di Giampiero Belardinelli
Ken Parker (il cui primo numero uscì nel giugno 1977, per tipi della Cepim di Sergio Bonelli) è certamente il personaggio più importante creato da Berardi e Milazzo nella loro carriera artistica. Senza ombra di dubbio il personaggio ha segnato una tappa fondamentale nel processo di rinnovamento del fumetto italiano: infatti non ci troviamo dinanzi a un eroe a tutto tondo, ma di fronte a un character pieno di dubbi e incertezze (in questo comunque era stato preceduto da un altro personaggio bonelliano, Mister No, l’antieroe creato da Nolitta); e anche il montaggio delle tavole, dotate di una sceneggiatura prettamente cinematografica e priva di didascalie, si distaccava notevolmente dai modelli utilizzati dagli autori in quel periodo.
Ken Parker (il cui primo numero uscì nel giugno 1977, per tipi della Cepim di Sergio Bonelli) è certamente il personaggio più importante creato da Berardi e Milazzo nella loro carriera artistica. Senza ombra di dubbio il personaggio ha segnato una tappa fondamentale nel processo di rinnovamento del fumetto italiano: infatti non ci troviamo dinanzi a un eroe a tutto tondo, ma di fronte a un character pieno di dubbi e incertezze (in questo comunque era stato preceduto da un altro personaggio bonelliano, Mister No, l’antieroe creato da Nolitta); e anche il montaggio delle tavole, dotate di una sceneggiatura prettamente cinematografica e priva di didascalie, si distaccava notevolmente dai modelli utilizzati dagli autori in quel periodo.
Copertina di Ken Parker n. 1, giugno 1977. Disegno di Milazzo (c) Berardi & Milazzo, 1977-2012 |
In questa
sede, invece, analizzeremo quei racconti oltre
Ken Parker (naturalmente editi dalla Bonelli)
che i due autori – in questi lavori all’opera in maniera
separata – hanno realizzato prima per la Collana
Rodeo (dove appaiono due racconti firmati da
Berardi) e in seguito per i personaggi creati da altri (Tex, Nick
Raider – il poliziotto newyorkese è l’unico personaggio, tra
quelli presi in esame, dove, al di fuori dell’ambito delle storie
di Lungo Fucile,
ritroviamo la firma di Milazzo – e Il Piccolo Ranger). I racconti
verranno commentati in perfetto ordine cronologico (nel primo
capitolo le storie scritte da Berardi, nel secondo i lavori disegnati
da Milazzo) e non in ordine di popolarità di un personaggio o di una
collana.
Una
poetica penna nel mondo dell’avventura: le storie scritte da
Berardi
Nel giugno
del 1977 viene pubblicato il racconto Terra
Maledetta, 121° numero della Collana
Rodeo, sceneggiato da Giancarlo Berardi (al
debutto in casa Bonelli) e disegnato da Antonio Canale.
Una delle locandine italiane di "Corvo Rosso non avrai il mio scalpo!", 1972 |
Si nota come
la visione del film Corvo Rosso non avrai il
mio scalpo (Jeremiah
Johnson nella versione originale; pellicola
del 1972 diretta da Sydney Pollack) abbia influenzato lo
sceneggiatore anche nella costruzione della trama di Terra
Maledetta (il film citato, tra l’altro, ha
dato lo spunto per la nascita della saga di Lungo
Fucile). La storia, ambientata nel 1766,
racconta di un lungo viaggio nelle desolate terre del Grande Nord
canadese, e vede protagonista Adam Wilson, un esperto minerario
proveniente dall’Inghilterra alla ricerca del Fiume
Giallo (e del padre), un corso d’acqua
leggendario che, come sostengono in molti nella regione, pare sia
ricco d’oro, mentre in realtà l’unica ricchezza è costituita da
inutile pirite (sottile e beffarda metafora sulla cupidigia umana).
Una classica storia d’avventura che offre a Berardi lo spunto per
soffermarsi sulla difficile realtà delle terre di frontiere in quel
periodo. Vediamo, ad esempio, tutti gli espedienti a cui ricorrono
gli uomini della spedizione guidata da Wilson per sopravvivere alla
violenza della natura,
la quale, pur se dura, si dimostra sempre meno infida della violenza,
spesso gratuita, degli uomini. Nel lasso di tempo in cui si dilunga
la spedizione, Berardi ci mostra inoltre ritratti di grandissima
umanità: il sacrificio di Jacques (uno dei compagni d’avventura di
Adam), che permette al Nostro di salvarsi da una situazione senza
scampo; l’amore che nasce tra Maruah (un indiana Chippewa) e Mitaua
(il nome indiano di Adam Wilson), un uomo privo di pregiudizi
razziali (una figura con una concezione della vita simile a quella di
Ken Parker). Infine, senza filtri di sorta, l’autore non disdegna
di mostrarci situazioni di estrema crudezza, come, ad esempio, nelle
sequenze in cui i Chippewa massacrano spietatamente gli Eskimo (loro
rivali da sempre), secondo le regole della
lotta per la sopravvivenza con cui, da millenni, si confrontano gli
uomini e gli animali nelle terre ancora selvagge (non vengono
risparmiati né donne né bambini). Inorridito, Wilson si scaglia
contro il suo amico Matonabbee (il capo dei Chippewa e fratello
dell’indiana amata dal Nostro) chiedendogli spiegazioni: "Forse
i bianchi ne hanno di migliori... –
risponde l’indiano – Ma allora perché
hanno sterminato i Wampanoags e i Narragansets e i Massachussetts!?
Il mio popolo uccide solo per mangiare e per difendersi; il tuo
uccide spesso per il gusto di farlo!".
La copertina del n. 121 della Collana Rodeo, disegnata da Antonio Canale. Giugno 1977 (c) Sergio Bonelli Editore |
Pochi mesi
dopo, nell’ottobre del 1977, Berardi debutta sulle pagine del
Piccolo Ranger (Collana Cow-Boy)
con una storia dipanata in tre albi, La vedova
nera (n. 167),
Infamia! (n. 168) e L’ultimo
atto (n. 169). Si tratta indubbiamente uno
dei racconti più interessanti della serie (creata da Andrea
Lavezzolo nel lontano 1958), in cui l’autore genovese introduce
delle gustose novità sul tema di un classico western
carcerario. Accompagnato dai non accreditati
disegni della Buffolente, Berardi sottolinea la sincera amicizia che
Kit Teller nutre verso i pellerossa, defraudati delle loro terre dal
governo degli Stati Uniti, aiutandoli disinteressatamente e senza
secondi fini, al contrario, come la Storia ci insegna, dei
trafficanti bianchi. Berardi tra l’altro, da esperto conoscitore
delle regole del giallo, costruisce un racconto dove tutti gli indizi
portano verso una plausibile verità, per poi divertirsi a ribaltare
il tutto nel finale: le apparenze portavano a escludere che il
responsabile delle evasioni dei detenuti (naturalmente forniti di
bottino nascosto da poter recuperare) dal Penitenziario di Yuma fosse
addirittura il direttore del Carcere Sam Clark. Quest’ultimo,
secondo una sensibilità peculiarmente berardiana, viene ritratto
anche nei momenti di quotidianità e negli affetti familiari, una
caratterizzazione che lo umanizza e lo allontana dal ruolo di cattivo
arido e spietato. Inoltre il camuffamento dell’identità, come
vedremo anche nel magistrale capolavoro kenparkeriano Diritto
e rovescio (n. 36), rende unico questo
episodio del Piccolo Ranger, in cui alcuni personaggi, per varie
motivazioni, ricorrono a una girandola di travestimenti che danno al
racconto – come puntualizza Gianni Brunoro – "sorprendenti
e godibili variazioni sul tema" (cfr. il
volumetto allegato allo Speciale Il Piccolo
Ranger pubblicato nel 1992).
Copertina del Piccolo Ranger n. 167, disegno di Corteggi, ottobre 1977 (c) Sergio Bonelli Editore |
Tra l’altro,
ponendo l’attenzione sulla vita all’interno del Penitenziario,
dove Kit si è fatto rinchiudere per scoprire chi favorisce le
evasioni, Berardi sottolinea la durezza dei secondini, le meschinità
a cui ricorrono per taglieggiare i detenuti, la violenza che questi
ultimi subiscono e al tempo stesso riversano nei confronti dei più
deboli. Tra tutto ciò, poi, l’autore non dimentica di inserire
momenti intimisti, come ad esempio l’addio di Claretta a Kit: "Devi
cercare di dimenticarmi e trovare un bravo ragazzo che..."; "Sta’ zitto! Lo sai benissimo che non
potrei mai!" afferma
più decisa che mai Claretta; "Devi farlo!
Quando uscirò, io sarò un vecchio...",
ribadisce infine con commovente decisione Kit. Inoltre, il vincolo di
amicizia che lega Frankie Bellevan al Nostro, ancor più rafforzato
dalle tristi vicissitudini giudiziarie. E infine la commovente
generosità del detenuto Smiley, un uomo migliore dei suoi carcerieri
e di alcuni presunti, rispettabili personaggi, come appunto il
direttore del Penitenziario. Dopo il racconto del Piccolo Ranger,
troviamo un altro episodio scritto da Berardi nel 131° numero della
Collana Rodeo,
intitolato Wyatt Doyle
(aprile 1978), ambientato nel Kansas del 1873. Nel racconto
assistiamo alle peripezie di Wyatt Doyle, cacciatore di taglie per
necessità (accompagnato nella sua caccia
da un giovane che caratterialmente ricorda molto il figlio), a cui il
disegnatore Grugef (nome d’arte di Giancarlo Forgiarini, un autore
dal tratto indubbiamente insolito rispetto ai tipici canoni
bonelliani del periodo) ha dato il volto dell’attore Burt
Lancaster. Nel lungo flashback Berardi
racconta il dramma del protagonista (un uomo dalla poetica
umanità), costretto dalle avverse circostanze a entrare nel circolo
vizioso e crudele dell’usura (per mano di questi ha perso il
figlio, la moglie e la sua terra). Doyle esce da quella tremenda
esperienza con una visione della vita più cinica e disincantata (lo
sceneggiatore è bravissimo a sottolinearne lo stato d’animo), ma
senza perdere mai quel barlume di umana speranza. Questo racconto
della Collana Rodeo,
come in molti di quelli kenparkeriani, si svolge in gran parte in
un’ambientazione invernale con tanto di maestosi e suggestivi
paesaggi coperti di neve, dove, oltre ai pericoli creati dagli
uomini, le maggiori difficoltà arrivano dalla furia degli elementi
(il pericolo delle valanghe) e dagli animali selvaggi
(particolarmente spettacolare e durissima la lotta dei due
protagonisti con un Grizzly).
La copertina di Nick Raider n. 18 disegnata da Casertano, novembre 1989 (c) Sergio Bonelli Editore |
Passano
undici anni prima di trovare una nuova collaborazione di Berardi per
un’altra testata bonelliana. In questo lasso di tempo, dal 1978 al
1989, molte cose sono cambiate dalle parti di via Buonarroti: la casa
editrice ha raccolto i propri marchi sotto il nominativo attuale di
SBE; nel frattempo sono stati pubblicati nuovi personaggi che si sono
imposti all’attenzione del pubblico (escludiamo quelli che
purtroppo, nei primi anni Ottanta, hanno chiuso anzitempo le
pubblicazioni), quali Martin Mystère, Dylan Dog e Nick Raider. E
proprio per quest’ultimo personaggio l’autore scrive una storia,
Mosaico per un delitto
(n. 18, novembre 1989), considerata da diversi osservatori tra le
migliori della serie ideata da Claudio Nizzi. Il giallo elaborato da
Berardi è inappuntabile e, quando si arriva alla fine, niente può
dirsi essere stato lasciato al caso. Ma ciò che eleva questo
racconto è la straordinaria capacità dell’autore di mostrarci uno
spaccato di varia umanità, di conflitti sociali e momenti di
ordinaria follia. Una ragazzina di diciassette anni (Elisa) viene
trovata morta al Central Park: da lì prendono il via una serie di
interrogatori che offrono all’autore l’occasione per mostrarci i
differenti punti di vista con cui i conoscenti giudicavano il
comportamento della vittima. Chi la definisce una poco di buono,
abituata a frequentare delle cattive
compagnie; chi ne sottolinea la sua
propensione di essere una mangiatrice di
uomini ("Insomma... Siamo tra uomini, no?...
– afferma il fruttivendolo – Minigonne
vertiginose, allusioni maliziose... tutto il repertorio completo!");
chi, come il prete della parrocchia, la definisce una ragazza con dei
problemi, ma comunque devota e generosa con i reietti della società.
Infine, dopo che le indagini avevano portato in tutt’altra
direzione, ecco la sorpresa: la madre adottiva, un’isterica,
meschina donna frustrata, ossessionata dalla bellezza in fiore della
figlia (convinta che le rubasse
il suo nuovo e giovane compagno), è l’insospettabile colpevole
dell’omicidio. Nel finale scopriamo come la vittima sia in realtà
illibata e il racconto chiude il sipario con una beffarda e impietosa
metafora sulle fobie sessuali che ancora oggi affliggono ancora le
società evolute economicamente. Per Berardi, insomma, la trama è
anche un’occasione per affondare il bisturi nella realtà
quotidiana. In questo caso, ci porta alla nostra attenzione la
squallida mentalità di certa gente, disposta a prestare fede a
qualsiasi diceria, alle menzogne più abbiette, pur di dimenticare la
propria condizione di inadeguatezza e di insoddisfazione.
La copertina, firmata Galep, di "Oklahoma", il primo Maxi Tex, dicembre 1991 (c) Sergio Bonelli Editore |
Siamo nel
dicembre del ’91 e in tutte le edicole esce un albo di Tex nel
classico formato bonelliano (intitolato Oklahoma!),
ma con un maggior numero di pagine, ben 348, un volume insolito, che
Tiziano Sclavi ha battezzato
con il termine di MiniTexone,
scritto non da Nizzi o da Nolitta (allora gli unici sceneggiatori –
soprattutto Nizzi – a essere impegnati con il personaggio di
Gianluigi Bonelli) ma bensì da Giancarlo Berardi. I disegni sono del
veterano Guglielmo Letteri. Con il suo segno morbido, classico,
introspettivo, si rivela adattissimo a valorizzare la narrazione
corale, distesa, intimista di Berardi, segnalandosi in pratica come
l’ideale trait d’union tra
le innovazioni berardiane e l’immagine grintosa e dinamica del
personaggio datagli da Gianluigi Bonelli. Un impegno da far tremare i
polsi quello di sceneggiare una storia di Tex, che però Berardi
assolve con puntualità, accostandosi al personaggio di Bonelli padre
con l’umiltà di chi sa di affrontare un mito storico del fumetto
italiano. Il modo di narrare di Berardi è in effetti lontanissimo da
quello di Gianluigi Bonelli, ma comunque le due differenti correnti
di pensiero non sono certo inconciliabili, a
dimostrazione che i preconcetti a priori (non solo nel mondo della
fiction) non
dovrebbero più esistere. L’autore, secondo me, è riuscito in un
compito che molti ritenevano davvero impossibile.
1889: una rara e storica fotografia della Oklahoma Land Rush. |
La sceneggiatura
costruita dall’autore genovese è basata su un fatto storico, la
Oklahoma Land
Rush, ovvero una
lunga corsa, effettuata con carri o qualsiasi altro mezzo, che i
coloni arrivati nell’ex territorio indiano intrapresero per
appropriarsi i migliori lotti di terreno fertile dove poter iniziare
una nuova esistenza. L’autore in questo tipo di contesto dà il
meglio di sé, mostrandoci le vicissitudini dei Paxton e di molte
altre famiglie in competizione tra di loro, in una disperata lotta
tra poveri. Berardi ritrae i personaggi in tutte le sfaccettature
caratteriali: le debolezze, le piccole manie, i sentimenti. Ad
esempio vediamo il nascere della simpatia amorosa tra la figlia dei
Paxton e un mezzosangue, contrastato, almeno inizialmente, dal
fratello della ragazza; poi il successivo affermarsi tra questi
ultimi due, lento ma costante, del vincolo dell’amicizia e della
solidarietà. Inoltre scorgiamo il dramma dei coloni nel tentativo di
cercarsi un posto al sole,
il duro impatto con la morte dei propri cari, il crollo delle
speranze, ma anche la voglia di non arrendersi, di credere che le
illuminate leggi della Costituzione Americana
arrivino anche nelle selvagge terre di Frontiera. Ma se la realtà
dell’Ovest è spesso legata alla legge del più forte, nella
finzione uomini come Tex e Carson non accettano questa realtà, e si
battono con durezza per l’affermazione della giustizia, anche
andando contro i potenti che hanno costruito le loro ricchezze "sulle
lacrime e il sangue della povera gente".
Una delle locandine americane del film "Far and away" ("Cuori ribelli"), 1992. Il finale è ambientato durante l'assegnazione di terre in Oklahoma nel 1889. |
È
lo spirito di molte
delle migliori storie texiane scritte da Gianluigi Bonelli, che
Berardi ha dimostrato di aver compreso e utilizzato alla perfezione.
L’autore costruisce quindi un racconto nel suo inconfondibile stile
narrativo, non dimenticandosi però quegli elementi peculiari delle
trame architettate da Bonelli padre. L’interpretazione berardiana
di fa di Tex è perfettamente canonica: il personaggio mantiene un
eloquio molto vivace, sprezzante con i "criminali
in guanti bianchi", mai comunque
forzatamente arrogante. Inoltre il personaggio, pur in un contesto
corale, resta in fondo il protagonista assoluto, al punto da
risultare, come vuole la tradizione, il deus
ex machina della situazione: le sue indagini
svelano l’intrigo, proteggono i più deboli dall’arroganza dei
grandi e piccoli
criminali, portando infine la giustizia e la speranza a chi si era
affidato alla sua opera e alla sua pistola. Il ruolo che Carson
svolge nella storia è quello del gregario ma, pur non emergendo come
il personaggio epico interpretato da Gianluigi Bonelli e da Mauro
Boselli (cfr., tra gli altri, Il passato di
Carson, Tex nn. 407/409), è comunque
utilizzato positivamente. Le punzecchiature che si scambiano i due
pard, inoltre, sono di una raffinata e garbata ironia decisamente
nelle corde dello sceneggiatore: "Restava
solo il petrolio, ti pare?", dice Tex a
pagina 339; "Elementare, direi!",
risponde Carson; "Mi vergogno perfino di
averti fatto la domanda!" aggiunge ancora
l’anziano pard; "È perché non ci hai
riflettuto!" risponde infine Tex. In
conclusione, l’opera texiana di Berardi è, a mio parere, un
capolavoro assoluto da collocarsi senz’altro accanto alle storie
scritte dall’indimenticato Gianluigi Bonelli.
Un
pennello al servizio del giallo: i racconti illustrati da Milazzo
La copertina di Nick Raider n. 22, disegnata da Casertano, marzo 1990 (c) Sergio Bonelli Editore |
Dalle distese coperte di neve, caratteristiche della saga di Ken Parker, alle strade intasate di traffico e criminali della Grande Mela, l’ambientazione base di Nick Raider, il passo è lungo, ma Milazzo lo compie con la naturalezza e la disinvoltura che deriva dalla sua notevole esperienza artistica. Il disegnatore collabora appunto a Nick Raider, di cui illustra due episodi, Omicidio al Central Park (n. 5, ottobre 1988) e Jimmy e Juanita (n. 22, marzo 1990), entrambi scritti dal creatore del personaggio Claudio Nizzi. In questi due episodi, l’autore sfoggia una serie di soluzioni grafiche insolite, come, ad esempio, il filo contorto del telefono con cui parlano Nick e il tenente Art, i quali appaiono, malgrado la distanza, l’uno di fronte all’altro (Omicidio al Central Park, p. 54), "come nei film americani – scrive Francesco Manetti – degli anni ’30 e ’40". Nelle sue tavole, realizzate con pennellate molto fluide che delineano immagini volutamente deformi, si scorgono dei volumi dai profili incerti che si confondono nell’oscurità della notte. Gli inseguimenti automobilisti, inoltre, mostrano la tendenza di Milazzo ad accentuare il movimento dei mezzi, con "minuziosi accorgimenti grafici – scrive acutamente ancora Manetti – per i rumori, che vengono tratteggiati curvi, come a seguire la macchina in corsa". Le luci, i grattacieli, i luoghi caratteristici, i quartieri malfamati (popolati da un’umanità sfaccettata e varia: prostitute, piccoli criminali, persone disperatamente sole), vengono esaltati dal potente bianco e nero dell’autore, che, a secondo delle esigenze narrative e ambientali, cambia le gradazioni chiaroscurali con risultati scenografici degni dei migliori noir del cinema hollywoodiano. L’autore, col suo segno rapido ed essenziale, sa delineare sequenze mute talmente comunicative da non aver bisogno di un supporto dialogato. Il segno di Milazzo dona a Nick un aspetto maggiormente umano (che ne ammorbidisce la consueta durezza), ma al tempo stesso ne accentua la già notevole dinamicità. La maschera facciale del Marvin milazziano lo avvicina moltissimo ai personaggi della Rivista o degli spettacoli circensi (il personaggio viene ritratto spesso con espressioni da clown). Con l’approfondimento della ancora acerba personalità di Jimmy, Milazzo può sfogare una delle sue doti migliori: la riconosciuta profondità psicologica che sa donare ai suoi personaggi. Il timidissimo e introverso Jimmy Garnet, nel racconto che porta anche il suo nome, oltre alle sue solite mansioni di archivista del Distretto Centrale, viene mostrato,grazie all’ottima sceneggiatura di Nizzi, insolitamente anche nei momenti di attività sessuale: lo vediamo infatti tra le braccia della bella e sfortunata Juanita, compagna della sua prima volta. Queste sequenze trasmettono, oltre ad un’insistente sensazione di malinconia, una travolgente e sensuale carica erotica; l’autore, tra l’altro, dipingendo scene di sesso, come ha già dimostrato in molte occasioni nel suo Ken Parker, dimostra di non sfigurare affatto con i lavori illustrati dai migliori specialisti del genere erotico.
Berardi & Milazzo con quella sagoma di Ken Parker! |
In Jimmy
e Juanita, inoltre, emerge prepotentemente la
coprotagonista della storia, Juanita, messa in risalto dal pennello
di Milazzo sia nelle sue inquietudini (derivate dal dramma della
povertà) sia negli aspetti gioiosi e positivi (l’amore sincero che
nutre per Jimmy), conferendole lo stesso sapore delle donne perdute
splendidamente immortalate, insieme a Berardi, in molte storie di Ken
Parker.
Giampiero Belardinelli
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