venerdì 4 agosto 2023

VITA E OPERE DI HOWARD PHILLIPS LOVECRAFT - DECIMA PARTE (1926)

di Sergio Climinti


H. P. Lovecraft (1890-1937)


1926


IL MODELLO DI PICKMAN

(PICKMAN’S MODEL)


Pazzo? No, non sono pazzo, Eliot. C’è gente che ha preconcetti ben più strani dei miei! Perché non ridi del nonno di Oliver che non si sognerebbe mai di salire su una macchina? Affari miei se non mi piace quella maledetta sotterranea; ad ogni modo qui ci siamo arrivati più in fretta con il taxi. Se fossimo venuti in metropolitana da Park Street, avremmo dovuto fare a piedi tutta la collina.

Sono più nervoso di quanto fossi un anno fa, quando ci siamo visti, lo so, ma non occorre che tu tenga un consulto medico! Di motivi ne ho, Dio solo sa quanti! È già una fortuna che non sia ammattito del tutto, immagino. Perché questo terzo grado? Non era tua abitudine essere tanto inquisitorio.

D’accordo, se proprio vuoi conoscerla, ti racconterò tutta la storia. Forse è meglio così, visto che non hai fatto altro che scrivermi come un genitore afflitto, da quando hai saputo che avevo rotto col Circolo degli Artisti, specialmente con Pickman. Adesso che Pickman è scomparso, al Circolo ci vado di tanto in tanto, ma i miei nervi non sono più quelli di una volta.

No, non so che cosa ne sia stato di Pickman e neanche voglio pensarci. Quando ho smesso di frequentarlo hai dedotto che fossi venuto a conoscenza di qualche suo segreto. È così, ed è proprio per questo che non voglio neppure immaginare dove possa essere andato. Che la polizia faccia le sue indagini… non credo scoprirà molto, a giudicare dal fatto che ancora ignora l’esistenza della casa del North End, quella che Pickman aveva preso in affitto sotto il falso nome di Peters. Neanch’io sarei certo di poterla ritrovare… d’altronde non ci proverei neppure in pieno giorno!”


Park Street in una foto di fine ottocento


Il protagonista confida all’amico di conoscere il motivo per il quale il pittore aveva preso in affitto proprio quella casa. Per questo non ha alcuna intenzione di parlarne con i poliziotti, altrimenti sarebbe obbligato a condurli sul posto.

Non ti ha mai sfiorato il dubbio che io abbia smesso di frequentare Pickman per i futili motivi che hanno spinto il dottor Reid, Joe Minot o Bosworth a fare altrettanto. L’arte morbosa non mi turba, e quando un artista ha il genio di Pickman, reputo un onore conoscerlo, qualunque direzione prenda la sua opera. Boston non ha mai avuto un pittore più grande di Richard Upton Pickman. L’ho detto fin dal primo momento e lo ribadisco ora. Non ho mai ritrattato questo giudizio neppure quando esibì quel suo Pasto del Ghoul. Fu allora, ricordi, che Minot non volle più saperne di lui. Ci vogliono un autentico genio artistico e una totale conoscenza della natura per produrre opere simili a quelle create da Pickman. Non c’è imbrattatele o illustratore che non riesca a spargere colori come capita e dire che si tratta della raffigurazione di un incubo, di un sabba delle streghe o del ritratto del diavolo, ma solo il grande artista riesce a portare sulla tela immagini che spaventano sul serio e che hanno l’accento della verità. E questo perché solo l’artista autentico intuisce la vera anatomia dell’orrore, la fisiologia della paura, conosce con precisione quali linee e proporzioni scaturiscano dalle pulsioni latenti o dalla memoria ancestrale del terrore, sa quali contrasti di colore ed effetti di luce risveglino il senso sopito dell’estraneità. Inutile che ti spieghi perché si rabbrividisca davanti a un Füssli, mentre ci si limita a ridere davanti al frontespizio di una mediocre storia di fantasmi. C’è qualcosa al di là della vita che alcuni artisti riescono a farci percepire per un attimo. Doré aveva questo dono. Sime ce l’ha. Ne era dotato Angarola di Chicago. Pickman l’ha avuto come nessuno altro prima, e prego che nessun dopo di lui lo abbia mai.




Il pasto del Ghoul immaginato da goomi32 nel 2016 (sopra) ricorda molto (sotto) il "Saturno che divora i suoi figli" di Francisco Goya (1819-1823)

Non chiedermi cosa vedano questi individui. Nell’arte esiste una differenza abissale fra le cose vitali e palpitanti ispirate dalla natura, o attinte dai modelli, e il ciarpame commerciale che nei loro atelier gli imbrattatele mediocri ci propinano. L’autentico artista del soprannaturale cattura immagini e scene dall’universo spettrale in cui vive.”

Arrivato a questo punto, l’uomo si concede una pausa per bere qualcosa di forte e invita il suo amico a fare altrettanto, poi riprende il racconto.

La sua ammirazione per il pittore lo porta a frequentarlo sempre più spesso, e poiché gli altri lo evitano, finisce per diventarne un confidente. Una sera gli confessa che se si comporterà bene gli mostrerà la cosa più importante della sua casa. La sua abitazione si trova nel vecchio quartiere di North End, abitato fin dalla fondazione della città, con affascinanti edifici dell’epoca e un tempo dotato di numerose gallerie sotterranee che, oltre a collegare alcune case fra loro, le uniscono al cimitero e al mare.

«C’è un posto del North End che conoscono sì e no tre uomini, oltre a me. In termini di distanza non è molto lontano dalla sopraelevata, ma in senso spirituale c’è un abisso di secoli. L’ho preso perché in cantina si apre un vecchio pozzo di mattoni… uno di quei baratri che ti ho descritto. È una specie di tugurio in disfacimento dove nessuno andrebbe a vivere; mi ripugna dirti per quale cifra irrisoria lo abbia preso. Le finestre sono sbarrate con tavole. Meglio così, non mi serve la luce del giorno nel mio lavoro. Dipingo standomene nella cantina dove l’ispirazione è forte, ma al pianterreno ho arredato altre stanze. Il proprietario è un siciliano, io l’ho preso in affitto sotto il nome di Peters. Ti ci porterò, una notte, se avrai il coraggio di avventurartici.»”

Per quanto timoroso, Thurber segue il pittore fino al vecchio lungomare e dopo aver percorso una serie di strade i due finiscono per inerpicarsi lungo un vicolo deserto, sporco e decrepito.


Numero di Weird Tales dove venne pubblicato per la prima volta il racconto (Ottobre 1927)

Da questo vicolo fiocamente illuminato svoltammo a sinistra in un altro vicolo altrettanto silenzioso e ancora più angusto, immerso nel buio. Un minuto dopo, seguendo sulla destra un itinerario ad angolo ottuso, ci trovammo avvolti nell’oscurità. Poco oltre Pickman tirò fuori una torcia che illuminò una porta antidiluviana a dieci riquadri, tutta tarlata. L’aprì e mi invitò a entrare in un atrio che un tempo doveva essere stato ricoperto di uno splendido rivestimento di quercia; un ambiente sobrio, naturalmente, ma di grande suggestione e che risaliva ai tempi di Andros, Phips e della stregoneria. Superammo una porta sulla sinistra, accese una lampada a olio e mi invitò a mettermi a mio agio.

Si dà il caso, Eliot, che, per usare l’espressione dell’uomo della strada, io di grinta ne abbia un bel po’, ma ti assicuro che fu un brutto colpo guardare le pareti di quella stanza. C’erano i suoi dipinti, capisci… quelli che non poteva fare, né mostrare, a Newbury Street. Aveva avuto ragione dicendo che si era ‘lasciato prendere la mano’. Su, bevi ancora qualcosa. Io ne ho bisogno.

Frontespizio del racconto pubblicato su Weird Tales (1927)


Inutile tentare di descriverli. Semplici tocchi di pennello avevano trasfuso sulla tela il terror panico, l’orrore sacrilego, la ripugnanza indicibile, il fetore morale. La parola è impotente a evocarli. Non avevano nulla a che fare con la tecnica esotica di Sidney Sime, non c’era alcuna affinità con i paesaggi siderali e le escrescenze lunari utilizzati da Clark Ashton Smith per gelare il sangue nelle vene. Sullo sfondo si delineavano vecchi cimiteri, profonde foreste, rocce scoscese emergenti dal mare, cunicoli di mattoni, antiche stanze rivestite di pannelli, o semplici volte in muratura. Il cimitero di Copp’s Hill, che non poteva essere molto lontano dalla casa, era un paesaggio ricorrente. La follia e la mostruosità si esprimevano con forza nelle figure in primo piano… l’arte morbosa di Pickman aveva privilegiato la ritrattistica demoniaca. Poche forme erano del tutto umane, ma vi si avvicinavano a diversi livelli di approssimazione. Erano esseri rozzamente bipedi, inclinati in avanti, con una forma vagamente canina. La pelle aveva un che di gommoso, ripugnante a vedersi. Oh! Li ho davanti agli occhi. Erano intenti… non chiedermi di essere troppo preciso… quasi tutti a nutrirsi… non saprei dire di che cosa. A volte erano mostrati in gruppi, nei cimiteri o in cunicoli sotterranei, spesso impegnati a contendersi la loro preda. E la mostruosa carica espressiva che Pickman era riuscito a imprimere sui volti ciechi davanti al macabro banchetto! Alcune tele raffiguravano le orribili creature nell’atto di saltare di notte attraverso finestre aperte, oppure le mostrava rannicchiate sul petto di persone addormentate, nel gesto di azzannarle alla gola. In un quadro le aveva raffigurate disposte a cerchio, intente a ululare contro una strega impiccata su Gallows Hill, il cui volto somigliava al loro.

Non credere che a sconvolgermi fino a svenire sia stato l’orribile tema o l’ambientazione della scena. Non sono un bambino di tre anni e di cose simili ne avevo viste prima. A suscitare tanto raccapriccio erano i volti, Eliot, quei maledetti volti che sbirciavano lascivi e sbavavano dalla tela palpitanti di vita! Per Dio, amico, credo sul serio che fossero vivi! Quell’empio mago aveva portato sulla tela le fiamme dell’inferno; nelle sue mani il pennello era diventato una bacchetta magica in grado di evocare incubi.”


Vecchie lapidi nel cimitero di Copp's Hill, situato all'interno del quartiere di North End, Boston


A questo punto, il protagonista passa a descrivere all’amico un quadro che lo ha particolarmente turbato. Intitolato La Lezione, mostra il solito gruppo di creature accovacciate in circolo, all’interno di un cimitero, che insegnano a un bambino a nutrirsi alla loro maniera.

Il prezzo di un bambino sostituito nella culla, suppongo… tu conosci la vecchia leggenda secondo la quale gli appartenenti al Popolo Fatato rapiscono i neonati umani dalle loro culle, sostituendoli con la loro progenie. Pickman aveva rappresentato il destino di un bambino rapito, quel che gli succede. Incominciai gradualmente a notare una disgustosa affinità fra le figure umane e quelle non umane. Le tele sottolineavano a vari livelli di morbosità una somiglianza beffarda tra forme decisamente non umane e altre umane, quasi a evidenziare un processo evolutivo, al limite della più abietta degradazione, che dalle une conduceva alle altre. Quelle creature simili a cani scaturivano da esseri umani!”

Thurber viene attratto da un altro quadro in mostra. Rappresenta l’interno di un’antica casa puritana con tutta la famiglia raggruppata attorno al padre, intento nella lettura delle Scritture. Da tutti i volti traspare nobiltà e rispetto, ad eccezione di un solo elemento, un giovane dall’espressione beffarda, ritenuto uno dei suoi figli, ma in realtà affine alle creature immonde. E Pickman si era divertito a dargli i suoi lineamenti.

Il pittore, nel frattempo, accende una lampada nella stanza adiacente e invita il suo ospite a entrare. Qui, lo attende un lavoro intitolato Incidente nella metropolitana, che rappresenta un’orda di questi esseri uscire da una spaccatura nella stazione sotterranea del metrò e avventarsi contro la folla assiepata sulla banchina. Altre tele affollano la stanza e tutte mostrano le immonde creature intente a danzare in cimiteri, appostate all’interno di cantine in attesa della propria vittima, o percorrere numerosi cunicoli sotterranei.


Vincent Proce, olio su tela (2022)

Per provare tanta esultanza nel torturare il cervello e la carne, per gioire davanti a tanta abbietta degradazione, Pickman doveva provare un odio spietato verso l’uomo. Quei dipinti erano terrorizzanti perché erano grandissime opere d’arte. In quelle immagini vedevamo i demoni stessi e ne eravamo spaventati. La cosa più strana era che la forza espressiva e la suggestione di quelle tele non scaturivano dall’uso del bizzarro e del soprannaturale. Non c’era nulla di confuso, distorto, fumoso: le linee e i profili erano netti, vibranti di vita, i particolari definiti con precisione dolorosa. E i volti!

Davanti ai miei occhi non c’era l’interpretazione di un artista, c’era l’inferno stesso, di cristallina chiarezza nella sua cruda obiettività. Ecco com’era! Pickman non era affatto un fantasioso o un romantico… non tentava neppure di darci gli aspetti effimeri, fuggevoli, prismatici del sogno, ma con gelido sarcasmo riproduceva un mondo di orrore palpabile, meccanico, organizzato, che gli si dischiudeva nella sua pienezza, nella sua realtà concreta e tangibile, in tutti i particolari. Dio solo sa come fosse quel mondo e dove Pickman avesse potuto vedere le forme oscene che vi saltavano, trotterellavano, strisciavano, ma una cosa era certa, a prescindere da dove sgorgassero quelle immagini: Pickman era in ogni senso – nella concezione e nell’esecuzione – un pittore figurativo, un verista compiuto e direi scientifico.”

Il narratore viene condotto dal padrone di casa verso il suo studio, allestito nella cantina. In fondo all’umida scala, la torcia illumina in un angolo del vasto spazio una volta di mattoni, appartenente a un vecchio pozzo scavato nel pavimento di terra. Da quell’imboccatura, afferma il pittore, si accede alla serie di cunicoli che percorrono l’intera collina.


'La Lezione' vista da David Senecal (2004)

Poi, attraverso un’angusta porta, Pickman conduce il suo ospite in un ampio locale dove si trovano numerose tele incompiute, ancora poggiate sui cavalletti. Sono spettrali come le opere del piano di sopra, ma ciò che attira l’attenzione di Thurber è una macchina fotografica che si trova su un tavolo. Il pittore afferma che la usa per gli sfondi, infatti gli è più comodo fare foto in giro per la città piuttosto che trascinarsi dietro l’attrezzatura alla ricerca delle varie vedute da immortalare.

All’improvviso, Pickman scopre un’enorme tela posta in un angolo poco illuminato e l’ospite, spaventato, non riesce a trattenere un urlo.

L’eco vibrò a lungo sotto le buie volte della cantina antica e nitrosa. A fatica controllai l’impeto di una reazione che minacciava di prorompere in una risata isterica. Dio Pietoso! Eliot, non so dire fino a che punto fosse reale o il frutto di una fantasia febbrile. Ma non credo che la terra possa ospitare sogni del genere!

Era una creatura immonda con occhi rossi, fiammeggianti, e fra le zampe teneva una cosa che era stata un uomo e gli affondava i denti nella testa come un bambino mordicchia un bastoncino di caramella. Se ne stava acquattata, e guardandola si aveva la sensazione che da un momento all’altro avrebbe abbandonato la preda alla ricerca di un boccone più succulento. Ma, dannazione, non era il tema demoniaco che la rendeva una sorgente inestinguibile di terrore, no, e neppure il muso canino con le sue orecchie aguzze, gli occhi iniettati di sangue, il naso camuso, le labbra bavose. Non erano neppure gli artigli scagliosi, né il corpo incrostato di muffa, né le zampe ungulate, nulla di tutto ciò, sebbene ciascuno di questi particolari avrebbe potuto far impazzire una persona impressionabile.


Illustrazione di Hannes Bok (1951)


Era la tecnica, Eliot, la tecnica maledetta, empia, innaturale! Sono un essere vivente e so riconoscere il soffio vitale intrappolato in quella tela. Il mostro era lì, fissava e rosicchiava, rosicchiava e fissava, sapevo che soltanto la sospensione delle leggi della natura avrebbe consentito di dipingere quella immagine senza avere un modello, senza aver scrutato gli inferi che mai nessun mortale ha contemplato, ammesso di non essersi venduto al demonio.”

Fissata da una puntina su un angolo vuoto della tela si trova, tutta gualcita, una delle fotografie che evidentemente il pittore scatta per i suoi sfondi. Il protagonista tende la mano per dispiegarla e poterla guardare meglio, quando Pickman estrae una pistola e gli fa cenno di fare silenzio. L’uomo esce dalla cantina e si chiude la porta alle spalle. Il protagonista sente prima dei veloci scalpiccii, poi una serie di tonfi e diversi squittii. Infine, l’esplosione dell’intero caricatore.

Pickman ricomparve tenendo in mano la pistola fumante, imprecando contro i topi grassi e sazi che infestavano l’antico pozzo. «Solo il diavolo sa di che cosa si nutrano, Thurber» ghignò. «Quelle antiche gallerie rasentano i cimiteri, affondano nei covi delle streghe, lambiscono il litorale. Devono essere rimasti sprovvisti di cibo, di qualunque cosa si tratti, perché avevano una fretta indiavolata di schizzar via.»”

Poi il pittore riaccompagna l’amico fino all’angolo con Joy Street. Da quella volta non lo ha più rivisto.


Illustrazione di Luis Arturo Arzate Velasco (2019)

FINALE: “Perché ho rotto ogni rapporto con lui? Non essere impaziente. Adesso facciamoci portare il caffè. Di liquore ne abbiamo bevuto abbastanza, ma io per primo ho bisogno di qualcosa. No, non è stato per i quadri che ho visto in quel luogo: anche se, te lo giuro, erano più che sufficienti a giustificare l’ostracismo da nove decimi delle case e dei circoli di Boston. Immagino che ormai non ti sorprenderai se voglio starmene lontano da posti sotterranei e cantine. È stato per qualcosa che trovai nel mio cappotto il mattino seguente. Il pezzo di carta gualcito appeso su quella terrificante tela nella cantina: avevo creduto fosse la fotografia di un paesaggio che egli intendeva utilizzare come sfondo per il mostro. L’ultimo balzo di terrore l’avevo avuto mentre cercavo di lisciarla; probabilmente l’avevo stretta fra le dita e me l’ero infilata in tasca. Ecco il caffè: prendilo nero, Eliot, se sei saggio. Sì, quel pezzo di carta fu il motivo che mi indusse a staccarmi da Pickman, Richard Upton Pickman, il più grande artista che abbia mai conosciuto e l’essere più turpe che abbia mai varcato i confini della vita per gettarsi nell’abisso delle leggende e della follia. Eliot, il vecchio Reid aveva ragione: Pickman non era più completamente umano. Deve essere nato sotto uno strano influsso, oppure ha trovato il modo per dischiudere il cancello proibito. Non ha più importanza, ormai, visto che è sparito; sarà tornato fra le tenebre che amava esplorare. Ecco, accendiamo le candele.

Non chiedermi spiegazioni, non fare congetture su quello che ho bruciato; non interrogarmi su quello scalpiccio, come di talpa, che Pickman aveva tanta voglia di far passare per il fruscio dei topi in fuga. Ci sono segreti, sai, che forse risalgono ai tempi antichi di Salem; Cotton Mather racconta cose ancora più strane. Sai quanto fossero realisti i dipinti di Pickman, tutti ci chiedevamo da dove prendesse quei volti. Be’… il pezzo di carta non era la fotografia di uno sfondo, dopotutto. Mostrava la creatura orribile che veniva raffigurata in quella orribile tela. Era il modello utilizzato da Pickman, e lo sfondo non era altro che la parete dello studio nella cantina riprodotto nei minimi particolari. Dio, Eliot, era la fotografia di un essere vivente!”


Due disegni del ghoul eseguiti da Lovecraft nel 1934


Nella sua introduzione, Giuseppe Lippi dedica poche ma incisive righe al racconto: Pickman’s Model è tra i migliori racconti macabri dello scrittore di Providence e riprende l’antico tema del ghoul, o demone divoratore di cadaveri, che fu introdotto nel mondo anglosassone dalle traduzioni dei racconti arabi e in particolare delle Mille e una notte: è quella, infatti, la sua provenienza. Fa parte di quel vero e proprio sottogenere del fantastico che potremmo definire ‘racconto artistico’, dove l’arte (come altrove la scienza, la religione, ecc.) è il veicolo per introdurre l’arcano e il meraviglioso. Un esponente interessante di questo filone fu il contemporaneo di Lovecraft Clark Ashton Smith.” (G. Lippi, a cura di, H. P. Lovecraft. Tutti i racconti 1923-1926, Oscar Mondadori, Milano, 1990).

È decisamente uno fra i più riusciti racconti dell’autore, con il solito ed efficace finale a sorpresa che però, stavolta, Lovecraft si diverte in qualche modo a svelare già dal titolo.


Il modello di Pickman secondo PierreEstoppey (2021)


La figura del ghoul, come afferma Lippi, è di origine mediorientale e compare in diverse leggende preislamiche. In Occidente viene citato per la prima volta nel Vathek (1785) di William Beckford, poi è Lovecraft - venutone a conoscenza, fin dalla tenera età, attraverso la lettura de Le Mille e una notte - a inserirlo in alcune delle sue storie. Finora lo abbiamo incontrato, anche se soltanto citato, nel finale del racconto L’Estraneo (1921), quando il protagonista del racconto afferma di averne alcuni come compagni delle sue scorribande notturne.

Fra i numerosi artisti citati da Lovecraft all’interno del racconto, viene nominato anche Clark Ashton Smith, suo amico di penna dal 1922, per il quale nutre una sincera ammirazione per il suo lavoro di poeta e illustratore.


Sir Edmund Andros (1637-1714) in un ritratto a opera di Frederick Stone Batcheller (1837-1889)


Oltre al famoso pastore protestante Cotton Mather (anch’esso già citato da HPL in alcuni racconti precedenti), vengono nominate altre figure storiche inerenti alla famosa caccia alle streghe di Salem. Sir Edmund Andros (1637-1714), governatore del New England dal 1686 al 1689, e William Phips (1651-1695), governatore della baia della provincia del Massachusetts, il quale istituì la corte per il processo alle streghe della nota cittadina americana.


Luoghi.

Boston: Park Street; North End, antico quartiere della città abitato prevalentemente da immigrati; Copp’s Hill, antico cimitero; Back Bay, quartiere esclusivo; Newbury Street, una delle più importanti vie del quartiere di Back Bay.

Manicomio di Danvers, solo citato.


Personaggi.

Thurber, protagonista del racconto; Dottor Reid, Joe Minot e Bosworth, membri del Circolo degli Artisti; Eliot, amico del protagonista; Richard Upton Pickman, il pittore maledetto.


Poster che pubblicizza la presenza di Houdini a Providence, all'Opera House, il 26 settembre 1926


Settembre. Harry Houdini fa visita a HPL, a Providence. Lovecraft gli fa da “negro” per un articolo sull’astrologia di cui il mago ha urgente bisogno. Intanto, Lovecraft e C. M. Eddy cominciano a redigere un libro commissionatogli sempre da lui: “Il cancro della superstizione”. Purtroppo però, il lavoro viene interrotto dall’improvvisa e assurda morte del famoso mago, il 31 ottobre 1926.

[Vedere la 7° parte (1924) al racconto “Sotto le Piramidi”, scritto da Lovecraft per Houdini]


Ottobre. Lo scrittore, assieme alla zia più giovane, Mrs. Annie E. Gamwell (1866-1941), esplora i luoghi di provenienza della famiglia della madre, i Phillips, nella valle del fiume Moosup, a Foster, una città a sud-ovest di Providence, sempre nel Rhode Island, ai confini con il Connecticut.


Villaggio lungo la Valle di Moosup, Foster (Rhode Island)


LA CHIAVE D’ARGENTO

(THE SILVER KEY)


A trent’anni Randolph Carter perse la chiave della porta dei sogni. Fino ad allora egli aveva compensato la prosaicità della vita con escursioni notturne in antiche e strane città oltre lo spazio, e nelle incantevoli, incredibili regioni dei giardini al di là dei mari eterei; ma quando sentì incombere la mezza età, questi privilegi cominciarono a sfuggirgli a poco a poco, finché non ne fu completamente tagliato fuori. Le sue galee non potevano più risalire il fiume Oukranos oltre i pinnacoli dorati di Thran, né le sue carovane d’elefanti viaggiare attraverso le giungle profumate di Kled, dove palazzi dimenticati dalle colonne striate d’avorio dormono un dolce sonno ininterrotto sotto la luna.

Egli aveva letto molto su come stanno davvero le cose, e aveva parlato con troppa gente. Filosofi ben intenzionati gli avevano insegnato a indagare le relazioni logiche fra le cose, e ad analizzare i processi che plasmavano i suoi pensieri e le sue fantasticherie. Ogni meraviglia era svanita, ed egli aveva dimenticato che la vita non è nient’altro che una teoria di immagini nella mente, che non c’è differenza fra quelle nate dalle cose reali e quelle scaturite da sogni segreti, e che non c’è motivo di ritenere più vere le prime dalle seconde. Il conformismo lo aveva indotto a una superstiziosa deferenza verso tutto ciò che esiste tangibilmente e fisicamente e lo aveva reso segretamente vergognoso di abbandonarsi alle visioni. Uomini assennati gli dicevano che le sue ingenue fantasie erano sciocche e infantili, ed egli giunse a crederlo, perché si rendeva conto facilmente che spesso era proprio così. Ma dimenticava che le azioni concrete sono altrettanto vacue e infantili, e anche più assurde, perché chi le compie si ostina ad attribuire loro un significato e uno scopo, mentre il cieco cosmo gira senza meta dal nulla verso l’esistenza e dall’esistenza verso il nulla, indifferente, inconsapevole dei desideri o della stessa esistenza delle menti che per un istante proiettano uno sprazzo di luce nel buio.”


Copertina del numero di 'Weird Tales' dove fu pubblicato il racconto (Gennaio 1929)


Il protagonista si sforza di vivere come i suoi consimili, ma tutto gli appare vuoto, grigio, senza significato.

Passeggiava impassibile per le città degli uomini, sospirando perché ogni giallo riflesso di sole sugli alti tetti e ogni scorcio di terrazze con balaustre sotto le prime stelle della sera servivano solo a riportargli alla mente i sogni di una volta, risvegliando la nostalgia per gli eterei paesi che ormai non sapeva più come ritrovare. Viaggiare era solo una beffa; anche la Grande Guerra lo turbò ben poco, sebbene avesse servito fin dal principio nella Legione Straniera francese. Per un po’ cercò amici, ma si stancò quasi subito delle loro rozze emozioni, della monotona uniformità delle loro visioni.”

Carter prova allora a scrivere, riuscendo anche a pubblicare e ad avere un certo successo, ma senza trarne alcuna soddisfazione. Si dedica poi allo studio del bizzarro e dell’insolito, scoprendo però che le dottrine occultiste sono dogmatiche come quelle della scienza. Frequenta anche uomini esperti di occultismo e con alcuni di loro vive esperienze al limite del tollerabile.

Ma simili orrori lo condussero solo ai confini della realtà e non appartenevano al vero paese dei sogni che egli aveva conosciuto da giovane; sicché, a cinquant’anni, disperava ormai di trovare quiete e appagamento in un mondo che era divenuto troppo affaccendato per apprezzare la bellezza e troppo smaliziato per sognare.”

Frontespizio del racconto pubblicato su 'Weird Tales' illustrato da Hugh Rankin (Gennaio 1929)


Arriva al punto di convincersi che forse è meglio togliersi la vita, ma l’apatia che lo opprime gli fa rimandare anche questa decisione. Si rende conto allora che solo pensando al tempo in cui era fanciullo, al suo passato vissuto nel mondo del sogno, la sua vita era degna di essere vissuta. Decide di riarredare la sua casa come quando era giovane e, dopo qualche tempo, finalmente, i suoi torpori notturni, protrattisi per decenni, vengono incrinati da piccoli tocchi di meraviglia, mentre vaghe immagini dell’infanzia sembrano insinuarsi di nuovo nei suoi sogni. Finché una notte suo nonno gli fa pensare alla chiave.

Il vecchio studioso dai capelli grigi, vivido come se fosse stato ancora in vita, gli parlò a lungo e gravemente della loro antica stirpe, e delle strane visioni degli uomini delicati e sensibili che ne avevano fatto parte. Gli parlò del crociato dagli occhi fiammeggianti che apprese terribili segreti dai saraceni che lo avevano catturato; e del primo Sir Randolph Carter, che studiò la magia quando regnava Elisabetta. Gli disse poi di quell’Edmund Carter che era sfuggito per un soffio al capestro, nei giorni delle streghe di Salem, e che aveva riposto in un antico scrigno una grande chiave d’argento ereditata dagli avi. Prima che Carter si risvegliasse, il distinto visitatore gli spiegò dove trovare la scatola: lo scrigno di quercia intarsiato di meraviglie il cui grottesco coperchio non veniva rimosso da secoli.”

L’uomo trova il misterioso scrigno dagli intagli gotici nella soffitta. All’interno, una chiave d’argento ossidato avvolta in una pergamena scritta con segni incomprensibili. Ma familiari, perché Carter riconobbe i caratteri per quelli che aveva visto in un rotolo di papiro appartenente al terribile studioso del Sud che era scomparso a mezzanotte in un cimitero senza nome. Leggendo quel papiro l’uomo era rabbrividito, e in quel momento a Carter venne la pelle d’oca.


Illustrazione per un ebook del racconto (2017)


Nonostante ciò, ripulisce la chiave e decide di tenerla accanto a sé, durante la notte, all’interno del suo scrigno. Intanto, sebbene i suoi sogni si facciano sempre più vividi, non gli mostrano mai le straordinarie città che gli apparivano un tempo, eppure iniziano ad assumere una forma definita. Capisce che deve spingersi più indietro nel tempo, allora comincia a pensare intensamente all’antica fattoria della sua famiglia, fino a quando non decide di ritornarci.

Nel tranquillo incendio d’autunno Carter prese la vecchia strada mai dimenticata dietro i profili aggraziati delle colline ondulate, oltre prati cintati da muriccioli di sassi, valli lontane e boschi incombenti, stradine serpeggianti e fattorie appartate, oltre le anse cristalline del Miskatonic, attraversato qua e là da rustici ponti di legno o di pietra. E a una svolta egli vide il boschetto di olmi giganti in cui era inesplicabilmente sparito un suo antenato un secolo e mezzo prima, e rabbrividì mentre il vento stormiva tra le fronde in modo significativo. Poi vide la fatiscente fattoria della vecchia Goody Fowler, la strega, con le sue piccole finestre maligne e il grande tetto inclinato fin quasi a toccare il suolo sul lato nord. Premette l’acceleratore nel passarvi accanto e non rallentò finché non ebbe salito la collina dove sua madre e i suoi avi prima di lei avevano visto la luce, e dove la vecchia casa bianca dominava ancora orgogliosamente, al di là della strada, l’incantevole e vertiginoso panorama del pendio roccioso e della valle verdeggiante, con le distanti guglie di Kingsport all’orizzonte e, ancor più lontano sullo sfondo, un vago accenno dell’antico mare carico di sogni.”


Lo scrigno contenente la chiave d'argento immaginato da Rutanaz (2011)


È ormai pomeriggio inoltrato quando trova il pendio dove sorgeva la vecchia casa di famiglia e decide di abbandonare l’auto. Si infila la grande chiave in tasca e risale a piedi la collina. Sopraggiunge la sera e, mentre cammina nella boscaglia, gli pare di udire la voce del vecchio Benijah Corey, il tuttofare dello zio Christopher, chiamarlo per nome. Poi, dall’oscurità, vede avanzare la luce di una lanterna e si accorge che è impugnata proprio dal vecchio tuttofare, che lo rimprovera per essersi allontanato troppo, facendo preoccupare sua zia Martha. Così, Carter viene condotto per un sentiero fino a giungere alla vecchia casa, dove lo aspetta la zia sulla soglia. Finita di consumare la cena in silenzio, Randolph viene invitato ad andare a letto. La mattina dopo si sveglia e la casa è esattamente come la ricordava ai tempi dell’infanzia. Dopo aver fatto colazione, è libero di uscire all’aperto e si dirige verso un posto che conosce bene, la “tana dei serpenti”, una grotta profonda dove si recava sempre da giovane. Striscia attraverso una fenditura e, arrivato alla parete in fondo alla grotta, tira fuori la chiave d’argento dalla tasca. Andò avanti, e quando, quella sera, tornò a casa saltellando di gioia, non si scusò per il ritardo, né fece caso ai rimproveri che s’attirò per aver ignorato il richiamo del corno che annunciava il pranzo di mezzogiorno.

FINALE: Tutti i parenti di Carter concordano che sia successo qualcosa che ha acceso la sua fantasia quando aveva dieci anni. Suo cugino ricorda perfettamente quel momento: autunno 1883. Randolph aveva avuto alcune visioni fuori dal comune e sembrava aver acquisito anche delle doti profetiche, visto che nei decenni successivi nomi, avvenimenti, fatti eclatanti che entravano di diritto nella storia, erano stati da lui già accennati in passato. Nel 1897, ad esempio, rabbrividì quando un viaggiatore menzionò la città francese di Belloy-en-Santerre, luogo dove sarebbe stato ferito quasi mortalmente nel 1916, mentre combatteva nella Legione Straniera all’epoca della Prima guerra mondiale.


La chiave d'argento ideata e realizzata da Gage Prentiss (2017)


I parenti di Carter discutono a lungo di queste cose, perché recentemente egli è scomparso. Il piccolo, vecchio domestico Parks, che per anni aveva sopportato con pazienza le sue stravaganze, lo vide per l’ultima volta il mattino in cui se ne andò via solo, in automobile, portando con sé una chiave scoperta da poco. Parks aveva aiutato il suo padrone a tirar fuori la chiave da un vecchio scrigno, ed era rimasto stranamente turbato dai grotteschi intarsi della cassetta e da qualche altra bizzarra peculiarità che non sapeva definire. Partendo, Carter gli aveva detto che andava a visitare la vecchia proprietà avita nei dintorni di Arkham.

A metà della salita che s’inerpica sulla Elm Mountain, sulla strada che conduce alle rovine della vecchia casa dei Carter, era stata trovata la sua auto parcheggiata con cura su un lato della carreggiata, e dentro v’era uno scrigno di legno profumato con intarsi che spaventarono i contadini che lo scoprirono per caso. Lo scrigno conteneva soltanto una bizzarra pergamena le cui iscrizioni nessun linguista o paleografo è stato capace di decifrare o di identificare. La pioggia aveva cancellato da tempo eventuali orme, benché gli investigatori venuti da Boston avessero qualcosa da dire circa le tracce trovate fra le travi cadute della fattoria dei Carter. Dichiararono infatti che era come se qualcuno avesse cercato a tentoni qualcosa, tra le rovine, in un periodo abbastanza recente. Un comune fazzoletto bianco, rinvenuto fra le rocce nel bosco oltre il poggio, non poté essere identificato come appartenente all’uomo scomparso.

Circolano chiacchiere di un’imminente divisione del patrimonio di Randolph Carter fra gli eredi, ma io mi opporrò con decisione perché non credo sia morto. Vi sono intrecci di tempo e spazio, visione e realtà, che soltanto un sognatore può intuire; e per quel che so di Carter, sono convinto che egli abbia semplicemente trovato un modo per attraversare quei labirinti. Ma non saprei dire se un giorno tornerà indietro. Egli desiderava ardentemente il paese dei sogni, si struggeva per i giorni della sua fanciullezza. Poi trovò una chiave e, per certi versi, credo sia stato capace di usarla con singolare profitto.


Prima pagina del dattiloscritto del racconto


Glielo chiederò quando lo incontro, perché mi aspetto di vederlo in una città dei sogni che entrambi visitavamo spesso. Ad Ulthar, oltre il fiume Skai, si dice che un nuovo sovrano regni sul trono di opale di Ilek-Vad, la favolosa città turrita sulla sommità delle irreali scogliere di cristallo che sovrastano il mare crepuscolare dove gli Gnorri barbuti e provvisti di pinne costruiscono i loro bizzarri labirinti: e credo di sapere come interpretare questa voce. Certamente sono ansioso di vedere la grande chiave d’argento, perché nei suoi criptici arabeschi può darsi che siano simboleggiati i disegni e i misteri di un universo cieco e impersonale.”


Torna il personaggio di Randolph Carter – il quale, lo ricordiamo, rappresenta un vero e proprio alter ego dello scrittore - che segna un ritorno al racconto dunsaniano, tipico di quella produzione di Lovecraft che rientra nel cosiddetto “Ciclo del Sogno”. Le prime due novelle che lo hanno visto protagonista però - La Dichiarazione di Randolph Carter, del 1919 e L’Innominabile, del 1923 - non sono ambientate nel mondo onirico. Qui invece lo vediamo stanco e annoiato dalla vita di tutti i giorni e, ormai cinquantenne e disperato, non trova altro rimedio che cercare conforto nella dimensione del sogno, al quale riesce ad accedere solo attraverso un ritorno all’infanzia.


Locandina di un cortometraggio del 2010


In questo non è dissimile da tanti altri personaggi incontrati in alcuni racconti precedenti. Anche Jervas Dudley, infatti (La Tomba, 1917), torna indietro nel tempo, al passato della sua famiglia. Così come il protagonista senza nome di La Stella Polare (1919), il quale si strugge di aver lasciato l’altro sé stesso – soldato - addormentato mentre era di vedetta. Anche Basil Elton, il guardiano del faro di La Nave Bianca (1919), viaggia in mondi onirici, mentre il protagonista senza nome di Ex Oblivione (1920-21) trova più appagante la vita vissuta in sogno piuttosto che quella condotta nella veglia. Senza dimenticare il Kuranos di Celephaïs (1920), il quale riesce ad abbandonare definitivamente il mondo reale per vivere per sempre nei regni fantastici del Sogno.

Scrive Giuseppe Lippi nell’introduzione al racconto: The Silver Key fu definito da Carlo Pagetti – uno dei più attenti studiosi italiani di narrativa fantastica – il racconto che celebrava la «rinuncia alla funzione conoscitiva del personaggio». Perché? Ma fondamentalmente per la ragione che Randolph Carter, ossia l’alter-ego narrativo di Lovecraft, rifiuta di crescere e, quale soluzione ai suoi problemi esistenziali, cerca una strada per regredire verso l’infanzia. Ancora oggi, pur non mancando di capire i motivi di quel severo giudizio, non possiamo fare a meno di trovarlo complessivamente off-target: fuori bersaglio. Ci sembra che The Silver Key sia il manifesto della narrativa ‘fantastica’ di Lovecraft esattamente come The Call of Cthulhu lo è della nuova vena orrorifica, e il suo contenuto allude a una ricerca, non a uno smarrimento delle facoltà conoscitive. Certo Carter non è un personaggio di Joyce o di Svevo, di Musil o di Roth: non ‘conosce’ come loro. Ma l’allusione a una chiave d’argento – per quanto il racconto sia troppo poco sviluppato – vuole richiamare un’arcana e meravigliosa facoltà di percepire il reale (anzi, l’irreale) attraverso mezzi magici. La conoscenza di Lovecraft è onirico-simbolica, e paradossalmente le perdute gioie dell’infanzia possono costituirne una via d’accesso. Tutta la narrativa di Lovecraft è percorsa da un rimpianto struggente per la felicità di quando era un ragazzo, in parte perché fu quella l’epoca in cui cominciò ad avere le sue visioni e quindi ad avvicinarsi alla visione della realtà propria del sognatore fantastico.” (G. Lippi, a cura di, H. P. Lovecraft. Tutti i racconti 1923-1926, Oscar Mondadori, Milano, 1990).


Randolph Carter immaginato da Jacen Burrows sulla copertina del n. 8 di 'Providence' (2016)


Secondo S. T. Joshi è stata la visita fatta a ottobre di quell’anno da Lovecraft – con la zia Annie, a Foster, nel Rhode Island, alla ricerca dei luoghi dove avevano abitato i suoi antenati materni - a ispirare allo scrittore questo racconto. Prova ne sarebbe il nome di uno dei personaggi della storia, quello di Benijah Corey, che sembra preso sia dal nome di uno dei parenti di Lovecraft, tale Emma Corey Phillips, sia da Benejah Place, un contadino vicino di casa dello scrittore.

I lettori più attenti potranno notare alcuni riferimenti celati nel testo riferiti alle precedenti avventure di Randolph Carter e ad altri racconti. Quando il protagonista decide di frequentare alcune personalità note nel mondo dell’occulto, in un passo si può leggere: “Una volta sentì parlare di un uomo che viveva nel Sud, sfuggito e temuto per le cose blasfeme che aveva letto in libri antidiluviani e in tavolette d’argilla trafugate dall’India e dall’Arabia. Andò a trovarlo, visse con lui, ne condivise gli studi per sette anni, finché, in un cimitero sconosciuto e arcaico, a mezzanotte, l’orrore li travolse e soltanto uno uscì dal luogo dove erano entrati in due.” Chiaro riferimento al co-protagonista di La Testimonianza di Randolph Carter (1919): Harley Warren.

Subito dopo il testo prosegue: “Poi tornò ad Arkham, la terribile, vecchia città del New England infestata dalle streghe dove erano vissuti i suoi antenati, e fece certe esperienze nell’oscurità, fra antichi salici e i tetti cadenti ad abbaino, che lo indussero a sigillare per sempre alcune pagine del diario di un antenato stravagante.” Qui ci si riferisce al racconto L’Innominabile (1923). Quando invece Carter si reca verso la casa dove viveva da ragazzo, passando per Kingsport si legge: “Un’improvvisa radura fra gli alberi, sulla destra, gli consentì di spaziare su leghe di prati crepuscolari e di intravedere il vecchio campanile della Chiesa Congregazionalista sulla Central Hill di Kingsport; rosa negli ultimi bagliori del tramonto, i pannelli di vetro delle piccole finestre rotonde fiammeggiavano di luce riflessa. Poi, quando avanzò di nuovo nell’oscurità, gli venne fatto di pensare con un tuffo al cuore che quello scorcio doveva essere scaturito dai suoi ricordi di fanciullo, poiché la vecchia chiesa bianca era stata demolita da moltissimo tempo per far posto al Congregational Hospital. Aveva letto la notizia con interesse, perché il giornale aveva accennato a misteriosi cunicoli o passaggi scoperti nella collina rocciosa sottostante.” In questo caso si sta citando il racconto La Ricorrenza (1923).


Illustrazione per un audiolibro (2022)


Luoghi.

Boston; Arkham; Kingsport; Fiume Miskatonic;

Luoghi del sogno: Fiume Oukranos; Thran, città dai pinnacoli dorati; Kled, antica città in rovina, dagli edifici in avorio, immersa nella giungla; Narath, dai cento portali scolpiti e le sue cupole in calcedonio; Ulthar, situata oltre il fiume Skai; Ilek-Vad, città sul mare situata sulla sommità delle scogliere di cristallo.


Personaggi.

Randolph Carter; Ernest B. Aspinwall, cugino di Carter; Christopher Carter, il vecchio zio; Martha, la zia; Benijah Corey, il tuttofare dell’antica magione dei Carter; Parks, anziano domestico di Randolph.


La chiave d'argento by Rob Laskey (2022)



LA CASA MISTERIOSA LASSU’ NELLA NEBBIA

(THE STRANGE HIGH HOUSE IN THE MIST, 9 novembre)


Al mattino dal mare e dalle scogliere oltre Kingsport si alza la nebbia. Bianca ed eterea sale dal profondo per unirsi alle sue sorelle, le nuvole, ancora umida dei sogni di pascoli sommersi e delle caverne ove vive il leviatano. Più tardi, quando rapide piogge estive battono sui tetti aguzzi dove vivono i poeti, le nuvole liberano una parte di quei sogni, così che gli uomini non vivano nell’ignoranza dei vecchi arcani e delle meraviglie che i pianeti raccontano ai pianeti nella solitudine della notte. Quando le storie si moltiplicano nelle grotte dei tritoni e le conchiglie delle città sommerse riecheggiano le folli canzoni che appresero dagli Antichi, le grandi nebbie si levano ansiose verso il cielo, colme di racconti da narrare, e chi guarda dalle scogliere verso l’oceano vede puro biancore, come se il confine delle pareti a picco sul mare fosse il confine della terra, e i solenni campanacci delle boe suonassero in mezzo al cielo fatato.”

A nord di Kingsport si innalzano alcune creste rocciose dalla notevole altezza e dall’aspetto bizzarro; quella più a settentrione sembra addirittura sospesa nel cielo, come una nuvola grigia congelata. Questo picco desolato si affaccia su uno spazio sconfinato sul mare, e la parete a gradoni che sale fino in cima è stata chiamata dai pescatori Strada in Salita. Nonostante questo, sulla cresta si trova una vecchia casa le cui finestre, di sera, si illuminano. La gente del posto afferma che è abitata da un individuo che vive lì da tempo immemorabile, anche se i villeggianti estivi non credono a queste voci. Un’estate giunge da quelle parti un uomo di cultura con la sua famiglia, tale Thomas Olney. Attratto dalle vecchie case del villaggio, ama percorrere i suoi vecchi viottoli e talvolta si ferma a parlare perfino con il Terribile Vecchio, il quale di solito non ama rivolgere parola ai turisti.


Illustrazione apparsa su Weird Tales (1931)


Era inevitabile che Olney notasse la casetta grigia nel cielo, sulla cresta settentrionale che è tutt’uno con le nebbie e il firmamento. Si protendeva eternamente su Kingsport e il suo mistero riecheggiava nei sussurri dei vicoli contorti della città. Il Terribile Vecchio raccontò con la sua voce faticosa una storia che suo padre gli aveva detto, e cioè che una notte un fulmine era scoccato verso l’alto dal cottage in mezzo alle nuvole e aveva raggiunto le parti remote del cielo; e Granny Orne, che vive in una casetta con l’abbaino tutta coperta d’edera in Ship Street, ripeté borbottando qualcosa che sua nonna aveva saputo di seconda mano: nella nebbia che sale da oriente verso il cottage irraggiungibile svolazzano ombre misteriose, e premono sull’unica porta della casa. La porta, peraltro, si apre sull’orlo della parete che incombe sull’oceano, e può essere vista solo dalle navi in mare.”

Attratto dalla misteriosa casa, una mattina di agosto il professore decide di tentare la scalata. Nonostante le molte difficoltà, l’insegnante riesce a raggiungere l’antico cottage.

Le pareti erano grigie come la roccia e il tetto aguzzo si ergeva orgoglioso contro il biancore latteo dei vapori del mare. Olney si rese conto che l’estremità della casa che dava verso terra non aveva porte, ma solo un paio di finestrelle sconnesse con i vetri piombati e sporgenti tipici del XVII secolo. Tutto intorno erano nuvole e caos, e al di sotto il bianco dello spazio sconfinato. Olney aveva la sensazione di essere sospeso nel cielo con la casa misteriosa e inquietante, e quando avanzò verso la parete frontale e vide che la facciata era a perpendicolo con la parete – in modo che la porta d’ingresso poteva essere raggiunta solo dall’aria – Olney provò un brivido che non si poteva spiegare solo con l’altitudine. Era strano che embrici di legno tanto consunti reggessero ancora, e il camino di mattoni sbriciolati si tenesse insieme.”


Quinta tavola di una riduzione a fumetti del racconto a opera di Jason Thompson (2009)


Il protagonista gira attorno agli altri tre lati della casa, provando ad aprire tutte le finestre, ma senza riuscirci. Poco dopo sente il rumore di chi sta armeggiando con una serratura, quella della porta rivolta verso l’oceano; segue poi il suono di un passo pesante dirigersi verso la finestra della parete dove lui si trova. Un uomo dall’imponente barba nera si affaccia e gli porge la mano per aiutarlo a scavalcare il davanzale, e l’ospite si ritrova in una stanza dal soffitto basso.

L’uomo indossava vestiti antichi ed era circondato da un’indefinibile atmosfera di avventure marine e sogni di grandi galeoni. Olney non ricorda la maggior parte di ciò che disse, e neppure chi fosse, ma ripete che era strano e cortese e aveva intorno a sé la magia di abissi incalcolabili del tempo e dello spazio. La piccola stanza sembrava pervasa da una luce verdastra, come quella del mare, e Olney vide che le finestre all’estremità orientale non erano aperte, ma bloccavano l’accesso della nebbia con spessi vetri opachi, simili al fondo delle vecchie bottiglie. L’uomo barbuto sembrava giovane, ma i suoi occhi avevano contemplato antichi misteri; dai racconti che narrava di cose remote, era evidente che la gente del villaggio aveva avuto ragione nel supporre che comunicasse con le nebbie del mare e le nuvole del cielo, e questo fin da quando nella pianura sottostante era sorto un villaggio rudimentale da cui i pescatori potessero ammirare la casa solitaria.”

E così, Olney ascolta per l’intero trascorrere del giorno le leggende dei vecchi tempi: del re di Atlantide e della sua lotta contro mostri marini usciti da spaccature poste sul fondo dell’oceano; del tempio di Poseidonis ricoperto di alghe, visibile ancora, di notte, dalle navi alla deriva; degli anni dei Titani, e di altro ancora. Si mostra invece reticente quando si accenna all’età oscura del caos iniziale, prima che nascessero gli dèi o anche solo gli Anziani, e quando gli Altri Dèi danzavano sulla vetta dell’Hatheg-Kla nel deserto di pietra vicino a Ulthar, oltre il fiume Skai.


Copertina del numero di 'Weird Tales' con la prima edizione del racconto (Ottobre 1931)

A un tratto, i due sentono bussare alla porta. L’uomo con la barba fa capire al suo ospite di restare fermo, poi si dirige verso l’uscio che dà sull’abisso e guarda dallo spioncino. Si gira verso il professore e gli fa segno di restare in silenzio, poi chiude una per volta tutte le finestre e torna a sedersi vicino a Olney. Davanti ai vetri vedono passare rapidamente una bizzarra figura nera che poi scompare. Arriva la sera, quando alla porta bussano di nuovo, ma stavolta con un preciso ordine di colpi. L’uomo va ad aprire senza guardare e davanti al suo ospite si spalanca una visione sbalorditiva.

C’erano il grande Nettuno, gagliardi tritoni e fantastiche nereidi, e in equilibrio sul dorso dei delfini vi era un’enorme conchiglia bivalve in cui viaggiava la grigia e spaventosa figura del primitivo Nodens, signore del Grande Abisso. Le conchiglie più piccole impugnate dai tritoni emettevano fantastici suoni e le nereidi li riecheggiavano colpendo il guscio risonante di sconosciuti abitatori delle caverne abissali. Il peloso Nodens allungò la mano avvizzita e aiutò Olney e l’uomo con la barba a salire a bordo della conchiglia, mentre dai nautili e dai gusci delle altre creature si levava un clamore spaventoso. Il favoloso corteo si librò nell’aria e gli squilli e le grida si persero nell’eco dei tuoni.”


Prima pagina del manoscritto del racconto

Il giorno dopo, verso mezzogiorno, Olney torna a Kingsport. Non ricorda bene l’esperienza avuta il giorno prima e ne parla solo con il Vecchio Terribile, il quale afferma che colui che è tornato dalla cima del picco non è più lo stesso di prima. Da quel giorno, l’uomo torna alla banalità della sua vita precedente; trascorrono numerosi anni, ma nei suoi occhi non brilla più quella luce inquieta di un tempo e non ha più messo piede a Kingsport. Gli anziani del posto raccontano che dalla casa provengono ora canti e risate di voci che non sono di questa terra, e di sera le finestre sono più luminose di prima. Tutti si sono convinti che la casupola non può essere abitata da alcunché di malefico e i giovani, senza più paura, si mettono all’ascolto dei suoni remoti del vento del nord.

FINALE: “I vecchi temono che un giorno uno di essi voglia trovare la strada per il picco nel cielo e imparare i segreti che si accumulano da secoli sotto il tetto d’embrici che è tutt’uno con la roccia, le stelle e gli antichi terrori di Kingsport. Non dubitano, gli anziani, che quei giovani avventurosi torneranno indietro, ma temono che dai loro occhi scompaia una certa luce, e la volontà dai cuori. E non desiderano che l’arcaica Kingsport dagli antichi abbaini e i ripidi vialetti di collina muoia nello spirito anno dopo anno, mentre lassù, nel rifugio appollaiato sulla cresta, i canti e i cori si fanno sempre più sfrenati e i sogni portati dalle nebbie si fermano a riposare nella via che li conduce dal mare al cielo. I vecchi non vogliono che l’anima dei giovani lasci i piacevoli focolari e le taverne con i tetti mansardati di Kingsport, né che i canti e le risate in cima alla scogliera si facciano più forti. Perché se una nuova voce è stata in grado di sollevare tanta nebbia dal mare e di accendere nuove luci balenanti nel nord, essi predicono che l’aggiunta di altre voci porterebbe nebbie e luci in tale abbondanza che gli Antichi Dèi (alla cui esistenza accennano solo in bisbigli, per paura che il parroco della congregazione li senta) emergerebbero dalle profondità e dallo sconosciuto Kadath nel deserto gelato, e stabilirebbero la loro dimora su quell’altissimo baluardo, a due passi dai semplici pescatori e dalle dolci valli e colline… Questo gli anziani non lo vogliono, perché nella gente semplice le cose che non sono di questa terra fanno nascere sospetti, e il Terribile Vecchio ricorda che Olney parlò di una creatura che aveva bussato alla porta ma che l’abitatore solitario temeva, e di una figura nera e indagatrice che avevano intravista dai vetri piombati delle finestre. Se tutto questo arriverà o no, solo gli Antichi possono deciderlo: nel frattempo la nebbia continua a salire verso il picco vertiginoso e l’antica casupola dirupata, la dimora dalle basse grondaie dove non si vede nessun essere umano ma che di sera è illuminata da luci furtive. Bianca ed eterea sale la nebbia dal profondo per unirsi alle sue sorelle, le nuvole, ancor umida dei sogni di pascoli sommersi e delle caverne ove vive il leviatano. E quando le storie si moltiplicano nelle grotte dei tritoni e le conchiglie delle città sommerse riecheggiano le folli canzoni che appresero dagli Antichi, le grandi nebbie si levano ansiose verso il cielo, cariche di racconti; e Kingsport, che riposa inquieta sui contrafforti inferiori di quella spaventosa sentinella di roccia, vede in direzione dell’oceano un puro biancore, come se il confine delle pareti a picco sul mare fosse il confine della terra, e i solenni campanacci delle boe suonassero in mezzo al cielo fatato.”

Illustrazione di Nick-OG (2020)


Nel racconto, molto amato dall’autore, quest’ultimo si diverte a fondere le fantasticherie sognanti - tipiche di certa sua produzione fin dagli esordi - con elementi tratti dal mondo classico, aggiungendoci l’idea – neanche questa nuova per lui - che “qualcosa” prema sulla nostra realtà per entrarvi. Ecco cosa scrive un venerdì di dicembre di quell’anno al suo nuovo corrispondente, il giovane Derleth, dopo avergli inviato il racconto: “Caro signor Derleth, sono molto lieto che ‘Strange High House’ le sia piaciuto, perché tutto sommato è il mio preferito tra i racconti che ho scritto ultimamente. I due aspetti della vita che mi affascinano di più sono stranezza e antichità, e quando in un racconto riesco a combinarli entrambi sento che il risultato è migliore che se ne avessi adoperato uno solo. Resta da vedere che effetto farà questa bizzarra combinazione quando riuscirò ad ampliarla alle dimensioni di un romanzo. Intanto sono a pagina 72 della mia fantasia ambientata nella terra dei sogni…” (H. P. Lovecraft. Lettere dall’altrove. Epistolario 1915-1937, a cura di G. Lippi, Oscar Mondadori, Milano, 1993).

Infatti Lovecraft, nello stesso periodo, è alle prese con un progetto di più ampio respiro: La ricerca onirica dell’ignoto Kadath - di cui, appunto, è giunto a pagina 72 – del cui esito, però, è meno convinto.

Tornando al racconto, ritornano qui alcuni personaggi e luoghi geografici incontrati in altre novelle, come il Terribile Vecchio, protagonista dell’omonimo racconto del 1920, che vive nella cittadina di Kingsport, teatro di una vicenda narrata anche ne La Ricorrenza, del 1923. Vengono citati anche Arkham e il fiume Miskatonic, che scopriamo essere non molto distanti dalla cittadina che si affaccia sul mare. Poi vengono menzionati alcuni dei luoghi risalenti a un remoto passato – entrati a far parte della Terra del Sogno - come Ulthar e la vicina cima dell’Hatheg-Kla, già incontrati in I gatti di Ulthar (1920) e Gli altri Dei (1921). A quest’ultima novella pare collegarsi direttamente il racconto in questione, perché anche qui si immagina che dietro alle divinità degli uomini, come Poseidone e Nodens, si celino divinità molto più antiche, le quali premono per entrare nella nostra dimensione e, presumibilmente, invaderla.


La casa nella nebbia vista da Armand Cabrera, artista digitale (2012)


Nodens è una divinità celtica legata al mare, alle guarigioni e alla caccia, venerata in Britannia e, probabilmente, anche in Gallia. Viene raffigurato come un uomo anziano con una corona di raggi solari, alla guida di un carro trainato da quattro cavalli e affiancato da due tritoni e due spiriti alati.

Quando l’abitante della casa narra al suo ospite le antiche storie su Atlantide, menziona Poseidonis. Con questo nome viene indicato l’ultimo residuo del continente perduto nel racconto Sand (1912) scritto da Algernon Blackwood, il quale in seguito ha ispirato Clark Ashton Smith per una serie di novelle scritte negli anni ’30 e ‘40.

Poesidonis però, potrebbe essere anche un riferimento al racconto Il Tempio scritto da Lovecraft nel 1920: “[…] … e di come il tempio di Poseidonis, coperto d’alghe e ornato di numerose colonne, venga ancora avvistato a mezzanotte dalle navi perdute, che proprio per questo sanno di aver smarrito la rotta.”


Luoghi.

Kingsport: Water Street, dove si trova l’abitazione del Vecchio Terribile; Ship Street, dove vive Granny Orne.

Arkham e il fiume Miskatonic.

Ulthar; Hatheg-Kla; fiume Skai.


Personaggi: Thomas Olney, professore; il Terribile Vecchio; Granny Orne, un abitante di Kingsport; il misterioso abitante della casa appollaiata sulla sommità della scogliera.


La città di Ulthar in una variant cover di 'Providence', di Jacen Burrows (2015)


LA RICERCA ONIRICA DELL’IGNOTO KADATH

(THE DREAM-QUEST OF UNKNOWN KADATH, novembre 1926 – gennaio 1927)


Tre volte Randolph Carter sognò la città meravigliosa e tre volte ne fu rapito mentre l’ammirava dalla terrazza panoramica. Magnifica e splendente come oro ai raggi del tramonto, la città era ricca di mura, templi, colonne, ponti ricurvi di marmo venato, fontane d’argento che mandavano zampilli nelle grandi piazze, giardini profumati, larghe strade che si snodavano tra filari di alberi delicati, urne ornate di fiori e una fila scintillante di statue d’avorio, e a nord, sui fianchi ripidi delle colline, s’arrampicavano file di tetti rossi e vecchi abbaini aggobbiti che proteggevano le strade più piccole, dove l’erba cresceva in mezzo ai ciottoli. Era una visione degna della febbre di un dio: un concerto di strumenti soprannaturali, un tuono di cimbali senza tempo. Il mistero aleggiava su di essa come una nube sulla cima di una montagna favolosa e inesplorata, e quando Carter guardava la città dal parapetto della terrazza rimaneva senza fiato, assalito dal sapore e dal mistero di ricordi semidimenticati, dal dolore delle cose perdute e dal desiderio struggente di rimettere al suo posto ciò che una volta aveva avuto un’importanza portentosa e straordinaria.

Sapeva che per lui il significato di quel ‘qualcosa’ era stato immenso, ma non poteva dire in quale ciclo o incarnazione anteriore, e neppure se avesse fatto esperienza da sveglio o in sogno. Non gli rimanevano che le visioni di un’infanzia lontana e dimenticata, vaghe sensazioni di meraviglia e piacere nascoste nei misteri della vita di tutti i giorni, quando l’alba e il tramonto portavano, ricchi di aspettativa, musica di liuti e canzoni che schiudevano porte fatate, rivelatrici di altre sorprendenti meraviglie. Ma la notte, quando si ritrovava sulla terrazza di marmo ornata d’urne bizzarre e con il parapetto scolpito, quando ammirava la silenziosa città del tramonto che si stendeva ai suoi piedi, bellissima e ultraterrena pur nella sua concretezza, Carter scopriva di essere schiavo dei capricciosi dèi del sogno, perché non c’era verso di abbandonare la terrazza e scendere la gran scalinata di marmo che precipitava, a perdita d’occhio, verso le vecchie strade incantate che sotto di lui parevano invitarlo.


Copertina del primo numero di una riduzione a fumetti Usa (2022)


Quando, per la terza volta, si svegliò senza aver disceso la scala e avere attraversato le strade immerse nel tramonto, Carter pregò a lungo gli dèi del sogno che, invisibili e capricciosi, meditano sulle nuvole del misterioso Kadath (il monte che sorge nella gelida piana dove nessun uomo si è mai avventurato). Ma gli dèi non risposero: non diedero segno di voler cambiare atteggiamento o di volerlo aiutare, e ciò nonostante il fervore delle preghiere che Carter aveva rivolto loro in sogno e nonostante che li avesse invocati, con offerte e sacrifici, tramite Nasht e Kaman-Thah, i sacerdoti barbuti il cui tempio simile a una caverna sorge non lontano dalle porte del mondo diurno, con in mezzo una colonna di fuoco. Sembrò anzi che le preghiere avessero effetto contrario, perché subito la città scomparve dai sogni, come se le tre visioni che Carter ne aveva avuto da lontano fossero dovute a un incidente o a una distrazione degli dei, ma fossero contrarie alla loro volontà e ai loro disegni nascosti.

Alla lunga il desiderio delle strade che splendevano nel tramonto e dei vialetti che s’inerpicavano per la collina in mezzo ai tetti rossi si fece struggente , e Carter, incapace di toglierseli dalla mente di notte o di giorno, prese l’eroica decisione di andare là dove nessun uomo era mai andato, di sfidare i deserti di ghiaccio e la tenebra in cui sorge lo sconosciuto Kadath, il monte incappucciato di nuvole e sovrastato da costellazioni inimmaginabili che nasconde i segreti dei Signori, e il castello d’onice notturno in cui hanno dimora.”

Carter illustra ai due sacerdoti le sue intenzioni, ma questi gli sconsigliano di portare avanti il suo progetto, perché è evidente che gli Antichi Dèi abbiano già manifestato il loro volere. Inoltre, nessuno è mai arrivato al monte sconosciuto, perché si ignora in quale parte dell’universo esso sia: nella terra dei sogni che circonda il nostro mondo o in quella adiacente al pianeta Fomalhaut o Aldebaran? Dal principio del tempo solo tre anime umane hanno provato a raggiungerlo e due di queste sono quasi impazzite. Oltre agli innumerevoli pericoli che lo aspettano a ogni tappa, infatti, alla fine del viaggio lo attenderebbe l’orrore finale, costituito da Azathoth, il demone-sultano che gorgoglia blasfemie al centro dell’infinito, assieme ai tenebrosi, atoni, ciclopici e ciechi Altri Dei il cui esponente maggiore è il messaggero Nyarlathotep, il Caos Strisciante. Carter non cambia idea, chiede la benedizione dei due sacerdoti, scende i settecento gradini che conducono alla Soglia del Sonno Profondo e si dirige verso il bosco incantato, abitato dai timidi e furtivi zoog.


Illustrazione di Jens Heimdahl (2004)


Queste creature conoscono molti e arcani segreti del mondo dei sogni, ma anche alcuni di quello diurno: il bosco, infatti, confina in due punti con la terra degli uomini, anche se sarebbe disastroso dire dove. Nelle regioni a cui gli zoog hanno accesso si verificano, fra gli esseri umani, eventi inspiegabili, sparizioni misteriose, corrono voci sinistre: è un bene che quelle creature non possano spingersi troppo lontano dal mondo dei sogni.”

Carter però, avendo già visitato in sogno quei luoghi, è conosciuto presso le piccole creature e non corre alcun pericolo. Attraversa senza problemi il bosco e si dirige verso la città di Nir, seguendo il corso del fiume Skai, e in seguito procede verso Ulthar. Raggiunta quest’ultima, si reca nel tempio degli Antichi, dove vi trova il patriarca Atal, colui che era tornato vivo dalla scalata all’Hatheg-Kla, dimora degli Altri Dèi. Costui gli fornisce un indizio che lo aiuti a trovare la via per il Monte Kadath e precise indicazioni su quale direzione prendere.

Atal cominciò a parlare di cose proibite e raccontò del gran bassorilievo che, a detta dei viaggiatori, era scolpito nella roccia del monte Ngranek sull’isola di Oriab, nel Mare Meridionale. Secondo la leggenda l’immagine raffigurava un volto che gli dèi della terra avevano modellato a propria immagine quando danzavano sulla montagna al chiaro di luna.”

Il giorno dopo Randolph si unisce a una carovana diretta a Dylath-Leen, che raggiunge dopo sei giorni, per poi imbarcarsi verso l’isola di Oriab. In una taverna, un mercante dagli occhi a mandorla dall’aria poco raccomandabile gli consiglia di unirsi a una delle galee guidate da alcuni suoi colleghi che percorrono quella tratta. Consiglio che Carter accetta; l’imbarcazione però non fa rotta verso la destinazione richiesta dal sognatore, tocca invece varie terre e città, fino ad arrivare alla spaventosa cataratta, oltre le Colonne di Basalto, le cui acque precipitano verso lo spazio siderale. La galea procede in avanti e solca il buio del cosmo dirigendosi poi verso la luna. Sorvolandola, Carter nota sulla sua superficie delle costruzioni simili a igloo, poi l’imbarcazione si abbassa fino a toccare una superficie oleosa, dove continua a navigare fino a raggiungere il porto di una città. Sulle banchine, il protagonista nota degli esseri non umani, simili a rospi senza occhi, viscidi, biancastri e muniti di piccoli tentacoli rosa, impegnati a sollevare e sistemare pesanti casse di mercanzia.


Uno zoog visto da Iwo Widulinski (2022)


Appena la galea attracca, dalla sua stiva escono due esseri uguali a quelli visti sul molo che lo afferrano e lo trascinano per una lunga scalinata di una torre circolare e lo rinchiudono in una delle sue stanze. L’uomo sospetta che dietro tutto questo possa esserci Nyarlathotep, il quale non vuole concedergli la possibilità di raggiungere il Monte Kadath. Rimane nella sua cella per diverso tempo fino a quando, una notte, ben dodici di quei viscidi esseri-rospo non vengono a prelevarlo per portarlo fuori dalla città. Quando raggiunge le colline e temendo ormai di essere consegnato al Caos Strisciante, un numero sterminato di gatti, provenienti da Ulthar, tende un agguato alle repellenti creature, le sommerge con la loro massa e infine le divora.

Carter viene poi invitato a sdraiarsi sul dorso della numerosa legione felina, la quale spicca un balzo prodigioso che lo riporta sulla Terra, nella città di Dylath-Leen. L’uomo, infatti, ha ancora intenzione di recarsi sull’isola di Oriab. Giunto a destinazione, noleggia una zebra come cavalcatura e punta verso il monte Ngranek, dove arriva alcuni giorni dopo.

Ormai il gran fianco emaciato del Ngranek torreggiava su di lui e Carter cominciava ad avvicinarsi. Sui pendii inferiori cresceva qualche albero, ma più in alto solo pochi cespugli e poi la nuda roccia, orrida e spettrale contro il cielo: lì si raccoglievano soltanto gelo, ghiaccio e nevi eterne. Carter poteva vedere gole e spuntoni di roccia nera, e non era allettato all’idea della scalata. In certi punti si vedevano torrenti di lava solida e mucchi di detriti che ingombravano i fianchi del monte e i costoni. Novanta ere addietro, prima che gli dèi danzassero sulla sua cima, la montagna aveva parlato col fuoco e ruggito con la voce di tuono delle sue esplosioni interne. Ora torreggiava sinistra e silenziosa, e sul fianco nascosto portava incisa l’effige segreta di cui raccontavano le leggende. E poi c’erano le caverne, che forse erano deserte e popolate di tenebre e forse - se la leggenda diceva la verità - contenevano orrori la cui forma nessuno poteva immaginare.”

Una tavola dalla riduzione a fumetti di Nevio Zeccara per 'Il Giornalino' (1990)


Carter si inerpica sul monte e nonostante i sentieri impervi, i passaggi stretti, il freddo e l’aria rarefatta che taglia il fiato, è deciso ad arrivare in cima, a vedere il grande volto nascosto scolpito nella pietra.

Carter trattenne il fiato e poi lanciò un grido, stringendosi affascinato a uno spuntone di roccia. La titanica sporgenza, infatti, non aveva i tratti casuali del giorno in cui la terra l’aveva plasmata, ma riproduceva, nel tramonto, il volto compiuto e artisticamente rifinito di un dio. Severo e terribile splendeva il sembiante che il tramonto accendeva di fuoco. La mente umana non poteva misurarne la vastità, ma Carter sapeva che non era opera dell’uomo: era un dio forgiato dalle mani di dèi e posava gli occhi alteri e maestosi su chi veniva a cercarlo. Secondo la leggenda nel volto vi era qualcosa di strano e inconfondibile, e Carter si rese conto che era proprio così: gli stretti occhi obliqui e le orecchie dai lobi allungati, il naso sottile e il mento a punta tradivano una razza non umana, ma di immortali. Carter rimase abbarbicato all’alto e pericoloso spuntone, pur avendo finalmente trovato ciò che era venuto a cercare: perché nel volto di un dio c’è sempre qualcosa che trascende tutte le aspettative, e se è più grande di un tempio e appare, al tramonto, nel silenzio sconfinato di un mondo superiore, modellato per mano divina nella lava nera di tempi antichissimi, lo stupore è troppo grande perché l’uomo possa sfuggirvi.”

I lineamenti del volto ciclopico rivelano a Randolph una certa familiarità con alcuni mercanti incontrati nelle taverne di Celephaïs, decide così che quella sarà la sua prossima meta. Intanto arriva la notte e, con lei, uno stormo di creature alate, che afferrano il sognatore e lo trascinano con loro. Si tratta dei Magri Notturni, i quali precipitano giù nelle profondità del monte Ngranek e oltre, fino a giungere in una vallata ricoperta di ossa, dove abbandonano Randolph.


Copertina de 'Il Giornalino' dove venne pubblicata la prima puntata della riduzione di Zeccara (1990)


Da quello che Carter ricorda, dovrebbe trattarsi della Valle di Pnath, dimora dei ghoul. Tutte quelle ossa, infatti, sono i resti dei loro pasti. Avvicinatosi a una rupe, l’uomo emette il richiamo dei mangia-cadaveri e questi gli lanciano una scala di corda, giusto in tempo per essere tratto in salvo dall’assalto di un Bhole, essere strisciante estremamente pericoloso che si nasconde sotto gli strati di ossa.

In cima alla ripida parete trova un gruppo di ghoul intenti a banchettare e uno di loro si propone di accompagnarlo da Richard Pickman, conosciuto da Carter nel mondo della veglia e diventato ora un ghoul lui stesso.

Abitava in abissi non lontani dal mondo della veglia e una creatura verdastra, piuttosto anziana, si offrì di accompagnarlo all’attuale residenza di Pickman. Vincendo il ribrezzo Carter seguì la sua guida in una delle tane e strisciò per ore alle sue calcagna, nell’oscurità della terra putrida. Emersero in una pianura fiocamente illuminata e cosparsa di strane reliquie della terra: vecchie lapidi, urne in pezzi e grotteschi frammenti di statue. Con emozione Carter si rese conto di essere più vicino al mondo della veglia di quanto fosse mai stato dal momento in cui aveva sceso i settecento gradini che portano dalla caverna della fiamma alla Porta del Sonno Profondo. E là, su una lapide del 1768 rubata dal cimitero di Granary a Boston, sedeva il ghoul che un tempo era stato Richard Upton Pickman. Era nudo, aveva la pelle rugosa e si era talmente assimilato ai demoni che le tracce dell’origine umana apparivano oscure. Ma un po’ d’inglese lo ricordava ancora e si mise a conversare con Carter a grugniti e monosillabi, aiutandosi di tanto in tanto con il linguaggio dei ghoul.”


Copertina del secondo numero di una recente riduzione a fumetti statunitense (2022)


Quando Pickman scopre che Carter vuole tornare al bosco incantato per poi proseguire per Celephaïs, lo avverte che dovrà affrontare molti pericoli, tra cui il temibile regno dei Gug.

Pelosi e giganteschi, questi ultimi sono gli esseri che eressero i misteriosi cerchi di pietre nel bosco incantato e fecero orrendi sacrifici agli Altri Dei e al Caos Strisciante Nyarlathotep, finché una notte un loro ennesimo abominio giunse alle orecchie degli dèi della terra e furono esiliati nelle caverne del sottosuolo. Solo una botola di pietra, munita di un anello di ferro, collega l’abisso dei giganti al bosco incantato: ma essi temono di aprirla a causa di una maledizione. Che un sognatore mortale possa attraversare le caverne dei Gug è inconcepibile: i sognatori erano un tempo il loro pasto preferito e le leggende raccontano ancora quanto fossero buoni, benché la punizione degli dèi abbia limitato la loro dieta ai ghast, i ripugnanti esseri che muoiono alla luce e che vivono nelle Cripte di Zin, saltando sulle lunghe zampe posteriori come canguri.”

Carter, però, ancora una volta non desiste. Allora Pickman decide di affiancargli tre ghoul, affinché lo aiutino a superare indenne il Mondo di Sotto.

I quattro si mettono in cammino, attraversano numerosi cunicoli sotterranei per poi sbucare in una valle cosparsa di grandi monoliti. In lontananza, le torri cilindriche della città dei Gug mentre, davanti a una grande parete, si spalanca la bocca di una enorme caverna. Si tratta dell’ingresso ai sotterranei di Zin, dove i Gug si trovano lì per fare la guardia alla loro città e per dare la caccia ai ghast. Infatti, poco dopo un gruppo di ghast viene attaccato da un Gug. Si accende una lotta feroce che si sviluppa dapprima all’esterno per poi spostarsi all’interno della caverna, permettendo così al quartetto di allontanarsi indisturbato. Attraversano in silenzio la città dei giganti fino a raggiungere la sua torre più alta. Dopo una salita interminabile costituita da una gradinata i cui scalini sono alti un metro, il gruppo raggiunge la cima, e dunque la botola che si apre sul bosco incantato, che gli permette di accedere al mondo superiore.

I tre ghoul si congedano da Carter, mentre quest’ultimo si dirige verso la città di Tharan seguendo il corso del fiume Oukranos. Arrivato a destinazione, in una delle taverne del porto trova l’equipaggio che può fornirgli un passaggio su un galeone diretto a Celephaïs. Durante il viaggio sul fiume domanda ai marinai se conoscono quegli strani uomini dai tratti simili alla faccia di pietra del monte Ngranek che vanno a scambiare le loro mercanzie a Celephaïs, ma costoro gli rispondono che quella gente parla poco, suscita un certo timore reverenziale e che abita a Inganok, una terra lontana, fredda e buia situata vicino all’altipiano di Leng.


Night-Gaunts by Michael Whelan (1975)

Il giorno dopo il galeone attracca nel porto di Hlanith, città commerciale sul Mar Cereneriano, dove esegue alcune operazioni di carico e scarico. Carter ne approfitta per fare domande ai marinai e ai commercianti del luogo, ma non riesce a ottenere più di quanto non gli abbiano già detto i membri dell’equipaggio.

Anche il colloquio con il re Kuranes non dà gli esiti sperati dal sognatore.

Parlarono a lungo dei vecchi tempi ed ebbero molto da dirsi, perché entrambi erano sognatori e quanto mai versati nelle meraviglie dei luoghi straordinari. Kuranes, beninteso, aveva viaggiato nel vuoto assoluto che si stende oltre le stelle ed era stato l’unico essere umano che fosse tornato da quel viaggio. Dopo un po’ Carter parlò della sua ricerca e rivolse all’ospite le domande che aveva già fatto a molti altri. Kuranes non sapeva dove si trovasse Kadath e tantomeno la meravigliosa città del tramonto, ma sapeva che i Signori erano creature pericolose e cercarli non conveniva affatto, e sapeva anche che gli Altri Dei avevano degli strani modi per proteggerli dalla troppa curiosità. Nelle regioni lontane dello spazio Kuranes aveva imparato molte cose sugli Altri Dei, specialmente là dove la forma non esiste ed esseri fatti solo di gas dai colori misteriosi studiano i segreti più reconditi. Il gas violaceo S’ngac gli aveva raccontato cose terribili del caos strisciante Nyarlathotep e lo aveva messo in guardia dall’avvicinarsi al vuoto centrale dove il demone-sultano Azathoth mastica avidamente nell’oscurità. Anche gli Antichi era meglio evitarli, e se negavano l’accesso alla meravigliosa città del tramonto era più saggio abbandonare le ricerche.

Inoltre, ammesso che Carter riuscisse a trovarla, Kuranes si chiedeva cosa ne avrebbe guadagnato. Lui stesso aveva sognato e desiderato per anni la bellissima Celephaïs e la terra di Ooth-Nargai; aveva sospirato la libertà, i colori e le profonde esperienze di una vita libera da catene, stupidità, convenzioni. Ma ora che era arrivato alla città dei suoi sogni, e anzi ne era diventato il re, scopriva che libertà e colore si consumavano presto e diventavano monotoni, perché privi di qualunque legame con i suoi sentimenti e i suoi ricordi. Era il re di Ooth-Nargai, ma per lui quella terra non significava niente: ciò che desiderava erano le vecchie cose familiari d’Inghilterra, le esperienze che avevano plasmato la sua gioventù. Avrebbe dato un regno per sentire le campane di Cornovaglia suonare a distesa sulla pianura e tutti i minareti di Celephaïs per i familiari tetti appuntiti del villaggio vicino a casa sua. Perciò, disse a Carter, la città del tramonto avrebbe potuto rivelarsi non come la desiderava, e forse era meglio che restasse un sogno vago e meraviglioso. Spesso, quando era ancora vivo, Kuranes aveva fatto visita al suo amico e sapeva quanto fossero dolci le colline della Nuova Inghilterra che gli avevano dato i natali. Alla fine, ne era sicuro, il sognatore avrebbe avuto nostalgia di una sola cosa: i paesaggi che ricordava. Beacon Hill che splendeva al tramonto, i campanili e le tortuose viuzze di collina di Kingsport, i vecchissimi tetti a spiovente dell’antica Arkham, città delle streghe, i benedetti chilometri di campi e valli fiancheggiate da muretti di pietra e gli abbaini delle fattorie che scrutavano la scena tra macchie di verde.


Un Gug immaginato da Caberwood (2012)


Kuranes disse tutto questo al cercatore, ma Randolph Carter rimase fermo nel suo proposito. Alla fine si lasciarono, ognuno con le sue convinzioni, e Carter tornò a Celephaïs attraverso la porta di bronzo e discese la Via delle Colonne verso il porto, dove parlò con i vecchi marinai di luoghi lontani e attese le navi scure che venivano dal buio regno di Inganok, perché i mercanti dai lineamenti strani e i venditori d’onice hanno in sé il sangue dei Signori.”

Quei mercanti dai lineamenti strani tanto attesi da Carter arrivano una sera a bordo di una nave nera. Il sognatore attende con pazienza alcuni giorni e non fa loro alcuna domanda, quando però l’imbarcazione si appresta a ripartire, si assicura un passaggio sulla loro nave affermando di essere un minatore interessato a lavorare nelle miniere di Inganok. Dopo alcune settimane di viaggio sul Mar Cereneriano Carter arriva finalmente a Inganok, la città di onice. Trascorre qui alcuni giorni, girovagando per le sue splendide vie, ma una sera, in una taverna, si imbatte nel mercante infido che gli aveva suggerito di imbarcarsi sulla galea nera, a Dylath-Leen. Randolph cerca di parlargli, ma l’uomo si dilegua.

Dopo alcuni giorni si decide a noleggiare uno yak per proseguire la sua ricerca, dirigendosi verso il gelido altipiano di Leng. Carter viaggia per diversi giorni di cammino in groppa all’animale, incontrando solo miniere d’onice e villaggi di minatori, fino a quando arriva in un territorio completamente desolato, dove lo attende una brutta sorpresa: uno stormo di shantak - creature alate più grandi di elefanti - vola in cerchio sopra di lui, calando sempre più in basso, fino a quando il mercante dagli occhi a mandorla lo raggiunge in groppa a uno yak e gli intima di fermarsi. Sceso dalla sua cavalcatura, lo costringe a salire insieme a lui in groppa a una creatura volante, poi si alzano in volo. Sorvolano il vasto altipiano di Leng, fino a quando non raggiungono una struttura senza finestre circondata da un cerchio di monoliti. Si tratta del monastero preistorico dove vive un misterioso sacerdote solitario. Il mercante trascina Carter attraverso un labirinto di corridoi bui e tortuosi, fino a quando i due non arrivano a un grande salone a cupola con le pareti ricoperte di terribili bassorilievi, al cui centro si apre un’apertura circolare contornata da sei piccoli altari, mentre su una parete, assiso su un trono d’oro, una figura attende, completamente ricoperta da una tunica gialla bordata di rosso e una maschera dello stesso colore a coprirgli il viso.


Copertina del terzo albo a fumetti della casa editrice Ablaze Publishing (2022)

L’essere sul trono era senz’altro il sacerdote che non deve essere descritto, e a cui le leggende attribuiscono i più orrendi poteri, ma Carter si rifiutava di concepire che razza di creatura fosse in realtà. Poi la seta della tunica scivolò su una delle zampe bianco-grigiastre e Carter capì. In quell’attimo di terrore totale la paura lo spinse a fare qualcosa che al lume della ragione non avrebbe osato mai, perché nella sua coscienza sconvolta c’era un unico desiderio: fuggire da ciò che stava acquattato sul trono. Sapeva che fra lui e il gelido tavoliere esterno si stendevano impossibili labirinti di pietra, e che ammesso di arrivarci avrebbe dovuto fare i conti con lo shantak, ma nonostante questo, il bisogno principale del suo cuore era fuggire dalla mostruosità vestita di seta che si agitava sulla pedana.”

Carter spinge allora il mercante dentro al pozzo e fugge via, senza un piano preciso in mente, perdendosi fra i labirinti oscuri del monastero, fino a quando non finisce per precipitare in un baratro verticale.

Il volo che pare senza fine si conclude sul suolo di una città antichissima e ormai in rovina. Guardandosi attorno nota due grandi statue di leoni alati, capisce allora che si tratta della millenaria Sarkomand, situata oltre l’altipiano di Leng. Fra le rovine, Randolph nota un bagliore verdastro e decide di avvicinarsi con circospezione, al riparo delle antiche macerie. Si tratta di un falò nei pressi di uno degli antichi moli, attorno al quale sono accovacciate delle figure, mentre all’àncora si trova una galea nera. Anche se spaventato da quella visione, alcuni lamenti a lui familiari lo inducono ad avvicinarsi per scoprire l’origine di quei suoni. Alcuni dei mostri simili a rospi incontrati da Carter sulla luna hanno fatto prigionieri i tre ghoul che lo avevano accompagnato nel Mondo di Sotto e li stanno torturando. Da solo l’uomo non può aiutarli, decide allora di scendere di nuovo nel mondo sotterraneo, accedendovi da un pozzo notato durante il tragitto, per chiedere aiuto agli altri ghoul. In suo soccorso arrivano alcuni magri notturni, che lo afferrano e lo portano velocemente dai divoratori di cadaveri. Qui, Pickman chiama a raccolta tutti i sui simili, poi invoca l’aiuto di tutti i magri notturni, che afferrano i ghoul, e insieme si alzano in volo verso la città di Sarkomand. Giunti a destinazione attaccano il campo nemico e, mentre i ghoul si occupano di liberare i tre prigionieri, i magri notturni afferrano gli esseri-rospo e li trascinano con loro nel Mondo di Sotto, dandoli in pasto alle creature sotterranee: i bhole, i ghast e i gug.

Un'altra cartina dei luoghi della Terra dei Sogni in una tavola a fumetti di Nevio Zeccara (1990)

A questo punto la comunità dei ghoul, riconoscente nei confronti di Randolph per aver salvato tre membri della loro razza, gli offre ciò che l’uomo desidera da tempo, ovvero un aiuto per raggiungere il misterioso Kadath.

Desiderava, in sostanza, che un numero sufficiente di magri-notturni lo portasse in volo oltre il regno degli shantak e le montagne scolpite, e di qui nel deserto gelato dove nessun mortale si era mai spinto. Intendeva volare al castello d’onice che si trova in cima al misterioso Kadath e supplicare i Signori perché gli mostrassero la negata Città del Tramonto. Era certo che i magri-notturni potessero farcela senza problemi e che avrebbero superato i pericoli dell’altipiano e delle orribili teste bifronte scolpite sulle montagne che stanno eternamente a guardia nel crepuscolo. Le creature cornute e senza volto non avevano nulla da temere, perché i Signori per primi ne avevano paura. E se fosse venuta una minaccia improvvisa dagli Altri Dei, che amano controllare gli affari delle più miti divinità terrestri, i magri-notturni non avrebbero corso alcun pericolo perché gli inferni dello spazio esterno non possono annientare i silenziosi esseri alati che non riconoscono il loro signore in Nyarlathotep, ma nel potente e arcaico Nodens.”

Lo stormo dei magri notturni si alza in volo portando con sé Randolph Carter, Pickman e i ghoul verso i confini della Terra del Sogno, oltre le alte montagne, arrivando a sorvolare un deserto oscuro per poi proseguire senza sosta verso nord, nella totale oscurità, finché una luce appare in lontananza. Avvicinandosi, arrivano al cospetto dell’altissima vetta in cima alla quale si trova una grande costruzione in onice, fatta di torri e cupole che si snodano su diversi piani costituiti da bastioni e terrazze, mentre sulla sommità svetta un castello dal quale proviene la fonte della luce, che risucchia i magri notturni e i loro cavalieri attraverso un enorme cancello per finire, accasciati ed esausti, sul pavimento di un gigantesco salone luminoso.


Il misterioso monaco di Leng nella versione di Jacen Burrows per una variant cover di Providence (2017)

Carter si guarda attorno, ma delle divinità incoronate che sperava di incontrare - quelle con gli stessi lineamenti della scultura vista sul monte Ngranek - non c’è traccia. Poco dopo, lo squillo di una tromba infernale squarcia l’aria per tre volte, e Randolph si accorge che sia i magri notturni che i ghoul sono scomparsi. Subito dopo, però, una musica melodiosa si diffonde tutto attorno e dalla luce accecante emerge un corteo di uomini vestiti di sete colorate; poi, questo si allarga per far passare una figura solitaria, alta e snella, col volto giovanile di un faraone munito di un diadema e di vesti multicolori, il quale gli si avvicina e comincia a parlare.

FINALE: La figura afferma di essere stato informato da tempo che Carter voleva a tutti i costi arrivare al Kadath per incontrare i Signori, fatto disapprovato dagli Altri Dei, i quali in passato hanno impedito sia a Barzai il Saggio che a Zenig di Aphorat - il cui teschio adorna l’anello al mignolo di qualcuno che non si deve nominare - di raggiungerlo.

Ma tu, Randolph Carter, hai superato tutti i pericoli del mondo dei sogni e ardi di desiderio per la tua ricerca. Non sei venuto da curioso, ma come chi cerca ciò che gli è dovuto, e hai mostrato rispetto per i miti dèi della terra. Troppo a lungo ti hanno tenuto lontano dalla meravigliosa città del tramonto dei tuoi sogni, e solo per invidia. Perché, in verità, volevano appropriarsi della fantastica bellezza creata dalla tua immaginazione, e dopo averla vista hanno giurato che da quel momento nessun luogo sarebbe stato più adatto alla loro dimora.


Copertina di un ebook (2017)

Così hanno abbandonato il castello dell’ignoto Kadath e si sono stabiliti nella tua stupenda città. Passano il giorno a far festa nei palazzi di marmo e al calar del sole vanno nei giardini ad ammirare lo splendido cielo al tramonto, si trattengono nei colonnati, sui ponti ricurvi, tra le fontane d’argento e nelle grandi strade ornate di urne fiorite e statue d’avorio. Quando scende la sera vanno sulle alte terrazze immerse nella rugiada e siedono sulle panche di porfido a scrutare le stelle, o si affacciano al parapetto e contemplano le ripide alture a nord della città, dove a una a una le finestrelle nei vecchi abbaini si accendono di giallo, la luce morbida e tranquilla delle candele domestiche.

Amano la tua meravigliosa città e non si comportano più come dèi; hanno dimenticato le grandi montagne della terra e le vette che conobbero in gioventù. La terra non ha più divinità che siano tali; solo gli Altri Dei che risiedono nello spazio conservano il dominio sul Kadath, che tuttavia nessuno ricorda. I Signori, Randolph Carter, giocano lontano da qui, in una delle valli della tua infanzia. Hai sognato fin troppo bene, o sapiente maestro di visioni oniriche, perché sei riuscito ad allontanare gli dèi dal mondo dei sogni degli uomini e li hai condotti in una fantasia che è soltanto tua, costruendo sulle ingenue fantasticherie della tua infanzia una città più bella di tutte quelle create dai fantasmi venuti prima di te.

Non è bene che gli dèi della terra abbandonino i loro troni ai ragni e che il regno sia amministrato dagli Altri Dei secondo le leggi delle tenebre. Le potenze dello spazio esterno ti schiaccerebbero volentieri nel caos e nell’orrore, Randolph Carter, perché sei tu la causa del loro dissesto, ma riconoscono che sei l’unico che possa riportare le divinità di questo piano nel loro mondo. Nel mondo di sogni a occhi aperti che ti sei costruito le potenze delle tenebre non possono esercitare appieno la loro volontà. Solo tu puoi mandar via gli dèi egoisti dalla meravigliosa città del tramonto e farli tornare nel crepuscolo del nord che è il loro posto, sulla cima dell’ignoto Kadath nel deserto gelato.”

La misteriosa figura, che dice di operare in nome degli Altri Dei, gli intima di cercare la meravigliosa città che gli appartiene e di bandire gli dèi della terra che vi si sono stabiliti. Non gli sarà difficile trovarla, perché essa risiede nel suo passato, nelle fantasie di quando era giovane. Poiché la meravigliosa città del tramonto non è altro che la somma di ciò che Carter ha visto e amato nella fanciullezza: lo splendore dei tetti di Boston adagiati sulla collina, i campanili e le guglie di Salem, la fantastica Marblehead con i suoi dirupi che affondano nel passato, Providence arcana e regale adagiata sui sette colli che dominano il suo porto, e poi Newport arroccata come una visione di sogno, e Arkham dai tetti mansardati e i campi ondulati, l’antichissima Kingsport affollata di camini con le sue altissime scogliere, le fresche valli di Concord, le strade acciottolate di Portsmouth, i sentieri di campagna del New Hampshire al tramonto, i moli salmastri di Gloucester e i salici di Truro piegati dal vento. Tutto ciò, ribadisce la figura ammantata di sete multicolori, ha dato vita alla città creata da Carter. Poi, gli suggerisce di montare su uno shantak che lui gli offre come cavalcatura e di seguire la via fra le stelle che gli indica, per giungere il prima possibile alla meta. Una volta giunto alla città, dovrà parlare ai Signori del monte Kadath e della loro dimora, in modo tale da suscitare in loro una straziante nostalgia. Solo così riuscirà a farli tornare.


L'ignoto Kadath immaginato da DegeneArt (2022)

«Vai, ora, la finestra è aperta e le stelle ti aspettano; il tuo shantak sibila e freme d’impazienza. Punta su Vega attraverso la notte, ma cambia direzione appena sentirai un canto. Non dimenticare quest’avvertimento, altrimenti orrori impensabili ti precipiteranno nell’abisso della follia. Ricorda che esistono gli Altri Dei: sono grandi, insensati e si annidano nel vuoto dello spazio esterno. Sono da evitare. Hei! Aa-shanta ‘nygh! Eccoti partito. Rimanda gli dèi della terra sul Kadath e prega l’universo di non incontrarmi nelle miriadi di forme che mi appartengono oltre a questa. Addio, Randolph Carter, e stai attento: perché io sono Nyarlathotep, Il Caos strisciante!»”

Il mostruoso essere alato spicca il volo e si dirige verso Vega. Volando nello spazio, sfiora esseri immensi a forma di polipi e invisibili ali di pipistrello; Carter si tiene aggrappato con forza alla criniera dell’uccello scaglioso e ippocefalo, mentre le stelle gli vorticano attorno. Poi tutto si placa e una lontana melodia li guida verso un’altra direzione.

Lo shantak volava più veloce e il cavaliere si piegava più basso, ebbro di meraviglie nascoste nei cieli e avvinto dalle spire di cristallo della magia cosmica. Troppo tardi ricordò la raccomandazione del maligno, il beffardo avvertimento dell’emissario dei demoni che l’aveva messo in guardia dalla follia della canzone. Nyarlathotep gli aveva indicato la via della salvezza e della città meravigliosa solo per tentarlo; gli aveva rivelato il segreto degli dèi indolenti solo per burlarsi di lui, perché certo poteva richiamarli a suo piacere. La follia e la vendetta dell’abisso erano gli unici doni che il messaggero nero potesse fare a un presuntuoso, e benché Carter cercasse disperatamente di trattenere l’orribile uccello, quello si avventò nel vuoto con foga inaudita, battendo le ali immense con gioia e malvagità. Era diretto alle abissali profondità che nemmeno i sogni possono raggiungere, al crogiuolo della più terribile e assoluta confusione: là, al centro dell’infinito, gorgoglia e bestemmia Azathoth, il demone-sultano di cui nessuno osa pronunciare il nome ad alta voce.”

I due attraversano grappoli di esseri indefinibili che allungano le loro estremità mostruose, ma senza riuscire ad afferrarli, puntando dritti verso il centro dell’universo. Allora Carter si ricorda delle parole di Nyarlathotep, il quale gli ha rivelato che la città del tramonto è modellata sui suoi ricordi di quando era giovane, e capisce che quello che sta vivendo non è altro che un sogno e che da qualche parte esiste ancora il mondo diurno. Decide dunque di saltare dal mostro alato per precipitare nel vuoto abisso. A proteggere la sua incolumità da Nyarlathotep, che in un estremo tentativo prova ad afferrarlo, giungono il gas violetto S’ngac e l’arcaico Nodens. Così, Randolph Carter finisce con lo svegliarsi nella sua stanza di Boston.


Uno shantak immaginato da Tom Ardans (2018)

Gli uccelli cantavano in giardini invisibili e il profumo delle viti intrecciate salì dalle vigne piantate da suo nonno. Luce e bellezza splendevano dalla classica cornice del camino, dalla mensola che lo sovrastava e dalle pareti ornate di fregi fantastici. Un gatto nero, snello, si alzò sbadigliando presso il camino, disturbato dallo scatto improvviso e dall’urlo del suo padrone. Lontano, infinitamente lontano, oltre la Soglia del Sonno Profondo, il bosco incantato, le terre-giardino, Il Mare Cereneriano e le sponde crepuscolari di Inganok, Nyarlathotep, il Caos Strisciante, tremava di rabbia nel castello d’onice sull’ignoto Kadath, in mezzo al deserto gelato, e trattò con insolenza i miti dèi della terra che aveva richiamato, all’improvviso, dai profumati trastulli cui indulgevano nella meravigliosa città del tramonto.”

Abbiamo letto l’inizio della lettera che Lovecraft ha scritto al suo giovane e nuovo corrispondente August Derleth, nel dicembre di quell’anno, per il racconto precedente. Ecco come prosegue la missiva: “… Intanto sono a pagina 72 della mia fantasia ambientata nella terra dei sogni e temo che le avventure di Randolph Carter siano arrivate al punto da stancare il lettore, o che la pletora di immagini fantastiche abbia distrutto, nelle singole scene, il potere di evocare le suggestioni arcane che mi interessano. È un racconto di avventure picaresche: la ricerca degli dèi attraverso vari e incredibili scenari e pericoli. È scritto in modo continuo come Vathek, senza divisione in capitoli, benché sia composto ovviamente di episodi ben definiti. Credo che tutto verrà sulle cento pagine, la lunghezza di un volumetto, ma penso che abbia ben poche possibilità di essere pubblicato. L’idea di batterlo a macchina mi repelle a tal punto che non ci proverò fino a quando non l’avrò letto ad alta voce a due o tre buoni giudici e non avrò ascoltato il loro verdetto: se valga o no la pena conservarlo.” (H. P. Lovecraft. Lettere dall’altrove. Epistolario 1915-1937, a cura di G. Lippi, Oscar Mondadori, Milano, 1993).

C’è poco da aggiungere, Lovecraft appare decisamente lucido nel giudicare il proprio lavoro. Randolph Carter, il sognatore alter-ego dello scrittore, si avventura in posti remoti e inaccessibili situati ai confini del mondo dei sogni, alla ricerca della città del tramonto tanto sognata e degli antichi dèi.


Una visione del mondo dei sogni  realizzata di Tais Teng (2022)


Molti i riferimenti, le citazioni e i collegamenti con altri racconti scritti dall’autore: tanto per cominciare, tutti quelli che hanno per protagonista Randolph Carter, poi a seguire La Stella Polare (1918), La Nave Bianca (1919), I Gatti di Ulthar (1920), Il Tempio (1920), Celephaïs (1920), Nyarlathotep (1920), Gli altri Dei (1921). Con questo romanzo breve Lovecraft sembra voler creare una sorta di Terra di Mezzo di tolkieniana memoria, dove far confluire tutte le novelle del “Ciclo dei Sogni” scritte fino a quel momento. A questi però, affianca anche quelli più recenti appartenenti al “Ciclo di Arkham”, proprio come fatto per La Casa Misteriosa Lassù nella Nebbia.

Ma se nel racconto precedente i due cicli riescono a fondersi, qui si ha l’impressione di un fritto misto mal riuscito, tanto da sembrare una parodia lovecraftiana scritta da un altro autore. Degne di nota restano alcune incantevoli descrizioni e le riflessioni sul sogno e la realtà nel colloquio che ha Carter prima con Kuranes, poi con Nyarlathotep, ma per il resto molte parti del romanzo sono lente, noiose, ripetitive e, soprattutto, incapaci di realizzare quelle visioni affascinanti e suggestive delle sue novelle passate. Ma, lo ripeto, si tratta di un’opera non considerata compiuta dal suo autore.

Anche Lippi è più o meno dello stesso avviso; ecco cosa scrive nella sua introduzione al lungo racconto, commentando le parole dello scrittore espresse nella lettera spedita a Derleth: “Le apprensioni di Lovecraft non erano del tutto ingiustificate, perché il testo ha parecchi punti deboli: innanzi tutto quello di non riuscire a conciliare il mondo di fantasie infantili dell’autore, da cui provengono i magri-notturni, gli zoog e altre creature grottesche, con l’aspirazione decisamente adulta di tracciare una mappa del mondo dei sogni e di evocare a tutti i costi il senso della meraviglia e del mistero. Nel breve romanzo aleggia un senso di favola, a volte dai toni delicati, a volte scopertamente retorici, che stride un po’ con le riflessioni del Lovecraft ‘cresciuto’, soprattutto quelle finali e molto belle sulla città del tramonto. Ma The Dream-Quest è un’opera importante perché riassume - e, in un certo senso, conclude – un’epoca della carriera di HPL, quella legata allo stile dunsaniano. Tirando le fila dei piccoli miti che aveva narrato all’inizio della carriera, rivelandoci il senso ‘riposto’ di racconti come Celephaïs (da cui proviene la storia di Kuranes), The Statement of Randolph Carter e soprattutto The Other Gods e Nyarlathotep (con l’idea che le divinità della terra non siano che trascurabili burattini nelle mani di esseri amorfi e incuranti che risiedono nel caos dello spazio), Lovecraft prende coscienza di un dato fondamentale: i suoi sogni non lo estraniano e non lo alienano dalla realtà, ma a modo loro lo mettono in contatto con essa. The Dream-Quest è, in gran parte, un’opera giovanile, ma il motivo con cui si conclude è all’opposto del fragile sogno che reggeva Celephaïs, di cui Kadath può considerarsi la versione ‘matura’.

Più che un racconto vero e proprio, più che un’opera finita (e infatti Lovecraft non la considerò mai tale, e la versione che possediamo corrisponde a una prima stesura), The Dream-Quest of Unknown Kadath è una specie di diario del sognatore, torrenziale e incontrollato ma non privo di una riflessione sul rapporto tra il fantastico e il reale, tra il suo ‘io’ diurno e quello, molto più palpitante, che si sveglia di notte.” (G. Lippi, a cura di, H. P. Lovecraft. Tutti i racconti 1923-1926, Oscar Mondadori, Milano, 1990).


Prima pagina del manoscritto originale del romanzo


Un saggio scritto da Giulio Dello Buono, dal titolo “Analisi tematica e diacronica di The Dream-Quest of Unknown Kadath e At the Mountain of Madness”, apparso sul n. 13 di Studi Lovecraftiani, ci illumina sull’importanza che questo romanzo rappresenta – secondo l’interpretazione di Dello Buono - nella biografia del suo autore.

[…] Com’è noto, Lovecraft ha lentamente abbandonato gli schemi che dall’inizio hanno segnato la sua ispirazione letteraria, giungendo tra il 1926 e il 1931 a uno stile e una serie di tematiche originali. Nel periodo precedente è l’influenza di Lord Dunsany a farsi sentire maggiormente, tanto che alcuni studiosi hanno definito ‘dunsaniani’ tutti i racconti ambientati in mondi di sogno privi di ‘cosmic terror’. […] Nello stesso periodo la città idilliaca comincia a scomparire finanche dai sogni del protagonista, sostituita completamente dalla città d’incubo. Il periodo cui si fa riferimento è proprio quello tra il 1926 e il 1931, direttamente successivo al soggiorno newyorchese dell’autore. […] Lovecraft scrisse il lungo racconto The Dream-Quest tra il novembre 1926 e il gennaio 1927. Il 17 aprile del 1926 era tornato a Providence da New York con alle spalle un matrimonio fallito e due anni di miseria e isolamento nella metropoli. In una lettera a Bernard Austin Dwyer del 26 marzo del 1927, Lovecraft rievoca la sua vita a New York e la sua solitudine nell’appartamento di Brooklyn; la sua esperienza a New York (a cui si oppone una Providence idealizzata) assume quasi una dimensione onirica: È quasi un anno che l’ho lasciata, senza il minimo rimpianto, per tornare a casa: alla Nuova Inghilterra pulita, bianca e antica che mi ha generato, le cui colline, i boschi e i campanelli sono il nutrimento e l’essenza della mia anima; e, mentre quest’anno passava, la squallida vecchia Brooklyn è diventata sempre meno un effettivo oltraggio e un orrore, e sempre più una leggenda grottesca e perfino affascinante. L’orgoglio di pensare che ho abitato in un posto simile fa sorgere il dubbio trasognato di esserci mai stato davvero; l’episodio diventa una storia raccontata in terza persona e le verità sono rivestite da uno scintillante mantello di miti. A questa distanza sono quasi contento che la disgrazia sia capitata davvero, perché ha dato un tocco di colore a una vita altrimenti sbiadita, banale e priva di avvenimenti […] The Dream-Quest è la storia di una ricerca, ma non più ‘solare’, come quella di Iranon in The Quest of Iranon, bensì ‘lunare’, notturna, basata sulla discesa del protagonista in un mondo di sogni in cui tutto è alieno e inquietante. E, ancora, se le precedenti ricerche falliscono, questa ha invece successo. La città del tramonto, cercata da Carter per cento e più pagine, è finalmente raggiunta; il finale del racconto è stranamente positivo […] Il protagonista sembrerebbe lo stesso di The Silver Key, ma è errato stabilire una vera e propria continuità tra i due racconti; The Dream-Quest si sovrappone a The Silver Key e in un certo senso lo annulla. Carter non è più alla ricerca di una chiave, bensì di una città: la città del tramonto. […] La città descritta come ‘ideale’ si oppone alle città d’incubo ricorrenti nei racconti; ma si oppone ancor di più a New York, alla quale, quando Lovecraft scriveva questo racconto, era appena sfuggito. Se si considera The Dream-Quest una cronaca onirica della sua vita a New York, il dolore delle cose perdute e il desiderio struggente di rimettere al suo posto ciò che una volta aveva avuto un’importanza portentosa e straordinaria è allora il dolore per la perdita della sua vita a Providence (idealizzata nella descrizione della città del tramonto) e la volontà di ripristinare l’antico ordine della sua esistenza. […] L’odissea del protagonista di The Dream-Quest è quella dell’autore e, come nella vita ha avuto un esito felice (col ritorno dell’autore a Providence, all’isolamento dorato) così nel racconto il peregrinare di Carter si risolve col suo risveglio. […] L’incubo è finito e la città del tramonto è stata raggiunta, precisamente il 17 aprile del 1926 col ritorno di Lovecraft a Providence. […] La conclusione del racconto, col suo tono idilliaco, è così poco lovecraftiana che, a nostro avviso, non può essere dissociata dalla reale gioia dell’autore per essere tornato a Providence. […]” (Studi Lovecraftiani 13, Dagon Press, Inverno 2013).


Copertina di Marco Torricelli, disegnatore dello staff di 'Zagor', per una edizione inglese del 2003


Riporto ora alcune curiosità. Vengono nominati anche qui i Manoscritti Pnakotici, già incontrati in La Stella Polare (1923) e Gli Altri Dèi (19221). In The Dream-Quest ci viene detto che l’ultima copia di questo testo si trova nella città di Ulthar, dove viveva il vecchio Barzai. “Un’opera redatta da uomini del mondo della veglia e vissuti in regni settentrionali ormai dimenticati. I Manoscritti erano giunti nella terra dei sogni quando i pelosi cannibali Gnophkeh avevano sopraffatto Olathoe, la città dei molti templi, e ucciso gli eroi del paese di Lomar.”

Nel racconto La Nave Bianca (1919) l’autore non menziona il luogo del faro di cui si prende cura il guardiano Basil Elton. Qui scopriamo che si tratta della cittadina di Kingsport.

La convivenza - che personalmente trovo forzata - tra il Ciclo del Sogno e il Ciclo di Arkham ha una sua plausibilità. Questo perché le creature appartenenti a quest’ultimo gruppo sono in grado di muoversi fra le pieghe delle varie dimensioni della realtà, dunque anche in quella onirica.

Per concludere, vorrei dedicare queste ultime righe alle varie divinità immaginate da Lovecraft. Il tema è arduo da dissipare, perché lo scrittore non ha mai fatto una scrupolosa distinzione dei termini da lui utilizzati per indicarle, tanto che spesso una stessa terminologia è usata per denotare più categorie di dèi, creando non poca confusione. In particolare, in La Casa Misteriosa lassù nella Nebbia e La Ricerca onirica dell’ignoto Kadath appaiono molti tipi di dèi, chiamati con i più disparati appellativi. Cerchiamo dunque di fare un po’ di chiarezza.

Gli Altri Dei (Other Gods) sono divinità che vivono nei profondi spazi siderali. Il più importante di questi è Azathoth, colui che risiede al centro dell’universo e che è attorniato da altre divinità a lui similari (come Nyarlathotep), definite anche Dèi Ulteriori, o Dèi Esterni (Outer Gods). Appaiono per la prima volta nel racconto che porta il loro titolo: The Other Gods (1921).

I Grandi Antichi (Great Old Ones) sono creature aliene colossali, semidivine, nascoste fra le pieghe delle dimensioni o nelle profondità della Terra, in attesa di risvegliarsi e riprendere il potere perso in un lontanissimo passato. Cthulhu, il più importante fra questi, è uno di loro.

Gli Antichi (Elder Ones, o Elder Things) sono creature extraterrestri giunte sulla Terra per colonizzarla, eoni prima della comparsa del genere umano, e che si scontrarono con i Grandi Antichi. Li incontreremo nel racconto Alle Montagne della Follia (1931). Questo termine è però indicato da Lovecraft, in La Ricerca onirica dell’ignoto Kadath, per indicare anche gli Anziani (Elder Ones), i quali non sarebbero altro che gli dèi della Terra (v. i Grandi).

I Grandi – o, i Signori, nella traduzione di Lippi alla quale facciamo riferimento - (Great Ones), o gli Antichi Dei (Elder Gods o Olden Gods), o gli Anziani (Elder Ones), o i Potenti (Mighty Ones) non sono altro che le divinità della Terra, infatti hanno un aspetto antropomorfo, e sono inferiori, per potenza, agli Altri Dei, che li usano come burattini per nascondersi agli occhi degli esseri umani. Fra loro troviamo Nodens e Poseidone.


Le Terre del Sogno viste da Jason Thompson (2012) 

Il problema è che Lovecraft usa indistintamente alcuni dei suoi termini per indicare ora una, ora un’altra categoria, provocando non pochi problemi ai suoi traduttori. Inoltre, in La Ricerca onirica dell’ignoto Kadath, alcune divinità terrestri si oppongono con successo agli Altri Dei, quando teoricamente dovrebbero essere più deboli di questi ultimi, causando ancora più confusione nell’attribuzione della giusta terminologia.


Luoghi.

Monte Kadath, sorge nell’omonima piana gelida che nessun uomo ha mai raggiunto.

Lerion, monte dal quale nasce il fiume Skai.

Hatheg, Nir e Ulthar, città che punteggiano la vasta pianura della Terra dei Sogni solcata dal fiume Skai.

Dylath-Leen, città sul Mare Meridionale, dalle torri alte e nere, costruita principalmente con rocce vulcaniche di basalto.

Isola di Oriab: città portuale di Baharna, fiume e lago Yath, Monte Ngranek

Altipiano di Leng, un luogo ghiacciato dove si trovano orribili villaggi di pietra e un monastero preistorico dove vive solitario il gran sacerdote con la maschera gialla che nessuno deve nominare.

Kingsport e Arkham (solo citate).

Terra di Zar, Thalarion, Xura, Sona-Nyl, terre e città toccate dalla galea nera.

Colonne di Basalto dell’Occidente, oltre le quali si spalanca la gigantesca cataratta le cui acque precipitano nel vuoto abisso dello spazio.

Terra di Ooth-Nargai: Celephaïs, città che sorge nella valle di Ooth-Nargai, oltre le colline Tanariane, governata dal re Kuranes e attraversata dal Fiume Naraxa; Punta Aran, un picco innevato visibile dal mare, le cui pendici sono ricoperte da alberi di ginkgo.

Mondo di sotto: Picchi di Thok; valle di Pnath; rupe dei Ghoul; caverne dei Gug; cripte degli Zin.

Fiume Oukranos, sulle sue sponde sorgono gli insediamenti di Kiran, con il suo bellissimo tempio; di Tharan, la città dalle mille guglie d’oro e dalle mura di alabastro; la giungla di Kled e infine, alla sua foce, la città commerciale di Hlanith, sul Mar Cereneriano.

Terra di Inganok: Inganok, città di onice, dove regna il Re Velato; villaggio di Urg, abitato da minatori; cave di onice.

Sarkomand, antichissima città situata oltre l’Altipiano di Leng, ormai in rovina.

Regno celeste di Serannian, dove mare e cielo si incontrano (solo citata).

Rinar, Ogothan, Thaa, Ilarnek, Kadatheron (città solo citate).


Personaggi.

Randolph Carter, un sognatore, il protagonista del racconto.

Nasht e Kaman-Thah, i due sacerdoti barbuti ai quali si rivolge Carter per evocare gli dèi del sogno.

Kuranes, re della città di Celephaïs. Come Carter, era un sognatore, un uomo che è riuscito nell’impresa di abbandonare la sua dimensione per vivere per sempre nel mondo dei sogni. Scopriamo che Randolph lo aveva incontrato anche nel mondo della veglia.

Atal, vecchio sacerdote del Tempio degli Antichi situato a Ulthar, ha trecento anni.

Barzai il Saggio (solo citato), maestro di Atal quando quest’ultimo era ancora giovane.

Zenig di Aphorat (solo citato), un altro individuo che tentò in passato di raggiungere il Kadath e che morì nell’impresa.

Snireth-Ko (solo citato), un altro sognatore che forse è stato l’unico essere umano a poter contemplare la faccia oscura della luna.

Richard Upton Pickman, un umano che si è trasformato in un ghoul e che ora vive nel sottosuolo della Terra dei Sogni.

Nyarlathotep, il Caos Strisciante, messaggero degli Altri Dei.

Azathoth, il demone-sultano che gorgoglia al centro dell’infinito, il più importante degli Altri Dei.

Un Essere-Rospo (Toad-thing) by KingOvRats (2017)

Creature.

Zoog: piccole, brune e veloci, abitano il bosco incantato del mondo dei sogni e talvolta entrano in contatto con la terra abitata dagli umani. Vivono in tane sotterranee o nei tronchi d’albero, si nutrono di funghi ma non disdegnano la carne, anche quella umana.

Esseri-rospo (Toad-things): di color bianco sporco e dall’aspetto viscido, sono dotati di incredibile forza. Possono espandersi e contrarsi a piacere, cambiando spesso forma. Somigliano a grossi rospi senza occhi e con una massa di corti tentacoli rosa all’estremità dei loro musi informi e sporgenti.

Magri Notturni (Night-Gaunts): esseri neri e senza faccia, con la pelle liscia e grassa come quella dei cetacei, muniti di corna piegate l’una verso l’altra, ali da pipistrello e code munite di aculei.

Ghoul: figura tratta dalla tradizione araba preislamica, è un abitante notturno e sotterraneo che si ciba di cadaveri umani. In questo romanzo breve non disdegna di nutrirsi di altre creature ed è capace di intrattenersi in piacevoli conversazioni con gli esseri umani.

Bhole: creature che nessuno ha mai avuto modo di vedere. Pare che siano simili a enormi vermi, vivono nella valle di Pnath, nel Mondo di Sotto, dove scavano le loro tane.

Gug: giganti alti sei metri ricoperti da una pelliccia, hanno una grossa bocca verticale munita di zanne che gli attraversa l’intero capo. I loro occhi sporgenti sono rosso-giallastri e sono protetti da protuberanze ossee da cui spuntano grosse setole. Le zampe hanno artigli acuminati e sono dotati di un doppio avambraccio negli arti superiori.

Ghast: dall’aspetto umanoide, hanno un muso privo del naso e la loro pelle è ruvida. Le zampe posteriori sono simili a quelle dei canguri, ma fornite di zoccoli.

Shantak: creatura volante più grande di un elefante e dalla testa equina, ha scaglie scivolose al posto delle piume.


Sul finire dell’anno, Sonia si reca a Providence per vedere Lovecraft e propone - a lui e alle sue zie - di stabilirsi in città, dove potrebbe mantenere l’intera famiglia con la sua attività nel campo della modisteria. Le zie oppongono un netto rifiuto e, così facendo, mettono fine ufficialmente al matrimonio fra i due.


(fine 10° parte)


Sergio Climinti



Note.

Per stilare la seguente biobibliografia ho fatto riferimento ai quattro volumi editati dalla Mondadori tra la fine degli anni ’80 e gli inizi dei ’90, Tutti i racconti (più volte ristampati) e il volume Lettere dall’altrove (1993), una selezione di lettere estratte dal vasto epistolario dell’autore, tutti curati da Giuseppe Lippi. Più il poderoso mammut dedicato a Lovecraft dalla Newton Compton, Lovecraft Tutti i romanzi e i racconti (2011, quarta edizione) a cura di Gianni Pilo e Sebastiano Fusco. Oltre naturalmente a una serie di siti sul web, su tutti The H. P. Lovecraft Archive, consultato per una più precisa cronologia delle sue opere.

- La sottolineatura che appare nei titoli dei racconti originali (tra parentesi), sta ad indicare il filo comune che li lega al famoso “Ciclo di Arkham”, o “Miti di Cthulhu”.

- I titoli dei racconti non in grassetto sono quelli giovanili, quelli scritti in collaborazione e quelli che destinava ai suoi corrispondenti, che non era interessato a pubblicare.

- La data che compare, a volte, dopo il titolo in lingua originale (che si trova tra parentesi) si riferisce a quella di stesura.

- I racconti scritti in collaborazione sono divisi fra “revisioni primarie” (r. p.) per quei lavori scritti per la maggior parte dall’autore, e “revisioni secondarie” (r. s.) fatte di interventi tesi per lo più a migliorarli. Tali sigle sono riportate tra parentesi, dopo il nome dell’autore che ha lavorato con Lovecraft.

- Il corsivo usato all’interno dei racconti ne individua il testo originale, nella traduzione offerta dai quattro volumi della Mondadori sopra indicati, nella maggior parte dei casi di Giuseppe Lippi.

- Al termine di alcuni racconti la parola FINALE avverte il lettore che nelle prossime righe viene svelato il finale della storia.


N.B. Trovate i link alle altre parti della biografia lovecraftiana nella pagina dedicata e nella Biblioteca di Altrove!

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