venerdì 3 novembre 2023

“ENIGMA FRANJU: IL CINEMA DI GEORGES FRANJU”

di Massimo Capalbo

Il mio amico Giorgio Vernocchi, esperto cinefilo e titolare del blog Quando lacittà dorme (nome che è un omaggio all'omonimo e bellissimo noir di Fritz Lang del 1956), ha da poco scritto e pubblicato il suo primo libro: EnigmaFranju: Il cinema di Georges Franju. Come si evince dal titolo, si tratta di un saggio sulla filmografia di Georges Franju (1912-1987), uno dei più eclettici registi francesi. È stato per me un piacere, nonché un onore, scrivere la prefazione di questo libro, che potete leggere qui di seguito:




PREFAZIONE: LA DESTABILIZZAZIONE DEL “NORMALE”

Occhi senza volto” è un pezzo di rivoltante, ruffiana, depravata spazzatura. Ci si chiede cosa pensasse il censore, il giorno in cui ha dato a questo film il certificato X (il certificato che, fino al 1963, impediva nel Regno Unito l'accesso in sala ai minori di 16 anni, Nda). Avrebbe dovuto ordinare di bruciarlo in pubblico in Charing Cross Road. E, in cima al fuoco, avrebbe dovuto gettare i creatori del film, e coloro che hanno ritenuto opportuno farlo uscire in Gran Bretagna.

Così, il 29 gennaio 1960, il quotidiano londinese "Daily Herald" recensiva quello che è oggi considerato non solo il capolavoro di Georges Franju, ma uno dei migliori film horror di sempre, una pietra miliare del genere.

Bisogna dire, tuttavia, che, a parte Occhi senza volto, il resto della produzione di Franju produzione che copre ben cinque decenni non ha ricevuto finora l'attenzione che meritava. Come si legge nell'Introduzione del presente libro, il regista francese è stato trascurato dalla critica, persino da quella del suo Paese. In Italia, com'era prevedibile, su Franju si è scritto ancora meno, e questo rappresenta una ragione più che sufficiente, ma non certo l'unica, per leggere il saggio di Giorgio Vernocchi.


Georges Franju (1912-1987)


L'autore si propone di risolvere ciò che ha scelto come titolo della sua opera: l'enigma Franju, per l'appunto. Tale enigma, che probabilmente spiega la succitata indifferenza dei critici, consiste nell'evidente disomogeneità della filmografia del réalisateur bretone. Essa, infatti, è composta quasi in egual misura da lungometraggi e cortometraggi, da opere ispirate ai grandi autori letterari e ai feuilleton, da prodotti per il grande schermo e prodotti televisivi, da documentari e da racconti con elementi apertamente fantastici, in una serie quasi infinita di contrapposizioni.

La risoluzione dell'enigma è condivisibile (naturalmente, non intendo rivelarla qui), così come appassionante è l'”indagine” compiuta da Vernocchi, ossia la dettagliata analisi dei 32 film di Franju, a cominciare dai già menzionati cortometraggi. Tra di essi, spicca il disturbante Le Sang des Bêtes (1949), un documentario sui mattatoi della periferia parigina che è un pugno allo stomaco in grado di mettere KO lo spettatore più scafato ancora oggi, dopo oltre settant'anni. La morbida e densa fotografia in bianco e nero non attenua affatto l'estrema crudezza delle immagini, che comprendono sgozzamenti, decapitazioni e scuoiamenti; insomma, la “normale” quotidianità dei macellai. Eppure, c’è del rispetto, profondo rispetto, del regista per questi lavoratori, nonostante il risultato della loro opera ci metta a dir poco a disagio.



Le Sang des Bêtes (1949)


Un altro memorabile cortometraggio è Mon chien, che narra la triste sorte del pastore tedesco Pierrot. Mon chien che di sicuro contribuì, assieme a Le Sang des Bêtes, a far guadagnare al Nostro l'etichetta di “cineasta della crudeltà” è intriso di quell’equilibrio tipico di Franju, per cui si può dire che è straziante, eppure in modo sobrio e discreto. Da notare, prosegue Vernocchi, che il tema civico dell’opera, la condanna dell’abbandono degli animali da parte dell’uomo, è esplicita e consapevole e il film […] è del 1955, praticamente venti o trent’anni in anticipo sulle campagne che furoreggeranno in giro per il mondo in seguito.

Dai corti si passa quindi ai lungometraggi, tra i quali è d'obbligo citare La fossa dei disperati (1958), Il delitto di Thérèse Desqueyroux (1962), L'uomo in nero (1963) e, ovviamente, il bellissimo Occhi senza volto (1960). Nel libro viene menzionata spesso la contraddittoria definizione che la regista e critica Claire Clouzot (nipote del grande Henri-Georges Clouzot) diede del cinema di Franju: “realismo fantastico”. Secondo Vernocchi, e non si può che essere d'accordo con lui, Occhi senza volto è proprio l'esempio più compiuto di questa peculiare cifra stilistica. La vicenda narrata che vede uno stimato chirurgo, il dottor Génessier (Pierre Brasseur), rapire, con l'aiuto della sua assistente Louise (Alida Valli), delle giovani donne per staccare loro la pelle del viso e trapiantarla su quello, orrendamente sfigurato, della figlia Christiane (Édith Scob) è immersa in un'atmosfera onirica, ma al tempo stesso è pervasa da una freddezza quasi documentaristica (si pensi alle sequenze delle operazioni chirurgiche). Franju riesce, da un lato, a trattare l'irreale con un massimo di realismo, come disse Jean Cocteau; e, dall'altro, scrive Paolo Mereghetti, trae l'anormale e il terrificante da situazioni quotidiane (e in tal modo, la 2CV di Louise diventa un segnale di morte).


Occhi senza volto (1960)


Il “realismo fantastico” di Franju, unito al suo equilibrio, al talento visionario e all'ansia libertaria (particolarmente significativa, in questo senso, la potente denuncia dell'istituzione manicomiale che sta al centro de La fossa dei disperati) fanno di lui un regista unico, un autore forse non imprescindibile, ma di sicuro dall'indiscutibile valore.


Massimo Capalbo


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