a cura di Francesco Manetti
L'uomo che visse nel futuro
Per una volta - e col suo permesso - rubo la scena al nostro carissimo amico e inviato speciale Franco "Frank Wool" Lana e mi occupo io della nuova intervista - la XIII di Dime Web (dopo quella rilasciataci da Andrea Pasini) e la prima del 2015. Non è un caso se (ri)partiamo con questo nome di gran caratura! In quest'anno celebriamo infatti i 25 anni di Giuseppe Lippi nelle vesti di curatore e responsabile di "Urania", LA rivista di fantascienza per antonomasia in Italia, edita da Mondadori, sulla quale atterrò dopo aver percorso svariati anni-luce come traduttore, scrittore, saggista, critico... Quasi mezzo secolo a spasso negli spazi intergalattici, nelle realtà alternative, nei domani imperfetti e fra le rovine delle più impensabili apocalissi - dunque! Ma non solo... Giuseppe è da tempo ben noto anche al pubblico di più stretta osservanza bonelliana, per i suoi ficcanti articoli sulla Collana Almanacchi e quant'altro, vergati come grande esperto del fumetto, del cinema e della narrativa "di genere". Lascio ora a lui la parola: rispondendo in maniera esaustiva e brillante alle mie sette domande (o spunti di riflessione che dir si voglia) Giuseppe Lippi apre un wormhole nel multiverso della sua esperienza... accende un suo personale Aleph sul passato, sul presente e su quello che verrà!
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Giuseppe Lippi, dall'Urania Blog. Immagine di Franco Brambilla con foto di Giorgio Raffaelli. |
DIME WEB - Vuoi
raccontare ai lettori di DW, Giuseppe, cosa facevi, scrivevi,
pubblicavi... nel mondo della fantascienza e del fantastico, prima di
approdare a “Urania”?
GIUSEPPE LIPPI - Ho
cominciato a lavorare a ventiquattro anni, nel 1977, come redattore
di Armenia Editore. Mi aveva fatto assumere Vittorio Curtoni, inseme
al quale mi occupavo delle riviste “Robot”, “Gli arcani”,
“Psyco” e le corrispondenti collane librarie, dai “Libri di
Robot” ai “Libri della paura”. Questo è durato fino al 1979;
dopo la chiusura di “Robot” e le dimissioni di Vittorio, sono
andato avanti per un altro anno e poi quell’esperienza si è
conclusa in modo abbastanza brusco. A questo punto ho fatto il
traduttore per circa un decennio: il mio cliente privilegiato erano
gli Oscar Mondadori per i quali non mi limitavo a tradurre ma fornivo
consulenze editoriali. Agli Oscar ho lavorato con due editor molto
sensibili, Glauco Arneri e Ferruccio Parazzoli, dal 1980 al 1995.
Intanto il manager del settore, Leone Buonanno, mi teneva d’occhio
per il lavoro che avevo svolto agli Oscar fantascienza e nel 1989 mi
chiamò a occuparmi anche di “Urania”, sostituendo Gianni
Montanari. Gianni era stato assunto da una coppia di editor, Laura
Grimaldi e Marco Tropea, che nel dicembre 1988 si erano dimessi per
contrasti con l’azienda. Ne andò di mezzo anche il curatore di
“Urania”, figura peraltro benemerita, e fu così che arrivai al
timone della “più famosa collana di fantascienza”. Ho firmato il
mio contratto nel febbraio ’89, ma Montanari aveva lasciato un anno
di produzione già pronta, come aveva fatto Vittorio all’epoca
delle sue dimissioni da Armenia/”Robot”, e le mie prime scelte
personali sono apparse soltanto dall’inizio del 1990. Per anni ho
curato un mucchio di collane: “Urania”, “Classici Urania”,
“Urania Fantasy”, “Urania Horror”, “Millemondi” e le
librarie “Altri Mondi”, “Fantasy”, “Omnibus del
fantastico”, “Mystbooks”. Un lavoro da capogiro…
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La rivista "Robot" della Armenia |
DW - Ci vuoi raccontare di Urania, dei suoi curatori, degli autori
pubblicati, delle copertine e di Karel Thole prima del tuo arrivo?
GL - Su
tutto questo ho scritto un libro corposo e illustrato, che ho
consegnato all’editore di "Profondo Rosso", Luigi Cozzi, ormai da un
anno e mezzo e al quale vi rimando. Si intitola Il futuro alla
gola: una storia di Urania e dovrebbe uscire entro pochi mesi, ma
recentemente Luigi ha avuto seri problemi di salute e c’è stato un
nuovo slittamento. In breve, dirò che “Urania” ha rappresentato
la moderna “Medusa” o la biblioteca di Babele della fantascienza,
una serie che tenta di ammaliare il lettore, di conquistarlo un
numero dopo l’altro in un racconto senza fine. Per oltre mezzo
secolo ha cantato con la voce di una sirena, mettendo a disposizione
del lettore moderno una sorta di “Mille e una notte” da edicola.
Non tutte e mille insieme, naturalmente: una notte al mese o ogni
quattordici giorni, senza mai spezzare il filo. Il mio compito, come
quello dei miei predecessori Giorgio Monicelli e la coppia Carlo
Fruttero-Franco Lucentini, è un po’ lo stesso di Sheherazade, e
guai a interrompersi…!
Ci
sono state altre collane benemerite e anche sofisticate, ma io credo
che tutte si siano modellate, quale più quale meno, sull’esperienza
di “Urania”. Da “Galassia” a “Cosmo argento”, da “Futuro”
Fanucci ai “Libri di Robot”, hanno svolto una funzione che, a
volte con mezzi economici o una consapevolezza maggiore, portasse
avanti il discorso cominciato da “Urania” nel lontano 1952.
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Agli albori di Giuseppe Lippi al timone di "Urania": il n. 1125 del 22 aprile 1990 (disegno di Vicente Segrelles), su cui apparve, tra l'altro, il suo articolo Un po' di storia... |
DW - Ci vuoi parlare della tua esperienza in Urania – nel passato, nel
presente e... nel futuro? Inizio, scelte editoriali, incontri,
aneddoti...
GL - Parlo
anche di questo nel Futuro alla gola. Per me, dopo venticinque
anni (sto per compierli in febbraio), la cura di “Urania” e
collane consorelle non è più soltanto un incarico di lavoro: è una
parte consistente della mia vita. Non che manchino le sfide, le
difficoltà e gli intoppi, come in tutte le esistenze, ma in questa
c’è il senso di una profonda identificazione: seguo “Urania”
da oltre cinquant’anni, prima come lettore e poi come responsabile,
e anche se non vorrei che qualcuno riducesse la mia esperienza a
questo, è indubbio che “Urania” l’abbia condizionata
profondamente. All’inizio la redazione era diretta da Gian Franco
Orsi, a capo anche dei Gialli, e amministrata per il lavoro
quotidiano da Marzio Tosello e Stefano Di Marino. Poco dopo Stefano
uscì dalla squadra per fare lo scrittore a tempo pieno e il
traduttore, mentre Marzio, il caporedattore, andò in pensione un po’
più tardi, nel ’94. Nel ’95, ritiratosi anche Gian Franco Orsi,
le redini della divisione furono prese da Stefano Magagnoli, con il
quale traghettammo “Urania” verso la nuova formula voluta dalla
casa editrice: il tascabile mass market. Nello stesso periodo,
purtroppo, dovemmo rinunciare alle numerose collane librarie del
settore, concentrandoci sull’edicola o su libri dalla veste
decisamente economica. Gli illustratori che si sono avvicendati sulle
copertine, li ricordo tutti con affetto: Oscar Chichoni che lavorava
a Londra, Marco Patrito a Torino, i molti milanesi, lo spagnolo
Vincente Segrelles che mi piaceva soprattutto sui Classici, fino a
quel Franco Brambilla – titolare ancora oggi – che da quindici
anni ha impresso un look moderno alla famiglia di “Urania”,
identificandosi con essa come era successo soltanto con Curt Caesar e
Karel Thole.
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Uno dei celeberrimi "tondi" di Karel Thole |
Di Thole posso dirti che abbiamo collaborato al tempo
dei miei esordi, quando curavo le collane di Armenia Editore/Siad,
poi occasionalmente in seguito, ma ormai si era ritirato dalla
professione per la ben nota malattia agli occhi. Sul piano personale,
invece, siamo rimasti amici per quasi trent’anni: l’ho conosciuto
nel 1972, all’Eurocon di Trieste, e lui è morto nel 2000, un lungo
arco di tempo durante il quale ho potuto frequentare l’uomo oltre
che l’artista. L’artista Thole mi ha semplicemente dato la
sveglia, fin da quando ero un ragazzo. Mi ha fatto capire che
inventiva, buon gusto e un sano brivido di terrore sarebbero stati il
mio pane quotidiano. Se si legge la fiaba dei Grimm intitolata
“Storia di uno che se ne andò in cerca della paura”, si scopre
che farsi venire la pelle d’oca è soltanto questione di fantasia,
a meno che non ci buttino in testa una bella secchiata d’acqua
fredda. Thole ha illustrato sua l’una che l’altra via,
mostrandoci il potere dell’illusione e, nello stesso tempo, il
grande artificio che ne è alla base.
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Karel Thole |
Per
quanto riguarda le scelte, ho dovuto tenere presenti il mercato e
l’evoluzione del genere negli anni Novanta e Duemila, un ventennio
molto interessante, ma ho anche cercato di attenermi a un’istintiva
linea di condotta personale. Io credo in una fantascienza che abbia
alle spalle una solida base di conoscenze (scientifiche,
tecnologiche, eccetera) ma soprattutto un pensiero, un modello del
mondo da offrirci e da ribaltare insieme a noi, scoprendone i lati
insospettabili. Senza questa visione d’insieme, senza il tentativo
di darci un’immagine coerente – anche se visionaria –
dell’universo, la sf non avrebbe molto da dire. Sarebbe soltanto
una variante del racconto di avventure. Nella mia carriera ho
pubblicato molti racconti di avventure, ma mai (spero) fini a se
stessi: da qualche parte deve esserci l’indicazione di un passaggio
ulteriore, il desiderio di una maggior consapevolezza. L’universo è
immenso, non ci sarà mai il tempo di prenderne coscienza
globalmente, ma è bello nutrire l’illusione che potremmo farlo,
con nuove facoltà della mente o con l’immaginazione, se non con il
corpo limitato che abbiamo. In questo modo conosceremmo un po’
meglio gli anfratti della realtà e le incognite possibili, come
avviene nella letteratura di qualsasi genere. Il cuore della
fantascienza sta nel tentativo di conoscere se stessi, oltre i
limiti.
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William Gibson, uno dei padri del cyberpunk |
DW - Cosa significa “grande fantascienza/fantastico” per Giuseppe
Lippi?
GL - Qui
bisogna stare attenti, io non vendo ma anzi compro, tento di
acquisire cosette pregiate o quantomeno gustose, per cui non ho
bisogno di ricorrere a termini come “grande fantascienza”,
“grande fantastico” e simili. I lettori non si aspettano frasi
d’imbonimento smaccate, anche se hanno imparato a rispettare certe
iperboli, quelle che fanno parte del gioco di prestigio. In
definitiva, siamo noi a fare grandi le cose che amiamo e la
fantascienza che mi piace di più è quella che bara soltanto un poco
sul conto della realtà: sa che è fitta di punti interrogativi, sa
che non è a misura d’uomo e ci fornisce un abbozzo di queste
difformità, di questo grande puzzle. È uno spettacolo di magia,
come a teatro: accettate certe premesse, il trucco c’è ma non si
vede e quando l’artificio del racconto funziona bene, il resto è
perdonato. Il genere, a mio avviso, perde un po’ di mordente quando
si traveste da chiromante, scende nelle strade e si affanna a
prevedere futuri prossimi come Miriam quando legge le carte… So che
ci sono molti fan dell’ucronia e dell’antiutopia e cerco
periodicamente di accontentarli, ma poi bisogna trovare
qualcos’altro. Il cyberpunk ha rappresentato, per dieci o quindici
anni, questa alternativa, il diario della rivoluzione informatica, ma
quando ha concluso il suo ciclo ci siamo trovati con il fiatone,
stufi di certi fondali, di certe risorse, delle realtà simulate o
virtuali in serie… Per me, con tutto l’amore per lo steampunk che
è venuto dopo, il core business della fantascienza è pur
sempre il mondo nel suo complesso, intendendo con questo il mondo
fisico e quello percettivo che ce ne dà l’immagine; quando è
possibile, la loro combinazione si risolve nella più solida delle
equazioni narrative o cinematografiche. Faccio due esempi di mie
“scelte ideali”, anche se poi, nella cronaca, sono state fatte da
altri: Solaris di Lem e 2001 di Clarke-Kubrick.
Neuromante di William Gibson ha aperto strade nuove per un
decennio, ma in una visione che resta parziale. Forse un nuovo
Lem, per audacia delle ipotesi, lo abbiamo avuto in Greg Egan, ma è
un autore difficile e non dichiaratamente “umanista”, certo molto
meno del suo predecessore polacco.
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Lo steampunk, che qualcuno ha definito Victorian Futurism... |
DW - Ci dai un tuo parere sulla fantascienza italiana, per esempio sulla
cosiddetta “scuola dell’ucronia”?
GL - Credo
che la fantascienza italiana possa fare molto e non solo nel campo
dell’ucronia, che è uno fra i tanti rami del genere. Basta vedere
quello che si è inventato Dario Tonani dopo la partenza molto
“cyber” e apocalittica della serie di Infect@, per
approdare all’affresco planetario di Mondo 9. Un curatore
non deve influenzare gli autori ma solo apprezzarne i risultati, e
tuttavia a me sembra di poter stimolare i migliori scrittori a
cambiare, a voler sperimentare nuove strade… L’altro importante
filone emerso in questi anni è il fantanoir, il poliziesco
fantascientifico a forti tinte, ma con il tempo bisogna immaginare
nuove possibilità.
DW - Cosa significa “grande fumetto”, italiano e internazionale, per
Giuseppe Lippi?
GL - Il
fumetto al quale sono legato è quello popolare, da edicola, mentre
sono meno abituato alla graphic novel. Il fumetto è un linguaggio
che non ha bisogno di posare ad arte, anzi dà spesso il meglio di sé
quando la cela. Sono un appassionato del racconto per immagini, e per
quanto mi renda conto che l’innovazione sia indispensabile,
prediligo, come in letteratura, il racconto a tutto tondo, meglio se
condito da una dose di humour. Non è qualcosa di legato a un’epoca,
a uno stile: due anni fa ho letto la saga completa di capitan Miki
creata dalla esseGesse
nel 1951 e l’ho trovata godibile, tutt’altro che banale, con
soluzioni geniali anche da un punto di vista contemporaneo. In un
buon fumetto il disegno è la cosa che guardo per prima, ma se la
sceneggiatura non è solida e personale, non ci sono santi: il
risultato sarà azzoppato e le eccezioni sono rarissime… Per
concludere, il miglior fumetto per me è quello che non si propone di
abbagliare o stordire con gli effetti speciali ma di sedurre con
mezzi umani e bravura artigianale. I grandi narratori, in questo
campo, sono stati Lee Falk, Alex Raymond, Hugo Pratt, Gian Luigi e
Sergio Bonelli, le sorelle Giussani, Max Bunker e Magnus, Carl Barks,
Romano Scarpa, Stan Lee, scegli un po’ tu, fino a Charlier, Moebius
e Alan Moore. Un’eterogenea compagnia di talenti visuali e
letterari dai quali non si può prescindere, mentre non posso
pronunciarmi sul mondo dei manga che conosco troppo poco.
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Sotto il segno dell'EsseGEsse: l'originale della copertina di una strisca di Capitan Miki |
DW - Puoi raccontarci quella che è stata la tua esperienza presso la
Sergio Bonelli Editore: gli articoli, gli incontri con gli autori, la
redazione...?
GL - Sergio
Bonelli mi reclutò tra il 1995 e il ’96, proponendomi come
recensore in alcuni casi, altre volte come biografo del fantastico e
del giallo. Ma siccome i miei interessi non si limitano a quei
generi, la redazione mi ha affidato col tempo saggi sull’avventura,
il western e la fantasy-horror. Ho incontrato tante volte il
compianto Sergio, sentendomi affine a lui perché lavorava in
editoria come un appassionato e amava spendere la sua ricchezza
insieme agli altri, amici e collaboratori. Andavamo a pranzo insieme
almeno una volta all’anno, in genere d’estate, ma qualche volta
mi ha rimproverato di non farmi vedere più spesso in via Buonarroti,
e comunque da lui personalmente… Il fatto è che per il lavoro
quotidiano ero agganciato a Graziano Frediani e Luca Crovi, ottimi
colleghi, ed è nel loro ufficio che nascevano le idee per gli
articoli futuri, poi debitamente sottoposte a Sergio Bonelli. Lì ho
conosciuto e stretto amicizia con Alfredo Castelli, Maurizio Colombo,
Antonio Serra, Moreno Burattini, Mauro Boselli eccetera. L’ultima
volta che sono andato a trovare l’editore è stato nel 2011, a fine
giugno o i primi di luglio: con Sergio, Luca e Graziano c’era anche
Davide Bonelli, che di lì a poco avrebbe ereditato la casa editrice
paterna. Per loro ho adottato una formula di scrittura ad hoc: non
tanto idee astratte o la teoria quanto il racconto dei fatti, le
biografie dei grandi autori o dei grandi personaggi dei “generi”
come se fossero nostri contemporanei, creature esistenti al nostro
fianco. Una volta Sergio mi sconsigliò dall’introdurre nozioni
storiche troppo puntigliose: per esempio, il fatto che Giulio Cesare
fosse stato rapito dai pirati sapeva (a detta sua) di manuale
scolastico, qualcosa di troppo distante dai lettori... È un punto di
vista come un altro, ma significava che non bisognava deviare dalla
strada maestra. E la strada maestra era quella della cronaca: la
cronaca di un’avventura.
DW - C'è una domanda che avresti voluto ti fosse stata fatta?
GL - Sì,
quale penso che sia il valore della science fiction e del fantastico
oggi, con l’inflazione del genere nei media. Risponderei che nelle
sue varie accezioni, e quindi dalla fantasy alla sf, il fantastico
non dovrebbe essere inteso come la norma, il surrogato in cui
rifugiarci per scacciare la noia delle ore lavorative (guardate
quello che è successo al cinema, con la progressiva banalizzazione
delle sue tematiche), ma l’eccezione, la scelta consapevole di
qualcosa che rompa l’uniformità dell’esperienza, soprattutto
l’uniformità della fantasia consolatrice e accettata come
stampella della vita vissuta. Negli anni, ho cercato di seguire
questa impostazione sia attraverso le decisioni editoriali che
attraverso i miei interventi scritti, nei quali ho tentato di
delineare il senso di una dimensione alternativa al reale. E il senso
è che, anche quando viene proiettata nei lontani spazi o nelle
pieghe del tempo, è una dimensione che ci appartiene profondamente
purché resti originale, un ricostituente della nostra libertà.
Prediligendo il fantastico ci schieriamo in un campo dove il “nulla”
(cioè l’inesistente) acquista un valore paradossale di speranza e
sfida ai luoghi comuni. Il risultato può essere un mondo allargato,
sensibile sopra il sensibile, le cui possibilità hanno il valore di
nuove scoperte. Il peso schiacciante del qui e dell’ora può essere
alleviato per far posto a una visione artistica. Ce lo fanno capire
molto bene autori del calibro di Jack Finney, Jacques Spitz, John
Crowley o Amanda Prantera, ma anche Joe Lansdale e Valerio
Evangelisti, tutti pubblicati negli ultimi venticinque anni. Ho
scritto abbondantemente su questi temi, con esiti vari: all’inizio
della carriera soprattutto per motivi professionali, mentre poi è
diventata un’esigenza personale. Questa, io credo, è stata
un’evoluzione ulteriore.
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Era questa la sua donna - o una forma di vita aliena? La prima edizione americana (Dell, 1955 - disegno di John McDermott) di uno dei capolavori di Jack Finney (1911 - 1995), L'invasione degli ultracorpi. |
È
perciò che consiglio ai miei lettori di non baloccarsi col
fantastico: il rischio è di trovarsi arricchiti nell’immaginzione
e impoveriti sotto tutti gli altri aspetti. Invece, è importante
formarsi una base di conoscenze ampie, solide ed eterogenee prima di
costruire il proprio angolo nell’immaginario. Amare il fantastico
non significa sottovalutare la realtà, che nel mondo al di qua delle
colline – come il banco del casinò – finisce per vincere sempre.
Fantascienza e fantasia, dunque, come surplus e non negazione:
altrimenti l’incertezza della precaria condizione terrestre
potrebbe prendere il sopravvento sulla nostra vocazione. È evidente,
no?
a cura di Francesco Manetti
N.B. Trovate i link agli altri colloqui con gli autori su Interviste & news!
Grande colpo, Francesco. Un altro tassello della tua invidiabile carriera di critico e curatore.
RispondiEliminaTroppo buono, Giampiero!
EliminaF.
Che belli gli Urania! Davvero intramontabili!
RispondiEliminaP.S. Ottimo lavoro, Francesco!
Imprescindibili: c'è cresciuto insieme Giuseppe e tutti noi!
EliminaF.
Un grande, il Signor Lippi! :-)
RispondiEliminaSenza ombra di dubbio!
EliminaF.
Troppo belle le copertine anni 60-70-80! ^^
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