalla gioventù, come La bestia nella caverna (1905), per proseguire poi con Gli avvenimenti riguardanti Arthur Jermyn e la sua famiglia (1920), La paura in agguato (1922), I ratti nei muri (1923), e altri ancora che scriverà in futuro.
Il cinema ha utilizzato più volte questo racconto, sia come semplice spunto di partenza o suggestione, sia con trasposizioni più o meno fedeli. Alla prima categoria appartiene sicuramente The Blob (1958) - conosciuto in Italia come “Blob, Fluido mortale”, che vede fra i suoi protagonisti un giovane Steve McQueen - mentre alla seconda categoria Die, Monster, Die! (1965), uscito da noi col titolo “La morte dall’occhio di cristallo”, con Boris Karloff nella parte del capo famiglia Nahum. Creepshow (1982) è invece un film a episodi di George A. Romero e uno di questi è chiaramente ispirato alla vicenda scritta da Lovecraft. Si tratta di “La morte solitaria di Jordy Verrill” ed è interpretato nientemeno che da Stephen King, sceneggiatore del film. Seguono The Farm (1987), conosciuto anche come “The Curse” o “La fattoria maledetta”, Colour from the Dark (2008) del regista italiano Ivan Zuccon, il tedesco Die Farbe (2010), fino ad arrivare ad Annihilation (2018), di Alex Garland, con protagonista Natalie Portman, tratto dal romanzo omonimo di Jeff VanderMeer ma con evidenti riferimenti al racconto originale di Lovecraft, e infine The Color out of Space (2019), di Richard Stanley, con protagonista Nicolas Cage.

Albo di Dampy che ha tra le sue fonti d'ispirazione anche il racconto di HPL (n. 37, aprile 2003)



Luoghi: Arkham e dintorni; la landa maledetta; fiume Miskatonic; Fattoria Gardner; Magazzino di Potter a Clark’s Corners; Miskatonic University; Meadow Hill; ruscello di Chapman.
Personaggi: l’io narrante, un tecnico di Boston; Ammi Pierce, anziano squinternato; Nahum Gardner, capofamiglia della fattoria nei pressi della quale cadde il meteorite; Nabby Gardner, sua moglie; Zenas Gardner, primogenito della famiglia; Thaddeus Gardner, quindicenne, secondogenito di Nahum; Merwin Gardner, il più piccolo della famiglia; i giovani McGregor; Potter, proprietario di un magazzino a Clark’s Corners; Stephen Rice, contadino; tre scienziati della Miskatonic University.

Maggio. Conclude il suo famoso saggio L’Orrore Soprannaturale nella Letteratura, iniziato a partire dal novembre del 1925 su precisa richiesta dell’amico Paul Cook, che infatti lo pubblica ad agosto di quest’anno sul suo “Recluse”.
Si tratta del primo saggio critico esaustivo sull’argomento. Prima di questo, infatti, era stato pubblicato nel 1917 The Supernatural in Modern English Fiction, di Dorothy Scarborough, che prendeva in esame la narrativa inglese contemporanea, prediligendo gli epigoni della narrativa gotica, omettendo così gli autori europei e americani. Era seguito poi, nel 1923, The Tale of Terror, di Hellen Birkhead, che però si occupava esclusivamente di autori gotici inglesi, tralasciando curiosamente J. S. Le Fanu, che non viene mai nominato. E noi sappiamo che quest’autore fu fondamentale per lo sviluppo futuro della narrativa di genere [v. “Nona parte (1926)” fra i commenti in calce al racconto “Il Richiamo di Cthulhu”].
Lovecraft continuerà ad aggiornare il suo saggio ogni volta che scoprirà un nuovo autore (come Gustav Meyrink e William Hope Hodgson) fino al 1936. Verrà infatti ripreso a puntate su “The Fantasy Fan” dal 1933 al 1935, ma in forma incompleta (fino alla metà del capitolo VIII, su un totale di dieci) a causa della chiusura della rivista. Apparirà finalmente nella sua interezza nel primo volume rilegato delle opere di Lovecraft pubblicato dalla Arkham House, The Outsider and Others (1939), appena due anni dopo la sua morte.


Copertina di uno dei saggi più completi sul Lovecraft teorico e storico del fantastico (2011)

Maggio. Comincia il lavoro di revisione per conto di una nuova cliente, la signora Zealia Bishop. Basandosi su semplici idee da lei fornite, Lovecraft scrive i racconti The Curse of Yig (concluso il 9 marzo 1928), The Mound (nell’inverno a cavallo fra il 1929 e il 1930) e Medusa’s Coil (nella primavera del 1930).
Luglio. Vengono a trovarlo diversi amici a Providence. Donald Wandrei, giovane e nuovo amico di penna, arriva in città in autostop da Saint Paul, nel lontano Minnesota, e si ferma una settimana. Seguono poi James Ferdinand Morton, Frank Belknap Long e famiglia, W. Paul Cook e H. Warner Munn.
Agosto. Stavolta è Lovecraft che si muove dalla sua amata città, per visitare Arthur H. Goodenough, poeta, nella sua fattoria del Vermont, assieme a W. Paul Cook.
Agosto. HPL cura una raccolta postuma di poesie del dilettante John Ravenor Bullen, dal titolo White Fire.
Agosto. Pubblicazione di Supernatural Horror in Literature sul “Recluse” di W. Paul Cook.
Sul finire dell’estate lo scrittore compie una serie di gite nel New England, in particolare nello stato del Maine.
Settembre. In visita a Providence giunge Wilfred B. Talman [v. “Nona parte (1926)” al racconto Due bottiglie nere].
Settembre. L’Orrore a Red Hook viene pubblicato nel terzo volume della serie di antologie “Not at Night”, You’ll Need a Night Light, a cura di Christine Campbell Thompson. L’editore è il londinese Selwyn & Blount. È la prima apparizione di un racconto di Lovecraft in edizione rilegata.
Settembre. Amazing Stories pubblica uno dei suoi migliori racconti, che “Weird Tales” aveva rifiutato: The Colour Out of Space.
Ottobre-novembre. Nuove visite di W. Paul Cook.

Arthur H. Goodenough, HPL e W. Paul Cook (21 agosto 1927)



L’ANTICO POPOLO
(THE VERY OLD FOLK, 2 novembre)
Caro Melmoth,
recentemente ho dato un’occhiata all’Eneide tradotta da James Rhodes, una versione che finora non avevo mai visto e che mi ha riportato col pensiero al tempo degli antichi romani. Quella di Rhodes è più fedele a Virgilio di qualsiasi altra traduzione da me letta, compresa quella inedita del mio defunto zio dr. Clark. La parentesi virgiliana, unita ai fantastici pensieri che sempre in me suscitano la vigilia di Ognissanti e i sabba di Halloween celebrati fra le colline, deve avermi ispirato, la notte di lunedì, un sogno di eccezionale forza e vividezza ambientato in epoca romana; un sogno così ricco d’orrore gigantesco e latente che un giorno me ne servirò senz’altro in uno dei miei racconti. I sogni di ambientazione romana non erano affatto rari durante la mia giovinezza: ricordo di essere stato al seguito del divino Cesare in tutta la Gallia e di notte assumevo la personalità del tribuno Milibo; ma è passato tanto tempo che questo mi ha impressionato con forza straordinaria.
Nel sogno era l’ora di un tramonto fiammeggiante, o comunque il tardo pomeriggio; mi trovavo nella città di Pompelo, nella Spagna Citeriore, ai piedi dei Pirenei. L’epoca doveva essere la tarda repubblica, perché la provincia era ancora governata da un proconsole del senato invece che da un legato pretorio come ai tempi degli imperatori, e il giorno era quello che precedeva le Calende di novembre.”
Lovecraft, nei panni del questore provinciale L. Celio Rufo, viene convocato in città assieme ad altri rappresentanti dell’autorità della regione basca perché ogni anno, in questo periodo, un antico e misterioso popolo dagli occhi a mandorla che vive rintanato sui monti, scende per devastare le campagne e rapire i cittadini per farne vittime sacrificali di macabri rituali.
Che il pericolo per la città e gli abitanti di Pompelo fosse autentico, i miei studi non mi permettevano di dubitare. Avevo letto molti papiri raccolti in Siria, in Egitto e nelle misteriose città dell’Etruria e avevo parlato a lungo con il sanguinario sacerdote di Diana Aricina nel tempio che sorge fra i boschi del lago di Nemi. La notte del sabba potevano calarsi dalle montagne pericoli orrendi, calamità per cui non doveva esserci posto nelle terre abitate dal popolo romano. Consentire le orge che prevalevano durante quelle celebrazioni sarebbe equivalso a tradire i costumi dei nostri antenati, che sotto il console Postumio avevano messo a morte molti cittadini romani per la pratica dei baccanali: avvenimenti la cui memoria veniva perpetuata dal Senatus consultum de Bacchanalibus, scolpito sul bronzo e messo a disposizione di chiunque volesse leggerlo.
Repressi in tempo, e prima che riuscissero nello scopo di evocare entità che il ferro di un pilum romano non sarebbe stato in grado di affrontare, i riti dei barbari non avrebbero rappresentato un difficile ostacolo anche per una sola coorte. Solo i partecipanti avrebbero dovuto essere arrestati: la tattica di lasciar liberi i semplici spettatori avrebbe ridotto considerevolmente il risentimento dei montanari. In poche parole, tanto i nostri princìpi che la nostra politica richiedevano un’azione drastica.”
La coorte affronta le montagne salendo per ripidi e stretti pendii, accompagnata dal suono inquietante di tamburi lontani. Coloro che procedono a cavallo sono costretti a farli fermare e a proseguire senza, lasciandoli in custodia a una decina di uomini. Poco dopo, dal basso giungono nitriti di cavalli imbizzarriti, mentre sulle cime di fronte si accendono luci di fuochi. Cercano la guida e la trovano in una pozza di sangue: si è suicidato dopo aver sentito le urla dei cavalli.

Mappa della regione dove è ambientato il sogno di Lovecraft



FINALE: “La luce delle torce cominciò a impallidire e le grida dei legionari terrorizzati si mescolarono con quelle incessanti dei cavalli. L’aria si era fatta più fredda, certo più di quanto ci si possa aspettare all’inizio di novembre, ed era agitata da folate terribili che non potei fare a meno di attribuire al battito di ali gigantesche. La coorte era paralizzata, e mentre le torce impallidivano vidi quelle che mi sembravano ombre fantastiche giganteggiare nel cielo, delineate dalla spettrale luminosità della Via Lattea che correva attraverso Perseo, Cassiopea, Cefeo e il Cigno. Ma all’improvviso le stelle furono cancellate dal cielo: perfino le splendide Deneb e Vega che si trovavano davanti a noi, la solitaria Altair e Fomalhaut alle nostre spalle. Quando le torce si furono spente definitivamente, sulla coorte paralizzata e in preda al terrore non brillarono che le orrende lingue di fiamma degli altari sui monti: fiamme rosse, infernali, che ora permettevano di intravvedere le sagome colossali e in movimento di mostri così estranei che mai prete frigio o indovino campano s’era azzardato a parlarne nei suoi racconti.
E su tutto le urla notturne di uomini e cavalli che il demoniaco frastuono dei tamburi spingeva a vette sempre più disperate, mentre dai monti proibiti calava un vento gelido e dotato di una tremenda volontà, di una vitalità propria che gli permetteva di stringersi intorno a ogni uomo separatamente, finché la coorte fu sopraffatta dagli elementi e dal buio contro cui lottava invano, destinata a un fato simile a quello di Laocoonte e dei suoi figli. Solo il vecchio Scribonio Libone pareva rassegnato, e gridò alcune parole che sovrastarono il fragore generale, e che ancora echeggiano nelle mie orecchie: «Malitia vetus, malitia vetus est… venit… tandem venit»
A questo punto del sogno mi sono svegliato. È stato il più vivido che abbia fatto in anni, e certo attinge a profondità del subconscio che da tempo non venivano sfiorate, tanto da sembrare addirittura dimenticate. Sul destino della coorte non esistono dati storici, ma se non altro la città fu salvata, perché le enciclopedie ci dicono che Pompelo è sopravvissuta fino a oggi sotto il nome moderno di Pamplona…”
Che il modo di sognare di Lovecraft fosse quantomeno particolare è cosa nota. In questa sede abbiamo incontrato più volte alcuni racconti nati proprio da un sogno e talvolta scritti subito dopo il risveglio dall’autore, ancora non completamente lucido. La dichiarazione di Randolph Carter (1919), Nyarlathotep e alcune parti di Celephaïs (1920) sono nati proprio in questo modo. Stavolta però, da questa avventura onirica, un racconto non venne mai realizzato, come invece avrebbe voluto fare l’autore da quanto emerge da alcune lettere inviate ad alcuni suoi amici di penna.
La versione sopra riportata è infatti tratta da una missiva spedita a Donald Wandrei del 3 novembre, ma ne esistono almeno altre due, una all’interno di una lettera a Bernard Austin Dwyer (sempre di novembre) e l’altra a Frank Belknap Long (spedita invece a dicembre), in cui Lovecraft si dilunga in una introduzione dove spiega all’amico il punto di partenza del futuro racconto che elaborerà da questo sogno.
Poiché, invece, non riuscirà mai a scriverlo, permetterà al suo amico F. B. Long di inserirne alcune parti all’interno del suo romanzo breve The Horror from Hills (“Weird Tales” gennaio-marzo 1931).
Dal sogno-racconto emerge una conoscenza profonda del mondo romano, con i suoi riferimenti al Santuario di Diana Aricina (o Nemorense) situato a Nemi, e del suo “sacerdote sanguinario”, visto che in tempi antichi si praticava un insolito sacrificio umano, nel quale il nuovo sacerdote otteneva il suo ruolo solo se riusciva a uccidere il sacerdote precedente durante un combattimento corpo a corpo.
Oppure nella menzione del Senatus consultum de Bacchanalibus, del 186 a. C., decreto col quale furono vietati in tutta Italia i baccanali, dopo una serie di processi che, ci dice Tito Livio, condannarono a morte più persone di quante ne finirono incarcerate.

Illustrazione di Frank Frazetta (1979)



Luoghi: Spagna, città provinciale di Pompelo, l’antica Pamplona; Calagurris; Tarragona.
Personaggi: L. Celio Rufo, questore provinciale; P. Scribonio Libone, proconsole; Sesto Asellio, tribuno militare; Curio Balbuzio, legato della regione; Tiberio Anneo Stilpone, edile; Elvia, madre dell’edile; Antipater, schiavo greco; Vercellio, giovane guida; D. Vinulano, sub-centurione.

Novembre. Comincia il lavoro di revisione per Adolphe Danziger De Castro, col quale inizia una corrispondenza che terminerà solo nel 1936. Tra il dicembre del 1927 e il gennaio del 1928 rivede tre dei suoi racconti tratti da un suo vecchio libro, In the Confessional and the Following, pubblicato nel 1893. Due vengono accettati da “Weird Tales”: The Last Test (pubblicato nel novembre del 1928) e The Electric Executioner (nell’agosto 1930).
Ebreo nato in Polonia, De Castro a ventinove anni si trasferì negli Stati Uniti, dove visse in diverse città, ed ebbe modo di conoscere Ambrose Bierce, di cui poi scriverà una biografia nel 1929. Fu uno dei fondatori della comunità sefardita di Los Angeles e affermò di aver ricevuto l’ordinazione rabbinica.

Una foto di Gustav Adolf Danziger, alias Adolphe De Castro (1921)



L’ULTIMO ESPERIMENTO
(THE LAST TEST)
in collaborazione con Adolphe De Castro (r. p.)
Pochi conoscono i risvolti del caso Clarendon o addirittura sono al corrente che esistono risvolti sconosciuti alla stampa. Fece grande scalpore a San Francisco nei giorni immediatamente precedenti l’incendio, sia per il panico e la minaccia che l’accompagnarono, sia perché vi era coinvolto il governatore dello Stato. Il governatore Dalton, si ricorderà, era il miglior amico di Clarendon, e più tardi ne sposò la sorella. Né Dalton né la sua signora hanno mai parlato di quella penosa faccenda, ma in qualche modo una ristretta cerchia di persone è venuta a conoscenza di come stavano davvero le cose.”
Il governatore James Dalton incontra a San Francisco, dopo dieci anni, Alfred Clarendon, di cui era amico, e sua sorella Georgina, per la quale spasimava ed era ricambiato, conosciuti quando le rispettive famiglie vivevano a New York.
Divenuto nel frattempo uno dei più grandi biologi e internisti, Clarendon viene nominato da Dalton direttore del Servizio sanitario del penitenziario di San Quentin. Con la sua esperienza maturata nei più remoti angoli del pianeta, il dottore è alla ricerca di un’antitossina basica capace di combattere ogni forma febbrile alla radice. I Clarendon decidono di acquistare una villa con ampio giardino nei pressi di Goat Hill, dove si trasferiscono assieme alla servitù e al loro amato cane Dick, un grosso Sanbernardo.
Incurante delle cose materiali, con la classica trascuratezza del genio, Alfred faceva totale affidamento sulla sorella, che si occupava di tutto, e nell’intimo era grato che il ricordo di James l’avesse tenuta lontana da altri legami più vincolanti.”
Georgina non solo si occupa delle cose pratiche, ma appiana anche i numerosi screzi con i colleghi e gli amici che il carattere scostante del fratello causa di continuo.
Il dottore viaggiava molto, e generalmente la sorella lo accompagnava negli spostamenti più brevi. In tre occasioni, tuttavia, aveva compiuto lunghi e solitari viaggi in luoghi misteriosi e remoti per studiare febbri esotiche e pestilenze semi favolose, perché egli sapeva che è dalle sconosciute terre dell’antica e criptica Asia che si diffondono gran parte delle malattie. Aveva fatto ritorno ogni volta con singolari souvenir che si aggiungevano alle stranezze della sua casa, tra cui il numero inutilmente sovrabbondante di domestici tibetani scovati da qualche parte nell’U-tsang nel corso di un’epidemia di cui il mondo mai sentì parlare, ma durante la quale Clarendon aveva scoperto e isolato il germe della febbre nera. Questi uomini, più alti della media dei tibetani ed evidentemente appartenenti a una razza poco nota, erano d’una magrezza scheletrica che induceva più d’uno a chiedersi se il dottore li avesse scelti perché gli ricordavano i modelli anatomici degli anni d’università. Intabarrati nelle ampie tuniche di seta nera dei sacerdoti Bonpo che egli voleva indossassero, avevano un aspetto oltremodo grottesco, e si muovevano con gesti rigidi e silenziosi che accentuavano il loro sembiante fantastico, tanto che Georgina provava la bizzarra e inquietante sensazione d’essere precipitata in qualche pagina del Vathek o delle Mille e una notte.
Ma il più strambo di tutti era il factotum, cui Clarendon si rivolgeva chiamandolo Surama, che si era portato a casa dopo una lunga permanenza in Nordafrica, dove aveva studiato certe strane febbri intermittenti tra i misteriosi Tuareg del Sahara i quali, stando a una vecchia diceria archeologica, discendono dalla razza primordiale della perduta Atlantide. Surama, uomo di prodigiosa intelligenza e di erudizione similmente inesauribile, era, al pari dei domestici tibetani, d’una magrezza patologica: la nera pelle incartapecorita aderiva tanto alla testa calva e al viso glabro che ogni linea del cranio spiccava con spettrale risalto; l’effetto era accresciuto dai neri occhi ardenti, incassati tanto profondamente nelle orbite da lasciare scorgere solo le occhiaie vuote e scure.”

Sacerdote Bonpo, ovvero della religione Bon, la più antica fra quelle tibetane



Il dottore in breve tempo migliora l’efficienza della struttura sanitaria, fino a quando il dottor Jones gli annuncia di aver riscontrato in un paziente un grave caso di febbre nera. Clarendon mette in isolamento l’uomo e comincia a curarlo. Inizialmente sembra che il dottore sia riuscito a guarire il suo paziente, ma il giorno dopo quest’ultimo muore. Due giorni dopo altri tre casi vengono riscontrati e diventa chiaro a tutti che è in corso una vera e propria epidemia. Nel giro di una settimana gli infettati arrivano a quaranta e la notizia trapela all’esterno, dove la stampa scatena il panico in città, provocando un esodo che rientra solo qualche giorno dopo, quando si appura che l’infezione è rimasta confinata all’interno del penitenziario. Alcuni dottori lo accusano di non aver saputo arginare l’epidemia, mentre altri ne lodano l’abnegazione con la quale ha saputo affrontarla. Molti giornalisti prendono d’assedio la sua dimora e la scoperta dei bizzarri domestici non fa che alimentare altre dicerie sul suo conto. Il dottore però non bada affatto ai pettegolezzi, al contrario della sorella che, preoccupata, fa sempre più affidamento sul governatore, alimentando così le braci della vecchia fiamma che li aveva scaldati in passato. Infatti, qualche tempo dopo, James Dalton annuncia al suo amico Alfred di voler sposare la sorella, chiedendogli la sua benedizione. La reazione del medico sorprende i giovani innamorati, perché Alfred nega con freddezza il permesso al matrimonio, ritenendo l’opera di Georgina indispensabile per il prosieguo delle sue ricerche. A nulla valgono gli appelli di James, così Georgina gli chiede di avere pazienza e lo convince ad aspettare ancora del tempo, fino a quando il fratello, che evidentemente ha bisogno delle sue cure e attenzioni, non avrà raggiunto i suoi agognati traguardi.
Nel frattempo a San Francisco, dove l’epidemia era sempre l’argomento del giorno, cresceva l’odio per Clarendon. I casi al di fuori delle mura del penitenziario erano pochissimi, per la verità, e quasi interamente limitati ai bassifondi messicani, dove l’assoluta mancanza di igiene faceva prosperare malattie d’ogni sorta; ma i politicanti e la gente non avevano bisogno d’altro per confermare gli attacchi dei nemici del dottore. Vedendo che Dalton non recedeva di un passo nel difendere Clarendon, i malcontenti, i fanatici della medicina e i loro tirapiedi rivolsero la loro attenzione alla legislazione dello Stato; con grande astuzia raccolsero in un’unica alleanza gli anticlarendonisti e i vecchi nemici del governatore, e si prepararono a varare una legge, con una maggioranza a prova di veto, che trasferiva il potere di nomina dei responsabili di istituzioni minori dal capo dell’esecutivo, nella fattispecie il governatore, ai vari enti e commissioni competenti.”

Una veduta del penitenziario di San Quentin (1910)



Chi trama più di tutti è il braccio destro di Clarendon all’interno del penitenziario, il dottor Jones, che mira a usurparne il posto. Così, Alfred viene esautorato dall’incarico proprio quando, secondo lui, gli sarebbero bastati solo altri tre mesi per mettere a punto un vaccino che avrebbe relegato la febbre tra i cattivi ricordi del passato. Il famoso medico cade in depressione e per molto tempo non si dedica più alle sue ricerche, rifiutando anche di cibarsi. Solo grazie all’affetto di Georgina, lentamente, Alfred supera questo momento di apatia e l’arrivo di una scatola da Algeri, presa inizialmente in custodia da Surama, contribuisce a fargli tornare la voglia di mettersi nuovamente a lavoro. Le povere cavie, alcune scimmiette che Surama afferra quasi con piacere, spariscono rapidamente e Clarendon trascorre la maggior parte del tempo in laboratorio, tanto che talvolta la sorella va a letto senza neanche riuscire a vederlo per la cena. Una notte, Georgina viene svegliata da una discussione animata tra Surama e il fratello.
Sebbene non fosse stata sua intenzione origliare, Georgina colse qualche frase di quella strana conversazione, e intuì un alcunché di sinistro che la spaventò moltissimo, ancorché non capisse bene di cosa si trattasse. La voce del fratello, tesa, tagliente, catturava tutta la sua attenzione con inquietante intensità.
«E in ogni modo» stava dicendo «non abbiamo abbastanza animali per un altro giorno, e sai quanto sia difficile procurarsene una buona scorta senza preavviso. Mi sembra stupido sprecare i nostri sforzi su simile robaccia, quando, dandoci un po’ più da fare, potremmo procurarci esemplari umani.»
Georgina si sentì nauseata al pensiero delle possibili implicazioni che quelle parole sottintendevano, e si aggrappò all’attaccapanni dell’atrio per non cadere. Surama stava rispondendo con quella voce bassa e cavernosa che sembrava riecheggiare il male di mille secoli e di mille pianeti.
«Calma, calma… hai la fretta e l’impazienza di un bambino! Sei troppo precipitoso! Se tu fossi vissuto a lungo come me, tanto che un’intera vita sembra un’ora soltanto, non ti scalderesti così per un giorno, una settimana o un mese! Lavori troppo in fretta. Nelle gabbie ci sono esemplari per almeno un’altra settimana se soltanto lavorassi meno freneticamente. Potresti anche cominciare con il materiale più vecchio, se tu fossi sicuro di non esagerare.»”
Surama prosegue facendo riferimento ad altre cavie umane che si è già procurato, ma che sarebbe difficile procacciarsi ancora, e suggerisce a Clarendon di servirsi di Tsanpo, uno degli inservienti tibetani. Georgina, a questo punto, torna spaventata nella sua stanza.
Il giorno dopo, per un caso fortuito, la donna assiste da lontano alla lotta tra Surama e Tsanpo nel giardino vicino al laboratorio, nel quale viene trascinato infine il tibetano. Trascorre una notte insonne e il giorno dopo, vedendo suo fratello fare la spola tra la casa e il laboratorio per tutto il giorno in preda a una forte tensione, quando la sera lo trova in biblioteca gli domanda cosa lo preoccupi tanto, sperando che le dica qualcosa a proposito del povero Tsanpo. Ma il dottore non fa alcun accenno al tibetano, si lascia andare invece a uno sfogo isterico e quando la sorella gli domanda:

Numero di 'Weird Tales' dove apparve il racconto, a firma del solo A. De Castro (1928)



«Ma sei veramente convinto che la tua scoperta sarà tanto utile all’umanità da giustificare simili sacrifici?»
Gli occhi di Clarendon brillarono di una luce pericolosa.
«L’umanità! Cosa diavolo è l’umanità! La scienza! Imbecilli. Solo individui, ancora e poi ancora! L’umanità è fatta per i predicatori, per cui significa soltanto ciechi creduloni; è fatta per la rapacità dei ricchi, per cui significa denaro; è fatta per i politicanti, per cui significa potere collettivo da usare a proprio vantaggio! Cos’è l’umanità? Niente! Grazie a Dio questa rozza illusione non è durata! Ciò che un uomo maturo adora è la verità… la conoscenza… la scienza… la luce… strappare il velo e dissipare le ombre! C’è morte nei nostri riti, la scienza è il nostro Moloc! Dobbiamo uccidere… sezionare… distruggere… tutto per amore della scoperta… il culto della luce ineffabile. La dea Scienza lo pretende. Sperimentiamo un veleno dubbio uccidendo. Come potremmo fare, diversamente? Non è possibile pensare al singolo individuo… solo alla scienza… è necessario conoscere gli effetti.»”
Georgina, scossa dalle parole del fratello, replica dicendogli che ciò che ha appena affermato è orribile, ma lui risponde concludendo:
«Sì, sarà orribile ma è anche stupendo. La ricerca della conoscenza, voglio dire. Certamente, nulla concede al sentimentalismo. Del resto, anche la Natura non uccide sistematicamente, continuamente, e soltanto gli idioti inorridiscono di questa incessante lotta per la vita? Uccidere è necessario. È la gloria della scienza. Impariamo qualcosa anche da ciò, e non possiamo sacrificare la conoscenza ai sentimenti. Sai come gridano i sentimentali contro la vaccinazione! Hanno paura che uccida il bambino. E con ciò? Come potremmo, diversamente, scoprire l’incubazione e lo sviluppo della malattia? In quanto sorella di uno scienziato potresti far di meglio che cianciare di sentimenti. Dovresti cercare di aiutarmi nel mio lavoro anziché crearmi problemi!»”
A questo punto Clarendon esce dalla casa, seguito però dalla sorella e una volta all’esterno vedono Surama chino sul corpo di Dick, il cane Sanbernardo, steso a terra con gli occhi arrossati e la lingua fuori. La donna prega il fratello di salvarlo, ma lui le risponde con distacco che deve aver contratto la febbre e ordina all’aiutante di portarlo in laboratorio, dopo di che si reca in biblioteca e comincia a leggere un vecchio e grosso libro già aperto sul tavolo. A questo punto Georgina, seriamente preoccupata, si decide a inviare un messaggio a James Dalton.
In attesa dell’arrivo del governatore, la ragazza, che non si era mai avvicinata al laboratorio del fratello per non disturbarlo, decide di entrare nell’edificio con l’intenzione di scoprire i motivi di tutta quella segretezza. Arrivata alla porta interna, chiusa a chiave, ascolta un’altra conversazione animata tra Alfred e Surama.
«Tu, maledetto… sei proprio il più adatto a predicare moderazione, a parlare di sconfitta! Chi ha dato inizio a tutto ciò, d’altra parte? Io non avevo la più pallida idea dei tuoi dannati dèi-demoni e del tuo antico mondo! Io non avevo mai pensato in vita mia ai tuoi stramaledetti spazi al di là delle stelle e a quel tuo caos strisciante, Nyarlathotep! Ero un comunissimo scienziato, dannazione a te, finché non sono stato tanto sciocco da tirarti fuori dalle cripte con i tuoi diabolici segreti di Atlantide! Tu mi hai istigato, e adesso vuoi tagliarmi fuori! Ti ciondoli in giro senza far niente e mi dici di andarci piano, invece di uscire e procurarmi del materiale. Lo sai bene, maledetto, che non so come trattare queste cose, mentre tu ne eri già pratico prima che si formasse la Terra. È degno di te, dannato cadavere ambulante, cominciare qualcosa che non vuoi o non puoi finire!»
Georgina udì la malefica risata di Surama.
«Sei pazzo, Clarendon. Questa è l’unica ragione per cui ti permetto di dire simili spropositi invece di spedirti all’inferno in tre minuti. Quando è troppo è troppo, e tu hai già avuto per le mani materiale più che bastante per un novizio del tuo livello. E, in ogni modo, non ti procurerò più nulla! Ormai sei soltanto un maniaco… che cosa folle e assurda sacrificare anche il cane della tua povera sorella, quando avresti benissimo potuto risparmiarlo! Non puoi più guardare nessun essere vivente senza desiderare di conficcargli in corpo quella tua siringa d’oro. No… Dick doveva finire nello stesso posto dove è finito il bambino messicano… Tsanpo e gli altri sette… dove sono finiti tutti gli animali! Che razza di allievo! Non sei più divertente… hai perso la testa. Volevi controllare le cose, ma sono le cose a controllarti. Ho chiuso con te, Clarendon. Avevo pensato che avessi stoffa, ma non è così. È tempo che provi con qualcun altro. Temo che dovrai andartene!»
Il dottore urlò una risposta in cui si mescolavano paura e parossismo.
«Bada a te…! Vi sono poteri che si oppongono efficacemente ai tuoi… non sono andato fino in Cina per niente, e ci sono cose nell’Azif di Alhazred sconosciute all’antica Atlantide! Entrambi abbiamo avuto a che fare con cose pericolose, ma non pensare di conoscere tutte le mie risorse. Che mi dici della Nemesi di Fuoco? Nello Yemen ho avuto modo di parlare con un vecchio che era uscito vivo dal Deserto Scarlatto… aveva visto Irem, dalle mille colonne, e partecipato ai rituali nei templi sotterranei di Nug e di Yeb… Iä! Shub-Niggurath!»
La beffarda risata di Surama sovrastò la voce in falsetto di Clarendon.
«Taci, idiota! Pensi che le tue grottesche sciocchezze mi impressionino? Parole e formule… parole e formule… che significato possono avere per chi ne domina la sostanza? Adesso ci troviamo in una dimensione materiale, soggetta alle leggi della materia. Tu hai la tua febbre, io il mio revolver. Non avrai altri esemplari e io non prenderò febbri di sorta finché tra noi due ci sarà questo revolver!»”

Illustrazione per una recente edizione portoghese(2023)



Georgina rientra in casa sconvolta e si accascia sul divano. La sera il fratello, rientrando e vedendola in quello stato, si preoccupa. La ridesta con dell’acqua che le spruzza sul viso e mostra una sincera apprensione nei suoi confronti, tanto che Georgina ritrova in quegli istanti il fratello di una volta, prima che i suoi interessi lo trasformassero in qualcuno che non riconosce più. Poco dopo però, quando Alfred si rende conto che Georgina sta meglio, cambia atteggiamento.
La paura del fratello svanì in un istante, e sul suo volto apparve un’espressione indefinita, vagamente assorta, come se stesse considerando qualche imprevista e meravigliosa possibilità. Mentre osservava l’alternarsi di sfumature astute e compiaciute nei lineamenti di Clarendon, si pentì di averlo rassicurato, rendendosi conto che non era stato molto saggio, e prima che egli parlasse scoprì di rabbrividire senza sapere perché.”
Nella mente dello scienziato, infatti, sta maturando l’idea di usare la sorella come ennesima cavia per i suoi esperimenti e si allontana per preparare la siringa. Per fortuna proprio in quel momento arriva Dalton, al quale Georgina rivela tutto ciò che è accaduto negli ultimi giorni. Quando Clarendon ritorna si stupisce per questa visita imprevista, ma l’uomo si dimostra preparato a una simile domanda, perché tira fuori dalla tasca della giacca una rivista medica in cui compare un articolo in cui si annuncia che è stato trovato un siero per debellare la febbre nera. Questo è il motivo per cui si è precipitato da lui, afferma. Lo scienziato è turbato, ma anche irritato da questa notizia, così si precipita a leggere l’articolo e, almeno per il momento, sospende l’iniezione che vuole eseguire. Georgina ne approfitta per recarsi nella sua stanza.
Osservando Clarendon mentre leggeva, Dalton vide che il suo volto pallido, incorniciato dalla barba, sbiancava. I grandi occhi lampeggiavano e le pagine crocchiavano nella presa convulsa delle lunghe dita sottili. L’alta fronte, bianca come l’avorio, era madida di sudore dove l’attaccatura dei capelli cominciava a diradarsi, e qualche istante dopo il medico si lasciò cadere stravolto sulla sedia lasciata libera dal visitatore. Poi gettò un grido selvaggio, come una belva in trappola, e barcollando in avanti spazzò via dal tavolo con le braccia protese libri e carte, prima che la sua coscienza si appannasse come la fiammella d’una candela spenta dal vento.”
FINALE: Dopo che l’amico lo ha rianimato, Clarendon prende la siringa che aveva preparato per la sorella e si inietta il suo contenuto nel braccio, poi confessa all’amico che a trascinarlo in questa storia è stato Surama, il quale probabilmente non è nemmeno un essere umano, e che non ha mai realmente cercato un’antitossina per debellare la febbre nera!
Surama è una creatura antichissima che gli ha insegnato a venerare blasfemi e primordiali dèi, e che la febbre nera fa parte di uno dei suoi culti. Infine gli annuncia che non esiste alcuna antitossina per la febbre nera che conosce lui, perché non è una malattia di questo mondo ed è stato proprio lui, persuaso da Surama, a diffonderla! La scoperta del dottor Miller potrà curare una febbre nera terrestre, ma non questa. Forse solo tra cinquanta anni lo si potrà fare, ma solo dopo numerose modifiche.
A questo punto Clarendon confessa anche di aver provato piacere, accecato dalla volontà di uccidere, a inoculare il morbo in ogni essere vivente: animali, delinquenti, bambini, domestici, e poi sarebbe toccato perfino a Georgina.
Tuttavia, tornato definitivamente lucido, Clarendon ha deciso di essere il soggetto per il suo ultimo esperimento. Infine, prima che muoia, illustra dettagliatamente a Dalton cose deve fare, ovvero distruggere col fuoco l’intero laboratorio, compreso lo stesso Surama. Aggiungendo però che forse solo la Nemesi di Fuoco è in grado di eliminarlo per sempre. Dalton però, mentre è ancora indeciso se cercare di aiutare il suo amico o di eseguire le istruzioni di Alfred, crolla esausto non appena si siede su una sedia.

Catena montuosa dell'Hoggar, nel Sahara



Il governatore viene svegliato da un bagliore proviene dall’esterno. Si tratta del laboratorio che sta andando a fuoco. Forse allora Clarendon ha evocato davvero la misteriosa Nemesi di Fuoco, si chiede l’uomo. Accanto a sé non c’è più Alfred e mentre si avvicina alla finestra aperta per osservare meglio, vede che anche Georgina è scesa, svegliata anche lei dall’incendio. Da fuori si ode una risata maligna, appartenente a Surama, e proprio nel momento in cui i due si affacciano alla finestra per guardare meglio, un fulmine colpisce in pieno il centro dell’edificio già in fiamme.
La risata agghiacciata morì, sostituita da un ululato infernale che sembrava prorompere da mille ghoul e lupi mannari torturati. Si spense in lontananza in echi riverberanti, e lentamente le fiamme riassunsero un aspetto normale.”
Le autorità trovano i resti carbonizzati di un uomo e di un altro essere solo parzialmente umano, perché soltanto il cranio sembra appartenere a una persona, il resto del corpo è in parte sauro e in parte scimmiesco.
Scrivono Fusco e Pilo nella nota al racconto pubblicato nel loro Mammut della Newton & Compton: “Questo racconto venne scritto alla fine del 1927 da Lovecraft per Gustav Adolf Danziger (1858-1959), un dentista tedesco trasferitosi negli Stati Uniti nel 1886. Acquisita la cittadinanza americana, divenne Console Generale degli USA a Madrid. Appassionato di narrativa fantastica, era molto noto nell’ambiente dei fans, che frequentava assiduamente. Uno di questi lo mise in contatto con Lovecraft, al quale consegnò, pregandolo di rivederli, un gruppo di suoi manoscritti già pubblicati nel 1893 in una raccolta intitolata In the Confessional and the Following. Lovecraft (come si legge in una lettera inviata a Frank Belknap Long nel dicembre del 1927) definì indescrivibili ed esecrabili i testi inviatigli, e di conseguenza li riscrisse per intero, conservando soltanto il senso generale della trama e i nomi di alcuni personaggi. Il testo è dunque del tutto opera sua. Danziger non accolse di buon grado la cosa: rispedì il materiale a Lovecraft, affermando che di suo non era rimasto nulla, e che almeno una parte delle sue idee doveva essere reinserita. Lovecraft si rifiutò di effettuare qualsiasi modifica e rimandò i racconti al diplomatico, che alla fine decise di utilizzarli pubblicandoli con lo pseudonimo di Adolphe de Castro.
In The Last Test, che Lovecraft – secondo quanto confidò all’amico Frank B. Long - impiegò un mese a scrivere, si ritrova un concetto fondamentale nella narrativa lovecraftiana, quello del Male venuto da ère precedenti la nascita dell’uomo. The Last Test a sua volta, però, presenta un particolare assai significativo: il Male giunge a contaminare anche il mondo della scienza (una occasione di più perché l’autore polemizzi, non tanto con quest’ultima, quanto con la mentalità ad essa connessa). Ciò in una ambientazione e con un contorno di situazioni psicologiche (la famiglia, l’amore) insolite in Lovecraft, e dovute evidentemente alla necessità di mantenere il soggetto e i personaggi di Danziger.”
(Lovecraft. Tutti i romanzi e i racconti, a cura di G. Pilo e S. Fusco, 4ª edizione, Newton Compton Editori, 2011)
Queste le parole usate da Lovecraft nella lettera del 27 dicembre 1927 inviata a Long, di cui parlano Pilo e Fusco: “Sto invocando il tuo aiuto per la questione del vecchio Dolph! È così dannatamente pignolo che per me non è più una proposta vantaggiosa, perché la sua narrativa è indicibile, la sua capacità di pagamento scarsa e le sue richieste di revisione - dopo la sua prima versione - rilevanti. Sono quasi scoppiato per l’estenuante monotonia di questa cosa sciocca che ho ribattezzato L'ultimo esperimento di Clarendon... Ora, dopo averci pensato su, ha deciso di usare il racconto proprio come l'avevo sistemato. Vaya con Dios, Don Adolfo, ecco un revisore che non solleverà alcuna controversia per rivendicare la paternità di questo pasticcio bestiale!”
Il racconto, effettivamente, non si può annoverare tra quelli fra i migliori scritti dall’autore. Clarendon somiglia un po’ a Herbert West per la sua ossessione (Herbert West, Reanimator, 1921-1922), e a Joseph Curwen per l’uso delle arti magiche (The Case of Charles Dexter Ward, 1927), ma non possiede nemmeno un grammo del carisma di questi personaggi.
Di contro, però, c’è il curioso fatto che Lovecraft debba misurarsi con una storia d’amore, caso piuttosto insolito per la sua narrativa, e a fare un uso massiccio del discorso diretto, espediente che nei suoi racconti viene utilizzato raramente.
Un po’ forzoso appare il tentativo di farne un altro tassello del “Ciclo di Arkham”, perché i Grandi Antichi e gli Altri Dèi restano solo sullo sfondo, senza mai manifestarsi. Vediamo così nominare Yog-Sothoth (che Clarendon ha sentito invocare da un vecchio cinese) e Nyarlathotep. È invece citato per la prima volta Shub-Niggurath, assieme ad altre due divinità alle quali – ci viene detto - sono stati eretti dei templi sotterranei, ovvero Nug e Yeb, che non sono altro che due gemelli nati dall’accoppiamento tra Shub-Niggurath e Yog-Sothoth. Questo lo si apprende da un paio di lettere del vasto epistolario di Lovecraft. Tra tutti questi, tuttavia, appare un’entità presente solo in questo racconto e che incarna il deus ex machina della storia, la fantomatica Nemesi di Fuoco che distrugge sia il laboratorio che Surama nel finale.

Foto di Lorenzo Busilacchi (2022)



Interessante può essere invece l’idea che anche nell’antica Atlantide c’era chi si dilettava a evocare gli Altri Dèi e i Grandi Antichi. Da lì, infatti, proviene Surama, il quale potrebbe essere un sacerdote di quell’antica civiltà che, grazie alle arti magiche, è riuscito a prolungare la sua vita. Però nel finale scopriamo che è umano solo per metà. Dunque gli atlantidei erano una razza non umana? Non è detto, poiché Surama potrebbe essersi trasformato proprio in virtù dell’uso sconsiderato di quella magia che lo ha reso quasi immortale. Però una razza di sauri appare anche nel racconto del 1920, La Città senza Nome, la quale si trova anch’essa fra le sabbie del deserto del Sahara, mentre una razza anfibia compare in La rovina di Sarnath, del 1919. Pertanto resta il dubbio che gli atlantidei potessero essere una razza non umana.
Luoghi: New York; San Francisco: penitenziario di San Quentin; Market Street, dove i due vecchi amici si rincontrano, davanti al Royal Hotel; Villa Bannister, a Goat Hill, dove decide di risiedere Clarendon assieme alla sorella e alla servitù; Hoggar (o Ahaggar), massiccio montuoso che si trova nel cuore del Sahara, è qui che Clarendon, grazie ai tuareg, scopre l’esistenza di Surama; Irem, dalle mille colonne, è solo citata.
Personaggi: dottor Alfred Schuyler Clarendon, biologo e internista; Georgina Clarendon, sorella di Alfred; governatore James Dalton, amico di vecchia data della famiglia Clarendon; Surama, assistente personale del dottor Clarendon; dottor Wilfred Jones, dipendente del comune; Margarita, vecchia cuoca messicana alle dipendenze dei Clarendon; Tsanpo (domestico tibetano); Dick, cane Sanbernardo dei Clarendon; dottor Mac Neil, socio del club a cui appartiene il governatore Dalton, al quale mostra l’articolo in cui si annuncia che è stato trovato un rimedio per la febbre nera; dottor Miller, medico di Filadelfia che scopre il siero per debellare la febbre nera.

INCONTRO NELLA BRUGHIERA
(o LA CREATURA ILLUMINATA DALLA LUNA, 24 novembre)
Il seguente estratto non è altro che un sogno fatto da Lovecraft e raccontato a Donald Wandrei, per iscritto, all’interno di una lettera datata 24 novembre 1927. Non ha dunque un titolo, ma è stato poi pubblicato da August Derleth - con l’aggiunta di un prologo e un epilogo e col titolo di “La Creatura illuminata dalla Luna” - il quale gli ha assegnato il 1934 come anno di stesura. Poiché non si è certi che il prologo e l’epilogo li abbia scritti Lovecraft, come invece affermava Derleth, ho preferito includere all’interno di questa biobibliografia la versione che lo scrittore inviò per lettera all’amico.
Una scena è rimasta impressa in particolare nella mia memoria: quella di una palude umida, fetida e infestata da erbacce che si stendeva sotto un grigio cielo autunnale, contro il quale si profilava a settentrione un’alta parete di roccia incrostata di licheni. Spinto da un oscuro impulso, cominciai ad ascendere un costone della ripida pendice, notando nel corso della scalata l’aprirsi di immense bocche nere di burroni e fenditure che affondavano nella profondità della parete rocciosa. In diversi punti, il passaggio era oscurato dall’ombra di rocce sporgenti; e allora la tenebra era così nera da impedirmi di notare l’aprirsi di spaccature improvvise. Nell’attraversare quelle zone, venivo colto da un singolare brivido di terrore, come se delle sottili e immateriali emanazioni dell’abisso soverchiassero il mio spirito: tuttavia le tenebre erano tali da impedirmi di scorgere una qualsiasi ragione obiettiva che giustificasse il mio senso di allarme. Alla fine, emersi su una vasta pianura di rocce coperte di muschi e terra brulla, illuminata da un debole chiarore lunare che aveva sostituito la fosforescenza del crepuscolo. Gettando lo sguardo all’intorno, non vidi essere vivente; mi accorsi però di uno strano e inquietante movimento tra le erbe della fetida palude che avevo lasciato lontano, sotto di me.
Dopo aver camminato per qualche tempo, incontrai la doppia fila di un rugginoso binario del tram, accanto al quale si levavano i pali corrosi che ancora sostenevano una linea elettrica allentata e ondeggiante. Seguendoli, incontrai una gialla vettura tranviaria (ne ricordo il numero: 1852), del tipo a doppia snodatura diffuso tra il 1900 e il 1910. Non aveva guidatore, ma era evidentemente pronta a partire, perché le antenne erano sollevate a contatto con la linea elettrica, e si sentiva il vibrare del generatore nascosto al di sotto.
Salii, cercando invano un interruttore per accendere le luci all’interno. Quindi mi accomodai su un sedile centrale, e mi disposi ad attendere l’arrivo del conducente e del bigliettaio. Dopo un poco, sentii un fruscio tra le erbe alla mia sinistra, e apparvero le sagome scure di due individui che avanzavano nel chiaro di luna. Avevano i caratteristici berretti degli impiegati dell’azienda tranviaria, e non dubitai che fossero coloro che aspettavo. Poi, uno di loro annusò l’aria in modo strano, e alzò il volto per ululare all’indirizzo della Luna. L’altro si mise a quattro zampe, e iniziò a correre intorno alla vettura.
A tale vista, balzai in piedi come un folle, scesi dal tram e cominciai a fuggire per la pianura desolata, finché non mi destai, esausto come per una vera corsa. E ciò che mi aveva spinto alla fuga non era il fatto che una figura si fosse messa a correre a quattro zampe, ma che l’altra, ululando alla luna, avesse rivelato al posto della testa un cono bianco e disgustoso dal quale spuntava un lungo tentacolo rosso sangue…”

Un'immagine dal film 'Without Name' (2016)



Nonostante la sua estrema brevità, questo racconto si dimostra alquanto efficace. Prima lo scrittore prepara la giusta atmosfera con la descrizione del luogo in cui si trova, poi ci sorprende inizialmente con elementi cittadini che parevano estranei a quanto scritto fino a un momento prima e in seguito con l’apparizione di quelli che sembrano due lupi mannari, fino a raggiungere il climax con un sorprendente finale.

STORIA DEL NECRONOMICON
(HISTORY OF THE NECRONOMICON)
Titolo originale Al Azif: questa è la parola usata in arabo per indicare il rumore notturno prodotto da certi insetti, e che si crede sia anche il verso dei demoni.
Il testo fu composto da Abdul Alhazred, poeta pazzo di Sanaa nello Yemen, forse fiorito all’epoca dei califfi Omayyadi intorno al 700 d.C. Costui visitò le rovine di Babilonia e le segrete sotterranee di Menfi, dopodiché trascorse dieci anni nel grande deserto meridionale d’Arabia, il Roba el Khaliyeh o “Spazio Vuoto” degli antichi e il Dahna o Deserto Scarlatto degli arabi moderni, che lo ritengono protetto da spiriti maligni e abitato da mostri letali: coloro che sostengono di averlo attraversato ne raccontano meraviglie.
Nei suoi ultimi anni Abdul Alhazred abitò a Damasco, dove il Necronomicon (Al Azif) fu scritto; sulla morte o scomparsa del poeta, avvenuta nel 728 d.C., si raccontano molte cose terribili e spesso contrastanti. Un biografo del sec. XII, Ebn Khallikan, riferisce che fu afferrato da un mostro invisibile nella piena luce del giorno e divorato davanti a un gran numero di testimoni agghiacciati. Sulla pazzia di Abdul Alhazred si è a lungo speculato. Sosteneva di aver visto la favolosa Irem, Città delle Colonne, e di aver trovato sotto le rovine di una sconosciuta metropoli del deserto i segreti e gli annali mostruosi di una razza più antica dell’umanità; non era di fede musulmana, ma adorava entità sconosciute che chiamava Yog-Sothoth e Cthulhu.
Nel 950 d.C. l’Al Azif, che aveva ottenuto una discreta e ufficiosa diffusione tra i filosofi del tempo, fu tradotto segretamente in greco da Teodoro Fileta di Costantinopoli, che gli attribuì il titolo di Necronomicon. Per un secolo circa il grimorio spinse alcuni sperimentatori a compiere terribili esperienze, finché venne bandito e fatto bruciare dal patriarca Michele. In seguito se ne è sentito parlare poco e segretamente, ma nel 1228 Olaus Wormius ne fece una traduzione in latino medievale che fu stampata due volte: una nel XV secolo in caratteri gotici (evidentemente in Germania) e l’altra nel XVII, probabilmente in Spagna. Entrambe le edizioni non hanno data né altri segni di identificazione, ed è possibile stabilire una collocazione geografico-temporale solo in base alle caratteristiche tipografiche interne.
Tanto la versione greca che quella latina furono messe all’indice nel 1232 da papa Gregorio IX: evidentemente la traduzione del Wormius, avvenuta poco prima, aveva richiamato l’attenzione della Chiesa. L’originale arabo era da considerarsi perduto già ai tempi di Wormius, come da lui indicato nell’introduzione all’opera; quanto alla versione greca – che fu stampata in Italia fra il 1500 e il 1550 – nessun esemplare è stato più visto dopo l’incendio di una certa biblioteca privata a Salem, nel 1692. Una traduzione inglese effettuata dal dottor Dee non fu mai stampata ed esiste solo in frammenti recuperati dal manoscritto originale. Del testo latino esiste una copia (ed. sec. XV) nella sezione riservata del British Museum, mentre un’altra (sec. XVII) si trova nella Bibliothèque Nationale di Parigi. Altri esemplari del sec. XVII sono reperibili presso la Winder Library ad Harvard, nella biblioteca della Miskatonic University ad Arkham e in quella dell’università di Buenos Aires.
È probabile che numerose altre copie esistano in segreto, e pare che un esemplare del sec. XV faccia parte della collezione di un famoso milionario americano. Una voce ancora più vaga attribuisce la conservazione di una copia del testo greco (XVI secolo) alla famiglia Pickman di Salem: ma se anche così fosse, è probabile che sia scomparsa con l’artista R. U. Pickman all’inizio del 1926. Il libro è rigorosamente vietato dalle autorità di molti paesi e da tutte le fedi organizzate. La sua lettura produce orribili conseguenze. Pare che voci riguardanti quest’opera (pressoché sconosciuta al grande pubblico) abbiano ispirato a R. W. Chambers l’idea centrale di uno fra i suoi primi libri, Il re in giallo.”
Cronologia
Al Azif scritto intorno al 730 d.C. a Damasco da Abdul Alhazred
Tradotto in greco nel 950 d.C. come Necronomicon di Theodorus Philetas
Bruciato dal Patriarca Michele nel 1050 (il testo greco). Il testo arabo invece è andato perduto.
Olaus lo traduce dal greco al latino nel 1228
Nel 1232 edizione latina (e greca) soppresse da Papa Gregorio IX
14... Edizione stampata in lettere nere (in Germania)
15... Testo greco stampato in Italia
16... Ristampa spagnola del testo latino

Il Necronomicon realizzato da MarcSimonetti (2009)



La storia del Necronomicon è tutta in questo testo che, data la sua brevità, ho riportato per intero. A partire dalle sue origini, ad opera di Abdul Alhazred, vissuto nello Yemen nel 700 d. C. e che gli attribuì il nome di Al Azif, fino al suo possesso da parte della famiglia Pickman.
Un suggestivo percorso cronologico che, più che un racconto vero e proprio, sembra un elaborato appunto per eventuali racconti futuri.
Vengono citati i racconti La Città senza Nome, del 1921 (Sosteneva di aver visto la favolosa Irem, Città delle Colonne, e di aver trovato sotto le rovine di una sconosciuta metropoli del deserto i segreti e gli annali mostruosi di una razza più antica dell’umanità”) e Il Modello di Pickman, del 1926 (Una voce ancora più vaga attribuisce la conservazione di una copia del testo greco (XVI secolo) alla famiglia Pickman di Salem: ma se anche così fosse, è probabile che sia scomparsa con l’artista R. U. Pickman all’inizio del 1926).
Luoghi: Sanaa, nello Yemen; le rovine di Babilonia; le segrete sotterranee di Menfi; il
deserto meridionale d’Arabia; Damasco; Irem, la città delle Colonne, e La Città senza Nome; Costantinopoli; varie università che, si dice, conservino il testo proibito.
Personaggi: Abdul Alhazred, poeta pazzo, estensore del pericoloso grimorio; Ebn Khallikan, un biografo arabo del XII secolo; Teodoro Fileta, traduttore del testo dall’arabo al greco; patriarca Michele, che ne ordinò la distruzione; Olaus Wormius, colui che lo tradusse in latino medievale; Gregorio IX, il papa che lo mise all’indice nel 1232; John Dee, personalità poliedrica alla corte della regina Elisabetta I.

Abdul Alhazred by Moonhorse (2023)



Dicembre-gennaio. Sonia Greene, dopo aver inizialmente rifiutato un lavoro ben pagato a Chicago per stare più vicino al marito continuando a vivere a New York, in estate cambia idea. Lavora nella ‘Windy City’ da luglio a dicembre ma, in occasione delle vacanze di Natale, si stabilisce a Providence per diverse settimane, in modo da poter trascorrere con il marito il periodo delle vacanze. Una sua testimonianza ci racconta quanto Lovecraft non sopportasse le basse temperature.
Faceva molto freddo quell’inverno, a Providence, ma poiché il clima freddo mi piaceva, convinsi H.P. ad accompagnarmi in alcune passeggiate ed escursioni. Howard tuttavia non sopportava assolutamente le temperature rigide, cosicché dovevo aiutarlo a salire pendii e colline, camminandogli accanto, cingendogli la vita con un braccio e sorreggendogli l’altro. Ad un certo punto, durante una delle nostre passeggiate, mi resi conto che non ce la faceva più; in simili frangenti di solito chiamavo un taxi, ma in quel momento non ne passava neanche uno e non intendevo certo lasciarlo da solo in quelle condizioni per andare a cercare un taxi. Come Dio volle, riuscimmo a tornare a casa; gli tolsi subito le scarpe e cominciai a frizionargli i piedi intirizziti dal freddo. Era semisvenuto mentre giaceva sul letto. Dopo avergli ‘scongelato’ mani e piedi, gli preparai una tazza di tè bollente al limone colma di zucchero. Mi era estremamente grato per le mie premure.”
(Vita privata di H. P. Lovecraft, AA.VV., a cura di C. De Nardi, Reverdito Editore, 1987)

(fine 12° parte)

Sergio Climinti

Note.
Per stilare la seguente biobibliografia ho fatto riferimento ai quattro volumi editati dalla Mondadori tra la fine degli anni ’80 e gli inizi dei ’90, Tutti i racconti (più volte ristampati) e il volume Lettere dall’altrove (1993), una selezione di lettere estratte dal vasto epistolario dell’autore, tutti curati da Giuseppe Lippi. Più il poderoso mammut dedicato a Lovecraft dalla Newton Compton, Lovecraft Tutti i romanzi e i racconti (2011, quarta edizione) a cura di Gianni Pilo e Sebastiano Fusco. Oltre naturalmente a una serie di siti sul web, su tutti The H. P. Lovecraft Archive, consultato per una più precisa cronologia delle sue opere.
- La sottolineatura che appare nei titoli dei racconti originali (tra parentesi), sta ad indicare il filo comune che li lega al famoso “Ciclo di Arkham”, o “Miti di Cthulhu”.
- I titoli dei racconti non in grassetto sono quelli giovanili, quelli scritti in collaborazione e quelli che destinava ai suoi corrispondenti, che non era interessato a pubblicare.
- La data che compare, a volte, dopo il titolo in lingua originale (che si trova tra parentesi) si riferisce a quella di stesura.
- I racconti scritti in collaborazione sono divisi fra “revisioni primarie” (r. p.) per quei lavori scritti per la maggior parte dall’autore, e “revisioni secondarie” (r. s.) fatte di interventi tesi per lo più a migliorarli. Tali sigle sono riportate tra parentesi, dopo il nome dell’autore che ha lavorato con Lovecraft.
- Il corsivo usato all’interno dei racconti ne individua il testo originale, nella traduzione offerta dai quattro volumi della Mondadori sopra indicati, nella maggior parte dei casi di Giuseppe Lippi.
- Al termine di alcuni racconti la parola FINALE avverte il lettore che nelle prossime righe viene svelato il finale della storia.

N.B. Trovate i link alle altre parti della biografia lovecraftiana nella pagina dedicata e nella Biblioteca di Altrove!