di
Andrea Cantucci
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DK n. 1, cap. 1 pag 6-7 (Astorina, 2015) |
Il
1° Febbraio 2016 esce in edicola il quarto e (per ora) ultimo numero
della miniserie DK – Prima Stagione dell’editrice Astorina. Non è
una serie bonellide ma in formato comic book, ovvero lo stesso degli
albi americani, noto in Italia come formato Albo d’Oro - dal nome
della collana di Mondadori che lo adottò nel 1946. DK, che poi
sarebbe una versione alternativa di Diabolik, non è però nato
direttamente in questo formato. Nell’aprile 2013 una versione
ancora incompleta della stessa storia, dopo un’anteprima in volume
cartonato, era apparsa in formato bonellide nella collana Il Grande
Diabolik e in quell’occasione il titolo, evidentemente provvisorio
e a dire il vero un po’ contorto, era DK – Io so chi non
sono.
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Diabolik anno VII n. 5, pag. 58 (Astorina, 1968) |
La
scelta dell’editore, ai limiti della scorrettezza verso i lettori,
di pubblicare una storia e dopo poco più di un paio d’anni
ristamparla con un centinaio di pagine in più, tra capitoli aggiunti
e doppie splash pages, si spiega con la comprensibile prudenza di chi
sta proponendo al pubblico una nuova versione di un famoso
personaggio, per di più rivoluzionandone grafica e formato rispetto
alla tradizione. Ecco quindi che Astorina ha preferito saggiare il
gradimento dei lettori prima con un volume intitolato DK – Work in
Progress uscito nel 2012, in cui la storia era ancora ampiamente
incompleta, e poi stampandola nel già collaudato formato bonellide,
che anche Diabolik ha adottato da tempo per gli speciali semestrali.
Anche nel rassicurante volumetto in stile bonellide però, alcune
novità rispetto agli altri numeri de Il Grande Diabolik già
c’erano.
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DK - Work in Progress (Astorina, 2012) |
A
parte i contenuti della storia, che vede agire delle versioni diverse
e prive di un nome preciso di Diabolik, Ginko e Eva Kant, si è
trattato del solo numero della serie speciale stampato direttamente a
colori e con un’impaginazione ancora più lontana del solito dalle
convenzioni della grafica abituale. Per meglio dire, l’impaginazione
di DK è più vicina alle convenzioni di un’altra scuola di
fumetto, quella americana appunto, che da molti decenni, ovvero
almeno dagli anni ’60, ha quasi del tutto abbandonato il montaggio
a strisce omogenee per usare una grafica più libera, con vignette di
diversa altezza che s’incastrano o si sovrappongono in modi diversi
a ogni pagina. Questo dal punto di vista di tanti disegnatori
presenta degli innegabili vantaggi, poiché permette di comporre le
pagine conferendo a ogni immagine la forma ideale o più utile per
rappresentarla, dosando gli spazi e integrando tra loro le figure in
modo più creativo, il ché spesso può significare anche una
maggiore spettacolarità e dinamismo. Uno tra i primi in Italia a
sfruttare appieno le potenzialità espressive di questa impostazione
grafica, fu dagli anni ’60 Guido Crepax.
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Neutron di Crepax, da un supplemento di Linus (1967) |
D’altra
parte ci sono autori che, pur avendo avuto a un certo punto la
possibilità prendersi la più completa libertà grafica, hanno
invece preferito continuare a restare ancorati alle strisce di
altezza regolare, se non addirittura a vignette di dimensioni
perfettamente costanti, in modo da privilegiare la leggibilità del
racconto rispetto alla potenziale maggior enfasi visuale offerta da
un’impaginazione più varia. In tali casi si predilige la stabilità
di una cornice sempre uguale, come uno schermo cinematografico, che
non distragga dalla storia con virtuosismi grafici. E non si tratta
necessariamente di disegnatori meno validi, ma anche di indiscussi
artisti del fumetto come Hugo Pratt, Magnus, Jacques Tardi, Milo
Manara o Art Spiegelman. In particolare il francese Tardi usa spesso
per le sue storie di impegno civile, antimilitariste, noir, o
comunque di un certo spessore letterario, un’impaginazione su tre
strisce abbastanza simile a quella bonelliana.
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Era La Guerra Delle Trincee, di Jacques Tardi (1993) |
Dunque
quale è la scelta grafica migliore? Quella all’italiana con
strisce o vignette omogenee, o quella a incastro all’americana come
usa anche DK? Per non parlare degli album in stile franco-belga, in
origine basati su pagine a quattro strisce ma oggi realizzati con
ampia libertà grafica, o dei fumetti giapponesi, per molti versi
graficamente ancora più liberi di quelli americani o francesi e che
a volte li hanno influenzati, con l’uso di vignette lunghe e
strette in verticale, o inclinate, o che escono fuori dai margini,
ecc.
La
risposta dipende dai gusti, non solo degli autori ma anche dei
lettori, che a seconda delle proprie abitudini visive e di ciò che
cercano in un albo a fumetti, scelgono e premiano l’uno o l’altro
tipo di pubblicazione. Ci sono quelli che non sopportano o non
riescono a leggere un fumetto dall’impaginazione appena un po’
più libera del solito e quelli che, di fronte a una pagina a strisce
regolari tutte uguali, finiscono per annoiarsi mortalmente. L’ideale
sarebbe essere capaci di apprezzare entrambe le forme di fumetto,
poiché come hanno dimostrato geniacci del calibro di Alan Moore e
Frank Miller, quando l’autore è davvero cosciente del linguaggio
grafico che usa, possono essere ambedue funzionali alla realizzazione
di autentici capolavori.
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V for Vendetta, di Moore e Lloyd (1989) |
Ovviamente
ciò che più importa è il contenuto della storia, che se il fumetto
fosse davvero considerato un’arte a tutti gli effetti, dovrebbe
essere il primo elemento di cui tener conto e su cui basare le libere
scelte degli autori per rappresentare graficamente ciò che intendono
raccontare nel modo migliore. Invece spesso, per timore di perdere in
leggibilità o al contrario in spettacolarità, rischiando di perdere
di conseguenza dei potenziali lettori, sono gli editori a imporre ai
disegnatori il tipo di grafica a cui attenersi. In tali casi il
disegnatore deve dimostrare ciò che sa fare sfruttando i limiti
impostigli a proprio vantaggio.
In
quest’ottica, anche un’iniziativa come DK non ha in sé molto di
artistico, nonostante la professionalità dei testi di Gomboli e
Faraci, la bravura di un ottimo disegnatore come Giuseppe Palumbo e
l’innegabile qualità espressiva delle copertine di Matteo
Buffagni, poiché si tratta in fondo solo del passaggio da una forma
commerciale a un’altra. Ma tale operazione può comunque essere
utilissima, se riuscirà ad aprire la strada anche nel mercato
italiano mainstream alla possibilità di realizzare storie in forme
diverse dalle abituali.
È
vero che l’inventiva e l’arte autentica di certi autori possono
riuscire a infiltrarsi dovunque, ma più varietà di formati e di
forme grafiche esiste, meglio è per la vitalità del fumetto di un
paese e maggiori possibilità hanno i suoi personaggi e le sue storie
di essere poi proposti anche all’estero. Tanto più che, ai puristi
che storcessero il naso di fronte a un Diabolik all’americana,
l’Astorina garantisce che questa variante non prenderà mai il
posto dell’originale, il cui albo continuerà a uscire regolarmente
nel solito formato.
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Storia del West di D'Antonio, da Collana Rodeo n. 100 (Cepim, 1975) |
Questo
dell’albo a colori all’americana è comunque solo l’ultimo
passo di un percorso che, nell’arco degli ultimi quarant’anni, ha
portato il fumetto italiano in formato bonellide a distaccarsi almeno
parzialmente dalla sua tradizionale grafica omogenea, anche se finora
si è trattato per lo più di libertà che si sono prese singoli
disegnatori particolarmente originali, a cui evidentemente la gabbia
delle tre strisce andava un po’ stretta.
Uno
dei primi era stato Gino D’Antonio, che con la sua Storia del West,
negli anni ’70, periodo in cui le storie non erano più realizzate
prima in formato a striscia ma uscivano direttamente in quello allora
detto gigante, iniziò a usare vignette scontornate e in cui cornici
e figure debordavano spesso verso l’alto o il basso. Venuto meno il
limite obbligato delle strisce, le vignette iniziarono inoltre a
raddoppiare di dimensioni non solo in orizzontale ma anche in
verticale, come accadeva da decenni in fumetti di altri editori.
D’Antonio introdusse anche l’idea di affiancare a una vignetta di
altezza doppia non due ma tre vignette piccole, poi usata spesso da
Berardi su Ken Parker, e in qualche caso giunse a perdere ogni
riferimento alle tre strisce canoniche.
Con
la Storia del West si confermò anche la possibilità di usare grandi
vignette in apertura, inaugurata nel formato bonelliano a metà anni
’60 sugli albi de Il Comandante Mark ma comuni da tempo su altri
fumetti, come quelli disneyani o i tascabili neri, a imitazione delle
splash page introdotte negli USA intorno al 1940.
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Bella & Bronco n. 1 (Daim Press, 1984) |
Anche
in un’altra serie scritta e disegnata da D’Antonio come Bella &
Bronco, pubblicata dalla Bonelli tra il 1984 e il 1985 in un formato
più grande e con meno pagine quasi all’americana, l’autore si
prese qualche libertà grafica simile, ma sempre ritornando
costantemente alle tipiche tre strisce per pagina.
Del
resto perfino Aurelio Galleppini su Tex, all’inizio degli anni ’70,
aveva realizzato una singola storia dalla grafica un po’ più
libera del solito, Gli Sterminatori, in cui per una volta il formato
delle immagini varia anche in altezza e molte vignette si incastrano
tra loro tagliando via qua e là gli angoli delle cornici
rettangolari.
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Gli Sterminatori, di Bonelli e Galep, da Tex - Collezione Storica A Colori n. 60 (2008) |
Iniziava
a verificarsi cioè, ma in modo molto limitato e solo per due
disegnatori tra i più esperti e importanti, quello che era successo
negli USA tra gli anni ’50 e ’60, quando autori come Carmine
Infantino, Joe Kubert o Gil Kane cominciarono a prendersi delle
libertà sempre maggiori rispetto alla gabbia a strisce che anche da
loro era più o meno la norma, poiché tanto il classico formato
americano che quello italiano alla Bonelli erano nati dal montaggio
in verticale di singole strisce, che negli USA uscivano una al giorno
sui quotidiani e in Italia in albetti settimanali. Negli Stati Uniti,
l’esigenza di superare definitivamente le strisce coincise con
l’apparizione di una nuova generazione di super-eroi, per cui i
disegnatori dovettero porsi il problema di rappresentare al meglio la
supervelocità dell’uno, la capacità di volare a grandi altezze
dell’altro o la vastità dello spazio in cui agiva un altro ancora,
finendo così per differenziare sempre di più la grafica delle
pagine.
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The Flash n.106, di Kanigher e Infantino (DC, 1959) |
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Captain America n. 9 di Simon e Kirby (Timely, 1941) |
Un
caso opposto fu quello di Jack Kirby, che a inizio anni ’40 era
stato tra gli inventori di soluzioni grafiche originali, come la
splash page su due facciate. In quel periodo molte storie di
supereroi, pur essendo ancora caratterizzate da una struttura grafica
regolare, che nel caso di Kirby era di solito a otto vignette su
quattro strisce, sperimentavano già dei modi fantasiosi di delineare
i contorni e di incastrare le figure nella pagina.
Ma
a fine anni ‘50, mentre altri disegnatori americani iniziavano a
sviluppare grafiche a incastro sempre più libere, Kirby al contrario
passò gradualmente a strutture grafiche sempre più regolari, fino a
limitarsi a due soli tipi di impaginazione dalle cornici omogenee,
con sei vignette su tre strisce o con quattro vignette su due
strisce, salvo intervallarle ogni tanto con le sue tipiche splash
page. Nonostante ciò le sue pagine risultavano le più potenti e
dinamiche di tutte, grazie solo alla forza espressiva delle sue
immagini piene di movimento.
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Challengers of the Unknown di Jack Kirby, da Showcase n. 6 (DC, 1957) |
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Donald Duck di Barks, da Four Color n. 300 (Dell, 1950) |
Sul
fronte degli albi umoristici, un altro grande autore come Carl Barks,
sperimentò per breve tempo l’uso di grafiche a incastro tra gli
anni ’40 e ’50, mentre coinvolgeva il suo Donald Duck in scene
movimentate in cui tali accorgimenti erano funzionali. Ma poi tornò
definitivamente a usare pagine a quattro strisce regolari, mentre con
le sue storie di Uncle Scrooge si concentrava sempre più su
elaborate narrazioni avventurose di ampio respiro, in cui troppi
virtuosismi grafici avrebbero potuto rischiare di costituire delle
inutili distrazioni.
Anche
uno dei più grandi maestri della grafica a incastro all’americana
come Joe Kubert, in vecchiaia ritornò a usare di nuovo dopo molti
anni le classiche tre strisce per pagina su invito di Sergio Bonelli,
disegnando per lui un albo gigante di Tex, dopo averne realizzate le
prime pagine in stile comic book. Essendosi a quanto pare convinto in
quell’occasione che anche la grafica a strisce può avere una certa
efficacia, Kubert riutilizzò poi spesso delle vignette omogenee
anche in altre storie da lui disegnate negli USA subito dopo, come un
albo speciale del Sgt. Rock o il graphic novel d’ambientazione
metropolitana Jew Gangster.
Come
si vede quindi, le “conversioni grafiche” dei disegnatori possono
avvenire nei due sensi.
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Tex Speciale n. 15, di Nizzi e Kubert (SBE, 2001) |
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Sgt. Rock - Between Hell & a Hard Place, di Azzarello e Kubert (DC, 2003) |
Tornando agli albi italiani degli anni ’70, anche sui primi numeri della serie della Bonelli dedicata ad Akim nel 1976 la grafica si differenziava dalle abituali strisce omogenee, basandosi invece su incastri piuttosto liberi, tra l’altro con abbondanza di vignette rotonde, anche se il numero di vignette era in genere di cinque o sei a pagina come sugli altri albi Bonelli. In fatto è che si trattava di storie pubblicate originariamente in Francia dalle Editions des Aventures e Voyages, direttamente in formato verticale. Quindi anche per il primo numero, realizzato appositamente per Bonelli dagli autori Roberto Renzi e Augusto Pedrazza e in cui si riassumevano le origini del personaggio, fu adottata una grafica libera del tutto analoga a quella delle pagine successive.
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Tavaola tratta da Akim n.1 (1976) - disegni di Augusto Pedrazza |
Anche qualche altra singola storia inedita pubblicata sulla Collana Rodeo alla fine degli anni '70 godette di una libertà grafica molto maggiore del solito, essendo stata realizzata direttamente in formato bonelliano da disegnatori dotati di una certa inventiva, come Antonio Canale o Luigi Corteggi. Quest’ultimo
disegnò sul numero 159 di Collana Rodeo una storia di fantascienza
intitolata L’Astronave Perduta, in cui, dimezzando l’altezza di
alcune vignette orizzontali, adottava soluzioni grafiche non troppo
diverse da quelle che oltre dieci anni dopo sarebbero diventate
tipiche degli albi di Nathan Never.
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L'Astronave Perduta, di Pezzin e Corteggi, da Collana Rodeo n. 159 (Cepim, 1980)
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Canale
invece sul numero 121 disegnò con una grafica particolarmente libera
la storia Terra Maledetta, una delle prime scritte per Bonelli da
Giancarlo Berardi, in cui già si intravedevano il modo revisionista
di trattare il mondo della frontiera americana che avrebbe poi preso
forma definitiva nelle sue storie di Ken Parker.
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Terra Maledetta, di Berardi e Canale, da Collana Rodeo n. 121 (Cepim, 1977) |
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Ken Parker n. 4 di Berardi e Milazzo - pag. 1 (Cepim, 1977) |
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Ken Parker n. 4 di Berardi e Milazzo pagg. 28-29 (Cepim, 1977) |
Anche
sui primi albi di Ken Parker, pensato inizialmente per apparire
proprio sulla Collana Rodeo, Giancarlo Berardi e Ivo Milazzo si
presero alcune piccole libertà grafiche, simili a quelle usate da
D’Antonio ma ancor meno frequenti. Col tempo gli autori finirono
però per rientrare nella più classica norma delle strisce
bonelliane, limitandosi a portare avanti quelle innovazioni grafiche
erano risultate più efficaci, come gli inserti in orizzontale che
comprimono il tempo fondendo più immagini in una, o le dissolvenze a
fine scena ottenute con campi lunghi scontornati. Per il resto la
loro la loro principale innovazione più che nella grafica
consistette nell’uso di un linguaggio sempre più cinematografico,
eliminando del tutto le didascalie e le nuvolette coi pensieri dei
personaggi. Tra gli iniziali esperimenti grafici apparsi su Ken
Parker, si può comunque ricordare, nel n. 4, una prima pagina con
tre vignette sovrapposte in un’unica composizione e quella che
dovrebbe essere la prima splash page doppia mai pubblicata su un albo
della Bonelli.
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Dylan Dog n. 10, di Sclavi e Casertano (SBE, 1987) |
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Dylan Dog n. 20, di Castelli e Roi (SBE, 1988) |
Su
Dylan Dog a fine anni ’80 arrivarono altre innovazioni grafiche, a
volte destinate a imporsi anche su altre serie, come le pagine con
una striscia normale e una di altezza doppia usate da Giampiero
Casertano nel n. 10, o quelle di due strisce di tre vignette l’una,
spesso usate in particolare da Giovanni Freghieri.
Altre
volte si è trattato di esperimenti più saltuari ed effimeri, come i
flashback con immagini scontornate disegnati su Dylan Dog n. 20 da
Corrado Roi, un raffinatissimo artista che, dopo aver dimostrato le
sue capacità di innovazione anche grafiche, ha poi finito per essere
ricondotto alla norma delle tre strisce.
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Dylan Dog Albo Gigante n. 9 di Wood e Freghieri (SBE, 2000) |
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Nathan Never n. 5, di Medda e Toffanetti (SBE, 1991) |
Ma
è all’inizio degli anni ‘90 su Nathan Never che gli autori
Medda, Serra e Vigna chiesero a Bonelli di potersi allontanare un po’
di più dalla gabbia grafica abituale, per citare soluzioni tipiche
della produzione americana e giapponese che, data l’ambientazione
fantascientifica della serie, costituivano degli inevitabili punti di
riferimento. Fin dall’inizio la filosofia grafica di Nathan Never
fu di concedere ai disegnatori di comporre le pagine in modo un po’
più libero. Si videro così uscire nettamente dagli schemi
bonelliani le sequenze di vari disegnatori come Roberto De Angelis,
Claudio Castellini, Romeo Toffanetti, Nicola Mari o Dante Bastianoni.
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Nathan Never n. 23, di Serra e Bastianoni (SBE, 1993) |
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Nathan Never n. 26, di Medda e Mari (SBE, 1993) |
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Nathan Never n. 29 di Vigna e Casini (SBE, 1993) |
Uno
degli autori che sfruttò di più questa possibilità allo scopo di
creare degli effetti dinamici fu Stefano Casini e il massimo della
sperimentazione grafica concessa su un albo Bonelli degli anni ’90
fu raggiunto con la storia L’Ultima Onda, da lui disegnata
sul n°29 di Nathan Never. Dopodichè anche allo staff di questa
serie fu chiesto di fare marcia indietro in nome della leggibilità e
della tradizione, ma solo parzialmente. Infatti certe soluzioni
grafiche adottate su Nathan Never, come le quattro strisce di una
vignetta ognuna usate fin dalla prima pagina del numero uno, finirono
per diventare di uso comune anche su altre serie.
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Napoleone n. 53, di Paolo Bacilieri (SBE, 2006) |
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Maxi Dampyr n. 2, di Cajelli e Baggi (SBE, 2010)
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Anche altri autori che lavorano per la Bonelli, ma che al pari dei vari
D’Antonio o Roi si sono fatti le ossa su formati diversi, come
Paolo Bacilieri sugli albi di Napoleone o Alessandro Baggi su Dampyr,
si sono presi in più occasioni delle ampie libertà sullo schema
delle tre strisce, pur facendovi comunque sempre riferimento.
Bacilieri
ha spesso frammentato la tavola in immagini più piccole del solito,
in sintonia col suo particolare stile, poco realistico ma preciso e
meticoloso, che ricorda certi fumetti underground. Naturalmente ha
potuto prendersi maggiori libertà grafiche soprattutto quando è
stato lui stesso a scriversi da solo i testi delle storie.
Baggi
invece sembra ispirarsi ad autori americani un po’ più mainstream,
legati ad ambiti horror o anche supereroistici, come Jack Kirby o
Rick Veitch, quindi nelle sue storie tende soprattutto ad ampliare le
vignette raddoppiandone il formato, a volte fino a occupare tutta
l’altezza della pagina. Alterna inoltre queste pagine dalla grafica
più libera ad altre regolari, la cui precisa gabbia a vignette del
tutto omogenee richiama subito alla mente le storie di Kirby, dato lo
stile dei disegni e il tipo di aggressivi mostri rappresentati.
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Hammer n. 1, di Febbrari e Majo (Star Comics, 1995)
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Altri
editori, come Star Comics, Panini o Free Books, hanno prodotto vari
albi in formato bonellide ma dalle impaginazioni più libere, a volte
decisamente all’americana, anche se spesso senza riscuotere
abbastanza successo da permetterne la prosecuzione, come nel caso di
due serie di fantascienza dalla grafica curata e interessante come
Hammer, pubblicata dalla Star tra il 1995 e il 1996 e riproposta nel
2014 da Mondadori in formato più grande, e Arkhain, edita da Panini
nel 2002. Entrambe tentavano di proporre un tipo di science fiction
complessa, senza più riferirsi a un singolo protagonista equivalente
all’eroico investigatore di turno.
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Arkhain n. 1, di Calza e Raffaele (Panini, 2000)
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Sporadici
esperimenti grafici un po’ più naif sono apparsi in una lunga
serie che ha avuto maggior fortuna, scritta da Lorenzo Bartoli e
Roberto Recchioni e pubblicata dall’Eura in formato bonellide dal
2003, ovvero John Doe, in cui la gabbia grafica più usata rimaneva
però sempre quella classica a sei vignette omogenee.
Può
darsi che il successo di John Doe fosse dovuto anche alla scelta di
unire storie piuttosto originali con una relativa semplicità
grafica, praticamente mantenuta per tutta la serie pur con saltuarie
sperimentazioni, che risultavano maggiormente ad effetto proprio
perché intervenivano a spezzare una gabbia regolare. In questo modo
anche i racconti più stravaganti risultavano comunque facilmente
leggibili e chiari per i lettori.
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John Doe n. 3, di Bartoli, Recchioni e Manunta (Eura, 2003) |
Ci
si sarebbe infatti potuti aspettare che ai disegnatori di John Doe
fosse lasciata maggiore libertà grafica rispetto ai canoni
bonelliani, visto che l’Eura ne concedeva molta di più nelle
storie che pubblicava su Lanciostory e Skorpio. Del resto la più
totale libertà di composizione è una caratteristica comune negli
albi pubblicati dall’Eura in formato bonellide ma realizzati da
disegnatori argentini, come Dago e Martin Hel.
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Martin Hel anno XIII n. 3 di Barron e Fernandez (Eura, 2007) |
Riguardo
poi a un personaggio classico come Tex, mentre Sergio Bonelli anche
in occasioni speciali come gli albi giganti annuali insisteva coi
disegnatori di scuole fumettistiche diverse perché si adeguassero
alla tradizionale grafica su tre strisce della sua casa editrice,
sembra che l’attuale gestione del figlio Davide lasci più spazio a
saltuari volumi dall’impaginazione più libera, se non
all’americana almeno alla francese.
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Tex - L'Eroe e la Leggenda, di Paolo Eleuteri Serpieri, pag 47 (SBE, 2015) |
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Tex - Frontera!, di Boselli e Alberti, pag. 15 (SBE, 2015) |
Lo
si è visto con i due album cartonati di grande formato di Tex usciti
nel 2015 e disegnati rispettivamente da Paolo Eleuteri Serpieri e da
Mario Alberti. Se il primo, L’Eroe e la Leggenda, è caratterizzato
da ampie vignette dall’impaginazione del tutto libera, la struttura
grafica del secondo, intitolato Frontera!, è più vicina a quella
franco-belga su quattro strisce. Nelle intenzioni dell’editore
dovrebbero inaugurare una nuova serie di speciali texiani, per la
prima volta fuori dagli schemi anche e soprattutto dal punto di vista
grafico.
L’adeguamento
di alcuni dei personaggi Bonelli a un formato album analogo a quello
franco-belga era già stato sperimentato con la pubblicazione su
rivista di alcune storie inedite a colori di Ken Parker, Martin
Mystère, Dylan Dog, Nathan Never e Tex, per lo più uscite su Comic
Art tra gli anni ’80 e ’90. In quasi tutte quelle occasioni però,
l’impaginazione non si discostò molto da quella solita bonelliana
a tre strisce.
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Dylan Dog - Gli Inquilini Arcani, di Sclavi e Roi, da Comic Art n. 63 (1990) |
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Nathan Never - Luna, di Vigna e Castellini, da Comic Art (1991) |
Solo
il racconto di Dylan Dog in tre parti Gli Inquilini Arcani fu
realizzato per l’occasione da Tiziano Sclavi e Corrado Roi in
pagine di quattro strisce omogenee, come nella scuola francofona più
classica. Invece le due storie di Nathan Never disegnate su Comic Art
da Claudio Castellini, nella grafica non differirono troppo dalla
serie mensile, benché con variazioni di struttura più frequenti
rispetto alla gabbia base a tre strisce.
Impaginazioni
ben più libere ha poi messo in atto Castellini una volta passato a
disegnare in pianta stabile per la Marvel, per la quale ha realizzato
storie di famosi personaggi americani come Silver Surfer, Conan o
Spider-Man, usando anche immagini prive di contorni e sovrapposte, in
pratica del tutto prive di schemi fissi, segno che era quella
l’impostazione grafica a cui aspirava, che piaccia o meno agli
appassionati bonelliani.
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Peter Parker Spider-Man n. 77 di Mackie e Castellini (Marvel, 1997) |
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Valkiria di Nicieza e Rinaldi, da Marvel Comics Presents n. 168 (1994) |
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X-Factor n. 117, pag. 14, di Mackie e Raffaele (Marvel, 1995) |
Negli
anni ’90 passarono a lavorare per la Marvel anche altri due
disegnatori visti in Italia su Nathan Never come Pino Rinaldi e Dante
Bastianoni, così come l’ex disegnatore di Lazarus Ledd Stefano
Raffaele, anche se spesso lo stile di quest’ultimo è stato un po’
sacrificato da inchiostratori poco in sintonia con il suo tratto.
La
presenza attuale di molti altri disegnatori italiani che lavorano
direttamente per il mercato USA, come Simone Bianchi, Gabriele
Dell’Otto, Carmine Di Giandomenico, Francesco Francavilla o Sara
Pichelli, dimostra che i nostri autori possono realizzare senza
problemi storie impaginate in modo molto diverso dalla propria scuola
nazionale, poiché chi è cresciuto leggendo albi americani finisce
per conoscerne abbastanza bene il linguaggio grafico. Solo alcuni di
loro sembrano meno a loro agio con le pagine a incastro, come
Riccardo Burchielli, che anche quando disegna albi americani spesso
torna a usare le abituali tre strisce all’italiana.
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Conan the Barbarian n. 23 di Wood e Burchielli (Dark Horse, 2013) |
Tra
i più interessanti disegnatori italiani che lavorano per l’americana
DC Comics, benché forse non ancora valorizzato come merita, si può
citare anche Andrea Sorrentino, autore di un bel ciclo di Green Arrow
(Freccia Verde) tra il 2013 e il 2014. Il suo stile iperrealista alla
Jae Lee si sposa con esperimenti grafici estremamente originali e
precisi, in cui scompone e ricompone i dettagli delle immagini
creando degli effetti di notevole fascino e mai gratuiti, ma sempre
in funzione di precise esigenze narrative. Abbiamo insomma in Italia
degli ottimi artisti che a volte i nostri editori si lasciano
sfuggire, forse anche per l’impostazione grafica un po’ rigida
dei nostri albi, non sempre in grado di soddisfarne appieno tutte le
aspirazioni espressive.
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Green Arrow n. 24, di Lemire e Sorrentino (DC, 2013) |
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Il Grande Diabolik n. 1 - 2013, pag. 149 (Astorina) |
Tra
gli autori italiani che, pur lavorando anche nel formato bonellide,
usano spesso una grafica molto libera non necessariamente legata alle
abituali strisce omogenee, c’è anche il disegnatore di una di
quelle storie a colori di Martin Mystère che uscirono a suo tempo su
Comic Art, cioè Giuseppe Palumbo. Questi per fortuna ha sempre
continuato a lavorare per il mercato italiano e da oltre dodici anni
è il responsabile delle immagini de Il Grande Diabolik primaverile,
dedicato alle avventure giovanili dell’antieroe creato dalle
sorelle Giussani.
Era
naturale che fossero affidati a Palumbo anche i disegni in stile
pseudo-americano della serie DK. Tra le sue principali ispirazioni ci
sono infatti i super-eroi Marvel degli anni ’60, tanto che in una
storia del 1990 del suo super-eroe masochista Ramarro ha citato una
delle scene più famose della saga di Capitan America.
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Ramarro - Dies Irae, di Giuseppe Palumbo - pag. 6, da Frigidaire n. 111 (1990) |
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DK n.1, cap. 2 pag. 1 (Astorina, 2015) |
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DK n. 1, cap. 3 pag. 7 (Astorina, 2015) |
In
DK quindi i disegni di Palumbo funzionano benissimo, la nuova
versione del personaggio agisce in scene così dinamiche come in
Diabolik non si erano mai viste, con ardite deformazioni anatomiche,
abbondanza di linee cinetiche e sovrapposizioni di efficaci ed
eclatanti onomatopee, proprio come in un albo americano.
Tutto
ciò alla fine corrisponde a una rielaborazione più che altro
visiva, quindi se vogliamo anche abbastanza superficiale, ma non si
può negare che in questo modo i disegni appaiano ben più
coinvolgenti rispetto a quelli a volte davvero un po’ statici e in
stile fotoromanzo tipici dei tascabili all’italiana nati con
Diabolik.
Si
dimostra così che, con qualche aggiustamento grafico che lo renda
appetibile anche a un pubblico diverso, un personaggio alla Diabolik
non ha proprio nulla da invidiare ai pezzi grossi del fumetto
d’oltreoceano.
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DK n. 1, cap. 3 pag. 14 (Astorina, 2015) |
Va
detto anche però che in DK le figure appaiono un po’ più
sintetiche rispetto alle ricercate raffinatezze a cui Palumbo ci
aveva abituato in passato su Il Grande Diabolik. Inoltre i colori
piuttosto piatti non valorizzano molto le immagini, rifacendosi a uno
stile di colore quasi uniforme che richiama i fumetti americani di
una volta ma oggi è abbastanza superato dalle sfumature digitali ben
più elaborate degli albi di super-eroi attuali.
Lascia
interdetti il fatto che, proprio mentre il formato di un simil
Diabolik viene così ingrandito, non solo i disegni si facciano più
semplici, almeno rispetto alle capacità di un Palumbo, ma anche i
caratteri dei testi siano di dimensioni molto grandi rispetto agli
standard di qualunque albo americano, cosicché le nuvolette, di
conseguenza più ingombranti del necessario, in certi punti portano
via davvero molto spazio alle immagini.
Si
tratta di dettagli stilistici che potrebbero essere rivisti
facilmente, forse dovuti alla scarsa dimestichezza con un formato che
per la produzione italiana non si usa più da molto tempo, ovvero più
o meno dagli anni ’60, in cui uscivano ancora in queste dimensioni
delle serie nostrane come quella di Kansas Kid.
Quello
che allora da noi si chiamava formato Albo d’Oro era più comune
tra i fumetti italiani degli anni ’50, in cui a imitazione degli
albi americani uscivano in queste dimensioni serie come Pecos Bill,
Albi Salgari o Akim.
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Rin Tin Tin & Rusty n. 79 (Cenisio, 1967) |
In
seguito il formato comic book continuò a essere usato dagli autori
italiani prevalentemente per personaggi d’origine statunitense. Per
esempio dal 1960 fu pubblicato a lungo l’albo Rin Tin Tin &
Rusty, che conteneva molte storie prodotte per il mercato francese ma
realizzate dagli italiani Luigi Grecchi ed Ennio Missaglia per i
testi e Carlo Marcello e Vladimiro Missaglia per i disegni. Infatti
l’esigua quantità di episodi di Rin Tin Tin pubblicati negli USA
dalla Dell era insufficiente a soddisfare la richiesta dei lettori
europei, dato il successo che avevano avuto anche da noi i telefilm
degli anni ’50 col discendente del famoso cane divo del muto.
La
stessa cosa accadeva per eroi come Mandrake o Phantom, che dal 1972
furono protagonisti a loro volta di collane italiane in formato comic
book, inizialmente realizzate in buona parte da autori nostrani. In
questi ultimi albi, così come in quelli di Pecos Bill, dimensioni a
parte, la grafica era la solita delle strisce, dato che all’epoca
questa era ancora relativamente comune anche negli Stati Uniti,
mentre su Rin Tin Tin i disegnatori si presero delle maggiori libertà
nella composizione delle pagine, usando spesso anche cornici
inclinate.
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DK n. 2, cap. 4 pag. 17 (Astorina, 2015) |
Con
DK, dato lo stretto legame con un personaggio di grande successo, ci
sarebbe in effetti la possibilità di imporre di nuovo un formato che
da noi è caduto in disuso da decenni per quanto riguarda la
produzione nazionale, ma che è invece del tutto abituale per chi
legge le edizioni italiane degli albi americani.
Vedremo
se questa iniziativa avrà più successo di quelle collane che in
anni recenti hanno adottato una grafica all’americana senza
rinunciare al formato bonellide in bianco e nero, come fece qualche
anno fa la Free Books con Desdy Metus. Se a questa prima miniserie di
DK ne seguiranno altre, vorrà dire che il prodotto ha trovato un suo
pubblico, che sia o meno quello già abituato a questo tipo di
divisione in episodi.
Anche
la scansione narrativa della storia infatti in DK segue lo stesso
andamento degli albi americani, in cui, dato le poche pagine a
disposizione, ogni racconto lungo o ciclo è diviso in capitoli di
una ventina di pagine o poco più. Nel caso di DK i capitoli erano di
venti pagine sul bonellide e sono di ventidue sugli albi formato
comic book che ne contengono tre alla volta, a causa dell’aggiunta
in ognuno di un paginone doppio che non fa progredire la trama più
di tanto, ma sottolinea un momento della storia conferendogli maggior
enfasi.
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DK n. 2, cap. 5 pag. 16 (Astorina, 2015) |
Dal
punto di vista dei soggetti e delle sceneggiature, questi restano più
o meno nell’ambito del feuilleton d’azione come il vecchio
Diabolik, aggiungendovi il ritmo più serrato e concitato tipico dei
fumetti e dei film americani di oggi. Si può semmai notare la
furbizia editoriale di aver voluto inventare un personaggio nuovo
mantenendolo strettamente legato all’iconografia di un antieroe
famosissimo, così da garantirsi in partenza l’interesse una
discreta base di pubblico. Si direbbe che gli autori abbiano fatto
tesoro dei tanti esempi che vengono dagli USA, in cui eroi iconici
come Superman o Batman sono stati oggetto di una gran quantità di
versioni alternative, un’idea in Italia non molto usata se non per
le versioni parodistiche degli eroi Disney.
Ma
benché il personaggio sia un altro, i punti di contatto con Diabolik
non mancano, come nel capitolo sette in cui DK e l’Ispettore sono
imprigionati insieme. In quel punto si cita una delle scene più
famose della saga di Diabolik, quella in cui Ginko chiede al suo
arcinemico chi è, solo che qui la domanda non ottiene alcuna
risposta al di là della laconica frase “Io non so chi sono”, che
fu pronunciata in quella stessa situazione anche da Diabolik. Insomma
ancor più che nella serie classica non si sa nulla del passato di
DK, che nella storia non è chiamato ne con questo né con altri nomi
precisi. E lo stesso vale per gli altri comprimari.
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DK n. 2, cap. 6 pag. 16 (Astorina, 2015) |
Se
quello che era Ginko diventa qui semplicemente l’Ispettore, ma
mantiene più o meno il suo ruolo, colei che ha l’aspetto di Eva
Kant non è più l’alleata e amante del criminale protagonista come
nella serie normale, ma assume il ruolo di una giudice, segretamente
a capo di una specie di setta denominata i Giustizieri, che vuole
punire anche con mezzi illegali quei criminali altolocati che la
legge non è in grado di raggiungere.
Chissà
che le polemiche degli ultimi tempi sull’operato della magistratura
non abbiano influenzato in qualche modo gli autori. In ogni caso
questo spunto è interessante, anche perché la Giudice e gli altri
Giustizieri indossano vesti e cappucci simili a quelli che indossava
nei romanzi Fantomas, il principale archetipo letterario a cui si è
direttamente ispirato Diabolik, solo che in DK i cappucci sono
bianchi anziché neri.
Si
tratta in effetti di due diverse interpretazioni dell’archetipo del
tipico superuomo letterario, che con le sue azioni si pone al di
sopra di leggi o morali comuni, agendo per motivi ideali nel caso dei
Giustizieri vestiti di bianco o per soddisfare il proprio interesse
egoistico nel caso dei nerovestiti Fantomas e Diabolik.
Lo
stesso vale per il protagonista di DK, che non sembra avere di per sé
nessun nome, anche se una pantera nera imbalsamata, simile a quella
da cui Diabolik aveva preso il suo, fa bella mostra di sé all’inizio
del quarto capitolo, sul secondo albo della serie. In origine DK era
semplicemente la sigla sintetica convenzionale per dire Diabolik nei
soggetti e nelle sceneggiature a uso interno dell’Astorina, ma
nella serie con questo nome non c’è nulla che associ le due
lettere al personaggio, che rimane principalmente un misterioso ladro
senza scrupoli a cui non interessa mettersi in mostra o spaventare il
prossimo e che preferisce agire nell’ombra.
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DK n. 1. cap. 3 pag. 13 (Astorina, 2015)
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Sull’albo
bonellide del 2013, l’unico soprannome attribuito a DK era il Re
del Terrore, dal titolo del primo episodio di Diabolik in cui
pubblico e giornali così definivano l’inafferrabile criminale.
Nella miniserie formato comic book si è invece preferito sostituire
quest’espressione, considerata troppo altisonante e poco attinente
alla psicologia del nuovo personaggio, con un appellativo più vago e
discreto come l’Ombra della Notte.
Per
certi versi è un peccato visto che, se davvero si spera di proporre
questa serie anche negli USA o comunque all’estero, una traduzione
pressoché letterale del nome il Re del Terrore poteva anche essere
Dread King, che guarda caso avrebbe avuto proprio le iniziali DK,
salvando così capra e cavoli. Invece col nome l’Ombra della Notte,
una sorta di ibrido non si sa se voluto o casuale tra l’Ombra che
Cammina e Aquila della Notte che dà l’immagine di un personaggio
meno spaventoso, tale coincidenza non c’è più. Le iniziali di
Night Shadow sarebbero NS, quasi il nome di una sigaretta, magari
nociva ma non molto d’effetto.
Insomma
se il personaggio qui non si chiama Diabolik e non ha un soprannome
legato alle due lettere, che senso ha chiamarlo DK? Non interessa a
nessuno? È solo una convenzione? L’hanno già fatto con l’albo
PK di Paperinik e quindi va bene? Basta chiamarlo in qualche modo,
tanto un nome non ce l’ha? Lo spiegheranno così a editori e
lettori stranieri che si chiederanno cosa significhi? Senza contare
che negli USA un famoso DK esiste già. In effetti il nome ideale
poteva essere Dark Knight. Peccato sia già stato preso da un altro…
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DK2 - Il Cavaliere Oscuro Colpisce Ancora vol. 1, di Frank Miller (Play Press, 2002) |
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Il Grande Diabolik n. 1-2013 (Astorina) |
DK
– IO SO CHI NON SONO
IL
GRANDE DIABOLIK n. 1 – 2013
Soggetto:
Mario Gomboli
Sceneggiatura:
Tito Faraci
Disegni:
Giuseppe Palumbo
Formato:
bonellide di 180 pag. a colori
Editore:
Astorina
Data
di uscita: 15 Aprile 2013
Prezzo:
€ 4,90
|
DK - Prima Stagione n. 1 (Astorina, 2015) |
|
DK - Prima Stagione n. 2 (Astorina, 2015) |
|
DK - Prima Stagione n. 3 (Astorina, 2016) |
DK
– PRIMA STAGIONE
Miniserie
di 4 numeri
Soggetto:
Mario Gomboli
Sceneggiatura:
Tito Faraci
Disegni:
Giuseppe Palumbo
Colori:
Inventario e Enrico Pierpaoli
Copertine:
Matteo Buffagni
Formato:
comic book di 72 pag. a colori spillate
Editore:
Astorina
Date
di uscita: dal 1° Novembre 2015 al 1° Febbraio 2016
Prezzo:
€ 3,50 ad albo
Andrea Cantucci
N.B. Trovate i link agli altri "bonellidi" su Cronologie & Index!
P.S. Il precedente intervento "bonellide" su Diabolik era del 1° maggio 2014...
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