Tex: L'Eroe e la Leggenda, da Romanzi a Fumetti n. 11 (SBE, 2015) |
E
voi chiamate selvaggi i Choctaw, i Creek, i Chickasaw, i Cherokee, i
Seminole? Ma sono le cinque tribù civili; avevano le loro leggi, la
loro religione…
dal
romanzo Cimarron di Edna Ferber (1929)
…gli
indiani non capiscono mai i bianchi, e viceversa.
dal
romanzo Il Piccolo Grande Uomo di Thomas Berger (1964)
1949-1953: Indiani orfani e indiani bianchi
Pow-Wow Smith, su Western Comics n. 43 (DC, 1954) |
Alla fine degli anni ’40, nei fumetti americani cominciarono ad apparire sia eroi indiani vestiti come i bianchi che eroi bianchi vestiti come indiani. Sull’albo antologico Detective Comics n° 151 del settembre 1949, lo scrittore Don Cameron e il disegnatore Carmine Infantino crearono il personaggio di Pow-Wow Smith, un indiano sioux di nome Ohiyesa che svolge l’attività di sceriffo in una cittadina del West contemporaneo e che quattro anni dopo diventerà il titolare della testata Western Comics, ambientata invece nel passato.
Dan Brand e Tipi, da White Indian n. 11 (Magazine Enterprises, 1953) |
Sempre
nel 1949 la tipica coppia composta da un eroe bianco e una spalla
indiana subì una sostanziale modifica con l’apparizione, in
appendice all’albo western Durango Kid, della serie Dan Brand and
Tipi, disegnata inizialmente da Frank Frazetta e ristampata dalla
Magazine Enterprises in una serie di cinque albi usciti dal 1953 al
1955 (e numerati da 11 a 15), col titolo modificato in White Indian
(Indiano Bianco). Come dice il titolo definitivo, qui il protagonista
Dan Brand, anziché portare un pard indiano nel mondo dei bianchi,
adotta lui stesso la vita e l’abbigliamento dei nativi americani,
unendosi alla tribù del suo giovane amico Tipi.
White Indian, ristampa in volume (Vanguard Productions) |
Quella
che Brand definisce la sua missione è di tentare di fare da tramite
e da paciere tra le due culture, in un’epoca come il XVIII secolo
in cui invece le guerre in terra americana tra Inglesi e Francesi
sfruttavano e alimentavano le inimicizie tra le varie nazioni
indiane, mettendole le une contro le altre, oltre che contro i
bianchi della parte avversa. L’ambientazione iniziale è quindi
molto simile a quella de L’Ultimo dei Mohicani, ma qui i
protagonisti finiranno per parteggiare per i ribelli anti-inglesi
all’epoca della Rivoluzione Americana.
Con
White Indian si inaugurò il filone dei bianchi che diventano veri e
propri membri di tribù indiane, un filone che trae ispirazione da
casi storici reali, poiché gli Indiani avevano davvero l’abitudine
di adottare sia membri di altre tribù che di gruppi etnici diversi.
Si conteranno molti altri esempi di indiani bianchi in albi
successivi, usciti dal 1950 in poi, e non solo nei fumetti ma anche
nella letteratura e nel cinema.
Indian Country di Dorothy M. Johnson (Ballantine Books) |
Proprio
nel gennaio 1950 la scrittrice Dorothy Marie Johnson pubblicò sulla
rivista Collier il racconto A Man Called Horse (Un Uomo Chiamato
Cavallo), in cui un aristocratico di Boston è catturato da una tribù
indiana, reso schiavo e usato come animale da soma. Poi però riesce
a integrarsi nella vita del villaggio, impara a comprendere e
rispettare la cultura di chi lo tiene prigioniero e si guadagna a sua
volta il loro rispetto nel modo più duro. Riconquista la dignità e
la libertà perdute uccidendo degli indiani nemici e impossessandosi
dei loro cavalli, sposa la figlia del proprio ex-padrone e diventa un
membro accettato della tribù.
Il
racconto era forse troppo avanti per l’epoca, nel rispetto che
mostra nei confronti dei Nativi Americani, visto che il bianco non li
assoggetta alla propria cultura, ma è lui a convertirsi alla loro.
Nel 1958 A Man Called Horse fu adattato in un telefilm della serie
Wagon Train, ma il cinema, in cui iniziavano ad apparire le prime
pellicole moderatamente filo-indiane, non sembrava ancora interessato
a soggetti così impegnativi. Solo nel 1968 la storia della Johnson
sarà ristampata nella sua raccolta Indian Country (Paese Indiano) e
poco dopo adattata per lo schermo dal regista Elliot Silverstein, con
Richard Harris come protagonista.
Un Uomo Chiamato Cavallo, poster originale (1970) |
Il
film Un Uomo Chiamato Cavallo uscirà nel 1970 e il successo sarà
tale che saranno realizzati due seguiti.
Alla
fine del primo film, l’ex-cacciatore inglese John Morgan guida
vittoriosamente in battaglia i suoi nuovi amici Sioux contro un
attacco dei loro nemici Shoshoni, guadagnandosi così il diritto di
tornare in Inghilterra, seguito da alcuni guerrieri. L’ex-prigioniero
bianco, forte dell’esperienza bellica di secoli, finisce per
insegnare agli Indiani solo un’efficace tattica di combattimento,
ma essendosi adattato alla vita tribale, colui che si riteneva più
civile ha scoperto un modo di vivere diverso, forse più duro, ma non
necessariamente inferiore.
Il
film infatti è interessante soprattutto dal punto di vista
etnologico, nel ricostruire dal di dentro attività quotidiane e
rituali tipici dei Sioux, come la tortura auto-inflitta della Danza
del Sole con cui l’aspirante guerriero dimostra il proprio valore,
in modo da essere accettato nella tribù e potersi sposare. Tra
l’altro è la prima volta che gli indiani parlano sempre e soltanto
nei loro idiomi autentici per tutta la durata di un film.
Ma
in quel gennaio 1950 in cui era uscito il racconto che lo avrebbe
ispirato, fumetti e cinema avevano ancora parecchia strada da fare,
prima di arrivare a descrivere in modo così efficace la vera cultura
indiana.
Straight Arrow n. 1 (Magazine Enterprises, 1950) |
Ci
provò, ma in modo inevitabilmente ancora ingenuo, la testata a
fumetti Straight Arrow (Freccia Dritta), pubblicata dalla Magazine
Enterprises dal febbraio del 1950. Si basava sull’omonima serie
radiofonica scritta da Sheldon Stark e trasmessa per quasi trecento
episodi tra il 1948 e il 1951 e non era dedicata a un bianco adottato
dagli indiani ma a un indiano rimasto orfano e adottato dai Bianchi. Straight Arrow è infatti figlio di un guerriero comanche e
a dieci anni resta il solo superstite del suo villaggio, dopo una
strage compiuta da una banda di criminali composta sia da bianchi che
da indiani. Il ragazzo giunge ferito al ranch degli Adams che lo
allevano come loro figlio dandogli il nome di Steve. Alla morte dei
genitori adottivi Steve Adams ne eredita la proprietà e la chiama
Broken Bow Ranch (Ranch Arco Spezzato), riuscendo a integrarsi nella
società dei bianchi solo perché si fa passare per uno di loro, ma
non scorda le proprie origini e quando è necessario riprende la sua
vera identità di Straight Arrow per affrontare criminali o altre
minacce.
Straight Arrow n. 55 (Magazine Enterprises, 1956) |
La
serie è in pratica una variante western del tema dell’identità
segreta, con cui in quegli anni editori e produttori cercavano di
sostituire i giustizieri con super-poteri, che dopo la fine della
guerra non vendevano più. Si può notare infatti che il
protagonista, un indiano che nella vita di tutti i giorni finge di
essere un bianco, ha qualcosa in comune con Superman, che è un
alieno che finge di essere un terrestre. Il fatto poi che si cambi
d’abito in una caverna dove tiene il suo cavallo, ricorda
facilmente sia Zorro che Batman.
Tra
l’altro Straight Arrow, che tra il 1950 e il 1951 uscì anche in
strisce giornaliere, fu sceneggiato per lo più dallo scrittore
Gardner Fox, specializzato proprio in fumetti di super-eroi e romanzi
di fantascienza.
La
serie a fumetti di Straight Arrow durò fino al n°55 del 1956 e
parallelamente apparve con altri personaggi anche sui ventisei numeri
nella collana Straight Arrow Comics, oltre che sull’albo antologico
Best of the West.
Buffalo Bill e Cheyenne Kid (Audace, 1951) |
I
disegni di Straight Arrow erano di Fred Meagher, autore sempre dal
1950 anche di un’altra importante serie western a strisce, quella
di Buffalo Bill. Anche questi era in buoni rapporti con una tribù
appartenente alla nazione Cheyenne, poiché nel primo episodio fece
amicizia col giovane figlio del capo, chiamato con ben poca fantasia
Cheyenne Kid (Ragazzo Cheyenne), che divenne subito il suo fedele
compagno d’avventure.
Questa
versione di Buffalo Bill apparve in Italia in una serie di albi a
striscia, pubblicata dall’Audace nel 1951.
Indians n. 1 (Fiction House, 1950) |
Un
altro bianco adottato dai pellerossa fu Manzar the White Indian,
alias Dan Carter, apparso dal n°1 della testata Indians – Picture
Stories of the First Americans (Indiani – Storie per Immagini dei
Primi Americani), una collana antologica dedicata esclusivamente a
fumetti sui Nativi Americani, pubblicata dal 1950 dalla Fiction House
e durata fino al n°17 del 1953. Ogni albo di Indians ospitava cinque
episodi di contenuto diverso. Vi apparvero Lone Wolf the Avenger
(Lupo Solitario, il Vendicatore), Orphan the Wild Pony (Orfano, il
Pony Selvaggio), Starlight of the Hurons (Luce di Stelle degli Uroni)
e Long Bow Blackfoot Boy (Lungo Arco, Ragazzo Piede Nero), che dal
1951 fu anche protagonista di una propria testata durata nove numeri.
Indians n. 10 (Fiction House, 1952) |
Anche
negli USA evidentemente i giovani lettori si identificavano più
facilmente con eroi loro coetanei. Long Bow infatti è un
giovane piede nero rimasto orfano quando dei guerrieri della nazione
nemica dei Corvi gli uccidono i genitori. Suo padre prima di morire
gli affida il proprio grande arco, che il ragazzo maneggia a fatica
ma con cui riesce ugualmente a vendicarsi, salvando inoltre un uomo
bianco che diventa suo amico.
Di
Long Bow tra il 1960 e il 1963 uscì un’edizione inglese di
trentuno numeri, molti più di quella americana, poiché conteneva
anche storie di Long Bow e di altri personaggi apparse
originariamente su Indians.
La collana Four Color Comics sul n. 290 (Dell, 1950) tiene a battesimo la serie The Chief |
The Chief, ottiene una serie regolare, ribattezzata Indian Chief . Questa la cover del n. 12 (Dell, 1953) |
Poco dopo l’uscita di Indians, nell’agosto 1950 il n°290 della collana Four Color della Dell-Western ospitò il primo albo della testata The Chief (Il Capo), scritta inizialmente da Gailord DuBois e anch’essa dedicata a storie western con protagonisti indiani. Dovette avere un certo riscontro di pubblico, visto che col n°2 dell’aprile 1951 divenne una serie regolare trimestrale, il cui titolo cambiò dal terzo numero in Indian Chief.
Tra
i primi personaggi di Indian Chief, le cui avventure furono disegnate
anche dall’italiano Alberto Giolitti, ci furono White Wolf e Moon
Maiden (Lupo Bianco e Giovane Luna), una coppia composta da un
cacciatore pawnee e sua moglie, appartenente alla nazione irochese
degli Onondaga, alle prese coi problemi quotidiani della vita di
frontiera. Dal n°12 del 1953 subentrò invece come personaggio
principale il capo indiano White Eagle (Aquila Bianca), in storie che
furono disegnate prima da Morris Gollub e poi da John Buscema.
L’aspetto di questo personaggio anticipava in qualche modo il
successivo e ben più longevo Turok. Infatti la collana Indian Chief,
e quindi anche la serie di White Eagle, si conclusero infine col
n°33, nel 1959.
Il Passo del Diavolo, poster originale (1950) |
Intanto
tra luglio e settembre 1950 erano usciti i primi due film in cui
cambiò radicalmente l’atteggiamento verso gli indiani, The Broken
Arrow (L’Amante Indiana) di Delmer Daves e soprattutto Devil’s
Doorway (Il Passo del Diavolo) di Anthony Mann. Erano antirazziste
anche le storie d’amore raccontate, ne L’Amante Indiana tra un
bianco e una giovane apache e ne Il Passo del Diavolo tra uno
shoshone e una donna bianca.
Nella
prima pellicola, ispirata a precisi fatti storici, lo scout Tom
Jeffords interpretato da James Stewart avvia i primi negoziati di
pace cogli Apache di Cochise, invitando al dialogo e alla convivenza
tra culture diverse, ma la seconda costituisce una ancor più netta
denuncia del razzismo verso i nativi a tutti i livelli.
Robert Taylor (a sinistra) è lo Shoshone Lance Poole ne Il Passo del Diavolo |
L’indiano
Lance Poole interpretato da Robert Taylor ne Il Passo del Diavolo è
infatti un ex-soldato che, dopo aver combattuto nella Guerra di
Secessione ed essere stato decorato, torna nel Wyoming per trovarsi
assediato dall’intolleranza dei Bianchi, che gli negano anche il
diritto di bere in un saloon. Un medico rifiuta addirittura di curare
suo padre, che di conseguenza muore, mentre un affarista pretende di
portargli via la sua terra, attraverso una violenta e pretestuosa
aggressione razzista messa in atto contro l’intera comunità
shoshone, nonostante le proteste della coraggiosa donna avvocato
interpretata da Paula Raymond.
Con
una storia in fondo semplice, il film quindi sintetizza e denuncia,
oltre ai singoli atti razzisti, tutta la questione dei sistematici e
continui espropri ai danni dei nativi messi in atto per lungo tempo,
anche con leggi su misura, non solo dalle singole comunità dei
coloni bianchi, ma dallo stesso governo degli Stati Uniti.
Apache Kid n. 8 (Atlas, 1951) |
Un
paio di mesi dopo l’uscita de Il Passo del Diavolo, la casa
editrice Atlas Comics, con minori pretese, pubblicò un fumetto su un
ennesimo indiano bianco, che come Lance Poole vive a metà tra le due
culture. Apache
Kid apparve sull’albo Two-Gun Western n°5 del novembre 1950, in
una storia disegnata da un giovane John Buscema, e dall’anno
seguente divenne titolare di una sua testata realizzata da altri
disegnatori e durata per diciannove numeri, usciti in modo
discontinuo fino al 1956. L’eroe della serie non ha niente in
comune col personaggio storico Apache Kid (uno scout apache
ribellatosi all’esercito e apparso anche in una storia di Tex), ma
è il bianco Alan Krandall, allevato da un capo apache dopo essere
rimasto orfano, che usa l’appartenenza alle due culture come
un’identità segreta, vivendo tra i bianchi come un comune cowboy,
sotto il falso nome di Aloysius Kare, e indossando il suo costume di
guerra indiano per affrontare i criminali.
Apache Kid n. 11 (Atlas, 1954) |
Apache
Kid combatte e protegge tanto i Bianchi quanto gli Indiani, e la sua
imparzialità ed equidistanza è confermata e rappresentata
simbolicamente anche dai due comprimari che lo assistono nella serie,
l’anziano capo apache Falco Rosso, suo padre adottivo, e il suo
fratello bianco, il capitano dell’esercito Bill Gregory. Quasi
trent’anni dopo avrà due “padri” simili anche un altro orfano
sospeso tra la cultura dei coloni e dei nativi ma protagonista di un
fumetto italiano, la giubba rossa Piuma Rossa, figlio di un bianco e
un’indiana.
American Eagle di John Severin |
Nel
1951 un indiano dal nome tanto patriottico quanto improbabile di
American Eagle (Aquila Americana), i cui succinti abiti avevano i
colori della bandiera USA, apparve invece come protagonista sull’albo
Prize Comics Western della Crestwood/Pioneer Publications. I disegni
erano di John Severin, che ne realizzò la serie fino al 1953,
sforzandosi di riprodurre costumi e ambientazioni in modo sempre più
realistico, così come erano particolarmente accurati i riferimenti
storici alle nazioni indiane e alle loro alleanze e rivalità.
American
Eagle è un capo dei Corvi, che erano alleati dei Bianchi e nemici di
quasi tutte le altre nazioni delle praterie, e per questo molto spesso
erano loro a fare da scout per l’esercito nel corso delle guerre
indiane. Il contesto della serie è quindi plausibile e l’amicizia
tra l’eroe e i Bianchi ben spiegata, anche se è ovvio che la
maggior parte delle altre tribù non potevano certo considerare come
personaggi eroici, ma piuttosto con disprezzo, quegli indiani che si
mettevano al servizio dei Bianchi, come appunto i Corvi, i Pawnee o
gli Ute.
Swift Arrow n. 1 (Ajax-Farrell, 1954) |
I
super-eroi che furoreggiavano nel decennio precedente erano ormai
stati sostituiti provvisoriamente da altri fumetti, soprattutto
western, e oltre a quelle già citate uscirono negli USA tra il 1950
e il 1956 molte altre testate di vari editori dedicate a nativi
americani, benché di minore durata, come Indian Fighter, Redskin,
Geronimo, Young Eagle, Indian Braves, Red Arrow, Fighting Indians,
Swift Arrow, Warpath e Lone Eagle.
L’indiano Young Eagle (Giovane Aquila), pubblicato dalla Fawcett dal 1950, nell’aspetto ricordava abbastanza Tonto, mentre Swift Arrow (Freccia Veloce), che ottenne il suo albo nel 1954, era il “fratello pellerossa” dell’eroe Lone Rider, con cui costituiva una coppia che era una chiara imitazione di Lone Ranger e Tonto.
Young Eagle n. 1 (Fawcett, 1950) |
L’indiano Young Eagle (Giovane Aquila), pubblicato dalla Fawcett dal 1950, nell’aspetto ricordava abbastanza Tonto, mentre Swift Arrow (Freccia Veloce), che ottenne il suo albo nel 1954, era il “fratello pellerossa” dell’eroe Lone Rider, con cui costituiva una coppia che era una chiara imitazione di Lone Ranger e Tonto.
Kansas Kid, Collana Sparviero, 2a serie, n. 1 (Editrice Cremona, 1949) |
Le
unioni miste e la nascita di meticci, soprattutto figli di un bianco
e un’indiana, erano eventi comunissimi nella Storia del West, anche
per l’iniziale scarsità di donne bianche nelle terre di frontiera,
ma pur essendo testimoniate anche da alcuni dei primi romanzi western
come quelli di May o di Salgari, per quanto riguarda i protagonisti
dei fumetti o dei film furono accuratamente evitate fino alla fine
degli anni ’40 del ‘900.
Nel
fumetto western italiano, il primo eroe meticcio, figlio del
pistolero Wild Bill Hickock e di una principessa sioux, era stato
Kansas Kid, realizzato dal 1948 da Carlo Saccarello e Carlo Cossio e
uscito sulla Collana Sparviero dell’editrice Cremona, in due serie
rispettivamente di cento e di cinquantatre numeri. Viste le sue
origini, nelle sue storie gli indiani erano rappresentati in modo
particolarmente rispettoso, a differenza di altri albi dell’epoca,
anche se come tutti gli eroi del West doveva spesso affrontare delle
tribù in fermento. Kansas
Kid fu poi riproposto dall’editrice Zenit nel 1952, dall’editrice
Selene nel 1955 e dalla Corno dal 1963. Una ristampa amatoriale delle sue avventure è inoltre stata pubblicata dalla Dardo nel 1995.
Kansas Kid, serie dakota n. 1 (Ed. Corno, 1963) |
Silver Gek su Kinowa Raccolta n. 2 (Dardo, anni '50) |
Da noi il primo importante eroe bianco allevato dagli indiani fu invece Silver Gek, che apparve fin dai primi episodi nella serie Kinowa, iniziata nel 1950 coi testi di Andrea Lavezzolo (che si firmava A. Lawson) e i disegni del gruppo EsseGEsse, composto da Giovanni Sinchetto, Dario Guzzon e Pietro Sartoris.
L’iniziale
protagonista di Kinowa è Sam Boyle che, poiché la sua famiglia è
stata massacrata dagli indiani e lui è stato scalpato e lasciato per
morto, si vendica indossando una maschera demoniaca di pelle d’anatra
(un dettaglio ispirato a un episodio di Prince Valiant) e uccidendo
tutti i pellirosse che incontra, di ogni tribù. Quando porta la
maschera gli indiani lo chiamano Kinowa, che dovrebbe significare
Uomo-Spettro, mentre quando li combatte col suo vero volto, in
qualità di scout dell’esercito, è chiamato da loro lo Scalpato.
Kinowa n. 1 (Dardo 1950) |
Con
tali premesse, Kinowa sembra tutto tranne una serie filo-indiana.
Infatti la maggior parte dei Nativi Americani sono qui ancora visti
in modo piuttosto razzista, come selvaggi subdoli, infidi e malvagi.
Boyle però non sa che il sakem dei Pawnie invece di uccidere il suo
figlioletto Jack lo ha adottato, cosicché, una volta cresciuto, è
diventato un guerriero della tribù, nemico giurato dell’assassino
di indiani Kinowa. Jack intende ucciderlo non sapendo che è suo
padre, per cui si infiltra tra i bianchi col nome di Silver.
In
questa sorta di feuilleton western è Silver Gek a permettere un
certo cambiamento di prospettiva, fin dalle scene in cui attraverso
di lui si accenna a vaghi elementi di spiritualità e lealtà
indiana. Dopo che padre e figlio diventano amici, per poi
riconoscersi, la loro reciproca influenza fa uccidere un po’ meno
indiani a Sam Boyle e soprattutto attenua l’odio di Silver verso i Bianchi. I due si ripromettono addirittura di combattere le
ingiustizie senza più badare al colore della pelle per portare la
pace nei territori indiani, obiettivo che non potranno realizzare
insieme a causa dell’apparente morte di Kinowa, o meglio di Sam
Boyle. Dopo la sua scomparsa l’eroe della serie diventa Silver Gek
e proprio suo padre morente, lo spietato uccisore di indiani, ne
benedice l’unione con la giovane indiana Pallida Aurora (o Luna
Sorgente), sua compagna d’infanzia.
Kinowa Raccolta n. 1 (dardo, anni '50) |
La
saga di Kinowa e Silver Gek uscì per la prima volta in una serie di
albi quadrati dell’editrice Dardo, che poi l’ha riproposta molte
volte e in vari formati, nel 1952, nel 1958, nel 1964 e nel 1976, in
quest’ultima edizione sotto forma di albo bonellide. L’ultima
riedizione, in ventotto albi di grande formato, è uscita nel 1990.
Dopo
l’abbandono dei tre dell’EsseGEsse, che dal 1951 furono
naturalmente sempre più assorbiti dalla realizzazione del loro
Capitan Miki, i disegni della serie di Kinowa furono portati avanti
da Pietro Gamba.
Kinowa n. 4 (Dardo, 1990) |
Anche
nella realtà storica, uno dei modi principali in cui un bianco
poteva entrare a far parte di una tribù, oltre a quello di essere
adottato da bambino, era naturalmente il matrimonio con una donna
indiana.
Tex 2a serie, n. 38 (Audace, 1950) |
Se
nei romanzi c’erano già state unioni multirazziali, come quella
forzata tra il colonnello Devandel e l’indiana Yalla nel ciclo del
West di Salgari, nei fumetti il primo eroe bianco a sposare
un’indiana fu Tex, che in un noto episodio dell’agosto 1950 si
unì alla principessa navajo Lilyth, quasi in contemporanea con il
film L'Amante Indiana, uscito negli USA il mese precedente ma
distribuito in Italia qualche mese dopo, in cui è lo scout Tom
Jeffords a sposarsi con la giovane apache Sonseeahray
con
la benedizione del capo Cochise.
Tex e Lilyth, dalla Collezione Storica a Colori n. 4 (2007) |
Tex
si distingueva così in senso antirazzista da altri eroi dei mass
media, come Tarzan e Phantom, che pur regnando su popoli indigeni
intraprendono lunghi e difficoltosi viaggi pur di procurarsi una
moglie bianca.
Dopo
la nascita del figlio Kit e la morte di Lilyth (che, anche se i
dettagli si sapranno molti anni dopo, ricorda un po’ quella di
Minnehaha nel poema The Song of Hiawatha), Tex iniziò ad
accompagnarsi al guerriero Tiger Jack, il cui nome ricordava quello
del Silver Gek apparso poco prima su Kinowa, e con lui costituì per
breve tempo una coppia sul tipo di quelle di Old Shatterhand-Winnetou
e Lone Ranger-Tonto.
Tex e Tiger Jack, su Tex Gigante n. 51 (Araldo, 1964) |
Tex Gigante n. 91 (Araldo, 1968) |
Il fatto che poi un bianco come Tex sia diventato capo supremo di tutti i Navajos (un ruolo di potere simile a quello di Winnetou) evoca facili reminiscenze neocolonialiste ma, benché abbia spesso combattuto contro indiani aggressivi, Tex ha spesso anche preso le difese dei popoli rossi, che fossero i suoi fratelli di sangue o altri. Se dei popoli nativi sono accusati di colpe non loro o aggrediti ingiustamente dai bianchi, Tex si oppone fermamente a ogni sopruso fino ad arrivare in certi casi a schierarsi apertamente contro lo stesso esercito degli Stati Uniti, a partire da episodi memorabili e ormai classici come Sangue Navajo e Vendetta Indiana.
Tex Quindicinale n. 33 (Audace, anni '50) |
Tex Serie Gigante n. 3 (Audace, 1954) |
In
fondo Tex, a dispetto della sua carica di ranger e agente indiano,
può benissimo essere considerato un “indiano bianco” come Dan
Brand o Apache Kid, ovvero un americano adottato da una nazione
indiana, come appare più evidente quando vediamo lui e suo figlio
Kit in costume navajo, al villaggio in cui vivono. Tra l’altro il
nome indiano di Kit, Piccolo Falco, ha un precedente illustre. È lo
stesso di un famoso e valoroso guerriero sioux che combatté a lungo
contro i bianchi e per la precisione il fratello di Cavallo Pazzo.
Riguardo
invece al nome indiano di Tex, Aquila della Notte, non può essere un
caso se ricorda quelli di due personaggi di Emilio Salgari.
Chiaramente è ottenuto dalla fusione dei nomi Aquila Bianca e
Uccello della Notte. Il primo è un capo Irochese la cui storia ha di
certo ispirato anche l’episodio del matrimonio di Tex.
Romanzo apocrifo ispirato al racconto di Salgari Aquila Bianca (Sonzogno, 1936) |
Nel
racconto che porta il suo nome, Aquila Bianca vive infatti una
situazione identica a quella vissuta da Tex al palo della tortura,
compreso perfino il bersaglio circolare disegnato sul petto e,
esattamente come lui, prima di essere colpito viene salvato in
extremis dalla figlia del capo dei suoi aggressori con cui poi si
sposa.
Il
nome Uccello della Notte è stato invece usato da Salgari sia per lo
scorridore apache protagonista del suo racconto Il Bisonte Nero, che
per il figlio nato dall’unione tra Devandel e Yalla che appare nel
romanzo Le Frontiere del Far West. E sono tutti testi che
naturalmente GianLuigi Bonelli non poteva non conoscere…
Aquila Bianca n. 1 (Editrice A.R.C., 1949) |
Il
nome Aquila Bianca fu anche quello della seconda eroina indiana
protagonista di un albo a fumetti italiano. La prima era stata Penna
Azzurra di Pini Segna, pubblicata dall’Editoriale Sportiva nel
1947. I testi di Aquila Bianca erano invece di Gian Giacomo Dalmasso
e i disegni di Enzo Magni, già autori nel 1948 di Pantera Bionda. Fu
certo per bissarne il successo che nel ‘49 crearono questa
principessa dei pellerossa dal costume quasi altrettanto succinto,
per i canoni dell’epoca, tanto che già dal n°1 si intravede un
piccolo intervento auto-censorio, con l’aggiunta sotto il suo abito
di una sorta di sottoveste. Quella di Aquila Bianca rimaneva comunque
una specie di minigonna ante litteram, ma non la indossò a lungo.
Come per Pantera Bionda, intervenne di certo una pesante censura,
visto che anche il suo abito si allungò sempre più e le ginocchia e
le spalle, dapprima nude, della bella indiana furono inesorabilmente
coperte. Eppure a parte l’innocua civetteria di quei pochi
centimetri di pelle nuda, che forse a quei tempi poteva davvero
attirare l’attenzione dei ragazzini più grandi, nelle sue storie,
come in quelle di Pantera Bionda, non c’è niente di scabroso.
Aquila Bianca n. 29 |
Aquila
Bianca e il suo atletico amico Erwo, membri dell’immaginaria tribù
indiana dei Castori, non fanno nulla di spinto (almeno mentre i
lettori li guardano…). Più che altro cercano di mantenere la pace
tra indiani e bianchi, anche con l’aiuto del cane Lip che somiglia
a Rin Tin Tin. Nonostante ciò lo stesso tipo di censura, oggi
davvero ridicola e dovuta a un certo bigottismo di marca cattolica,
fu applicata in modo pesante fin dal n°1 anche nell’edizione di
Aquila Bianca uscita subito dopo in Francia, col nome di Gazelle
Blanche (Gazzella Bianca). Anche grazie a quest’edizione francese
quasi contemporanea, la serie ebbe comunque un certo successo.
Infatti in Italia Aquila Bianca fu sospesa provvisoriamente col n°28,
mentre oltralpe proseguì.
Gazelle Blanche n. 1 (Editrice Sage, 1949) |
Tra
i primi eroi indiani titolari di una testata italiana si può citare
anche il giovane capo Yabù, realizzato da Armando Bonato a partire
dal 1950 e pubblicato dalle Edizioni Alpe, in due serie
rispettivamente di trenta e dodici numeri, fino alla fine del 1953.
Yabù, come Aquila Bianca, soffre ancora di una disinvolta
approssimazione nell’iconografia dei costumi, spesso troppo ricchi
e ricercati per degli indiani delle pianure.
Come
accadeva al cow-boy statunitense Red Ryder, anche nei fumetti western
italiani dei primi anni ’50 poteva poi capitare che dei piccoli
orfani nativi fossero adottati da un eroe bianco a cui facevano da
spalla.
Rocky Rider di Mario Uggeri |
È
il caso del quasi omonimo Rocky Rider, uno sceriffo creato nel 1951
da Luigi Grecchi e Mario Uggeri sui supplementi de L’Intrepido.
Questi adotta una piccola indiana di nome Fiore e un monello bianco
di nome Golia, che a sua volta ammira talmente i pellerossa da girare
sempre in costume indiano e col copricapo di penne in testa, un po’
come tanti bambini degli anni ’50 che quindi potevano facilmente
identificarsi con lui.
Oklahoma!, 13° episodio, Albo d'Oro n. 366 (Mondadori, 1952) |
Un
altro piccolo indiano adottato invece da un ufficiale sudista è
Oklahoma, nell’omonima serie a puntate pubblicata dal 1952 sugli
Albi d’Oro di Mondadori, con testi di Guido Martina e disegni di
Raffaele Paparella e altri. Il ragazzo è comunque coinvolto in una
vicenda del tutto estranea alle tradizioni indiane, essendosi assunto
il compito, alla morte del padre adottivo, di portare in salvo un
pezzo della bandiera confederata.
Forte Arco il Mohawk, da Ögan n. 5 (Dardo, 1965) |
Un
ennesimo eroe bianco che poco dopo la metà dell‘800 viene adottato
dagli indiani è Strongbow the Mohawk (Forte Arco il Mohawk), ideato
dall’editore inglese Edward Holmes e apparso per la prima volta nel
1953 sulla rivista Comet dell’editrice Allen, con i testi di Mike
Butterworth e i disegni di Geoff Campion.
Il
protagonista, perdutosi nella prateria da bambino, fu raccolto da un
capo mohawk che poi lo chiamò Forte Arco, perché riuscì a tendere
un arco sacro. Dopo che il loro villaggio fu distrutto dall’esercito,
il giovane Strongbow, unico sopravvissuto al massacro, fu trovato e
curato dal medico texano Ted Barnaby, che lo fece passare per suo
figlio e gli fece studiare Medicina all’università. L’ex-indiano
bianco divenne così il dottor Jim Barnaby, nonché un atleta
sportivo campione di boxe. Anche il suo secondo padre adottivo fu
però ucciso, stavolta dai Comanche, e Strongbow decise di riprendere
la sua identità indiana per combattere e vendicare le ingiustizie da
chiunque fossero compiute, conservando però anche l’identità del
dottor Jim Barnaby.
Strongbow The Mohawk su Comet (1953) |
Il
personaggio di Strongbow, che tiene nascosti arco e costume da mohawk
dentro un albero sacro e che nel meccanismo dell’identità segreta
ricorda molto Straight Arrow e Apache Kid, pur nella semplicità di
un eroe degli anni ’50 è piuttosto sfaccettato, con qualità utili
sia per un guerriero che per un uomo di pace e con sentimenti privi
di parzialità del tutto equidistanti tra il mondo dei bianchi e
quello degli indiani.
Strongbow
uscì su Comet fino al 1957 e le sue ultime avventure furono
retrodatate alla prima metà dell’800, il ché gli permise di
diventare amico di due famosi eroi, l’Occhio di Falco protagonista
de L’Ultimo dei Mohicani e il personaggio storico Davy Crockett,
coi quali visse avventure particolarmente fantasiose.
In
una nuova versione uscita sulla rivista Swift, Strongbow fu poi
ribattezzato Blackbow the Cheyenne (Arco Nero lo Cheyenne) e le sue
avventure tornarono a svolgersi dopo la Guerra di Secessione. Il nome
fu cambiato per evitare problemi con la marca di liquore Strongbow,
mentre l’appartenenza etnica fu modificata per motivi di
verosimiglianza storica, visto che i Mohawk vivevano molto lontani
dal Texas e dal West.
In
questo periodo delle storie di Blackbow furono disegnate
dall’italiano Pini Segna e pubblicate da noi prima dalle Edizioni
della Bilancia e poi dalle Edizioni Pini Segna, col nome modificato
in Blah Bow o Blak Bow.
Forte Arco, Occhio di Falco e Davy Crockett, da Avventura Gigante n. 21 (Dardo, 1972) |
Nel
1963 Blackbow cambiò ancora editore, approdando sul giornale Eagle
dell’editrice Fleetway, con storie scritte da Edward Cowan e
disegnate da Frank Humphris e Don Lawrence. La Fleetway continuò a
pubblicarlo fino al 1969 e lo esportò anche in Francia e in Italia,
dove già uscivano i suoi fumetti di guerra.
Tra
gli anni ’60 e ’70 Forte Arco il Mohawk fu così edito da noi
dalla Dardo, che lo pubblicò, traducendone il nome originale, in
appendice a Ögan il Principe Vichingo e sulla collana antologica
Avventura Gigante.
1953-1955:
Dalla parte del nemico
Se
alcuni dei primi eroi indiani dei fumetti erano in realtà dei
bianchi adottati, nei primi film più o meno filo-indiani dello
stesso periodo erano degli attori bianchi a interpretare il ruolo del
pellerossa protagonista.
Nella trilogia composta dai film The Broken Arrow (L’Amante Indiana), The Battle at Apache Pass (Kociss l’Eroe Indiano) e Taza Son of Cochise (Il Figlio di Kociss), usciti dal 1950 al 1954, il famoso capo degli Apache Chiricahua è interpretato dal grintoso attore Jeff Chandler e suo figlio Taza da un più spaesato Rock Hudson. Come si è detto, nel primo dei tre titoli James Stewart è Tom Jeffords (nel film uno scout, nella realtà storica il proprietario di una linea di diligenze), uno dei primi eroi western che, avviando le trattative cogli Apache e poi sposando una di loro, si guadagna l’accusa d’essere un rinnegato colluso col nemico, ma nonostante ciò è chiaro che è lui a stare dalla parte giusta (non quella degli Apache ma quella della pace), una bella differenza rispetto agli eroi ammazza-indiani senza neanche un dubbio dei tanti western precedenti.
L'Amante Indiana, poster originale (1950) |
Kociss, l'Eroe Indiano - poster originale (1952) |
Nella trilogia composta dai film The Broken Arrow (L’Amante Indiana), The Battle at Apache Pass (Kociss l’Eroe Indiano) e Taza Son of Cochise (Il Figlio di Kociss), usciti dal 1950 al 1954, il famoso capo degli Apache Chiricahua è interpretato dal grintoso attore Jeff Chandler e suo figlio Taza da un più spaesato Rock Hudson. Come si è detto, nel primo dei tre titoli James Stewart è Tom Jeffords (nel film uno scout, nella realtà storica il proprietario di una linea di diligenze), uno dei primi eroi western che, avviando le trattative cogli Apache e poi sposando una di loro, si guadagna l’accusa d’essere un rinnegato colluso col nemico, ma nonostante ciò è chiaro che è lui a stare dalla parte giusta (non quella degli Apache ma quella della pace), una bella differenza rispetto agli eroi ammazza-indiani senza neanche un dubbio dei tanti western precedenti.
Il figlio di Kociss, poster originale (1954) |
Tutte
e tre le pellicole prendono spunto da fatti storici e mostrano il
punto di vista dei nativi più di quanto accadesse in passato, ma
nella terza, nonostante le buone intenzioni e il coinvolgimento di
veri pellirosse, si ricade nella facile e ipocrita distinzione tra
indiani cosiddetti buoni come Taza, disposti a lasciarsi rinchiudere
nelle riserve, e indiani considerati cattivi come Geronimo, solo
perché combattono a oltranza piuttosto che cedere agli invasori. Tra
l’altro, nel film Kociss l’Eroe Indiano il “cattivo” Geronimo
è l’attore irochese Jay Silverheels, che nello stesso periodo
interpretava anche l’indiano “buono” Tonto nei telefilm di Lone
Ranger.
Kocis, il Re dei Pellerossa (Tomasina Editore, 1967) |
In
Italia la trilogia cinematografica su Kociss ispirò più o meno
direttamente due o tre serie a fumetti scritte da Gianluigi Bonelli.
I suoi primi albi a striscia intitolati a Kocis (scritto con una sola
esse) furono pubblicati dal 1953, cioè proprio l’anno seguente
all’uscita del film Kociss l’Eroe Indiano, dall’editrice
Tomasina, che già tre anni prima aveva prodotto una serie di
cinquantuno albi a striscia su un indiano di nome Aquila Rossa.
Zà La Mort n. 1 (Audace, 1953) |
Sempre
nel 1953 Gianluigi Bonelli creò invece per l’Audace l’eroe
indiano Zà la Mort, disegnato da Pietro Gamba. Il nome del
personaggio era ripreso da quello di un criminale giustiziere del
cinema muto, ma qui si tratta di un apache bronco che lotta contro i
bianchi in difesa dei suoi fratelli rossi. All’inizio della serie
sono citati come suoi amici proprio i protagonisti del film L’Amante
Indiana, ovvero Cocise (scritto senz’acca) e Tom Jeffords, che qui
appare infatti come pard di Zà la Mort, pur essendo uno scout
dell’esercito.
Kociss n. 2, Collana Audace (1957) |
Mentre
i diritti della prima versione di Kocis rimasero all’editrice
Tomasina, che la ristamperà in formato verticale nel 1967, Bonelli
padre dal 1957 pubblicò sugli albi a striscia della Collana Audace
una sua seconda versione a fumetti di Kociss (ora scritto con la
kappa e due esse, come nei titoli italiani dei film statunitensi).
Questa volta il celebre capo apache assomiglia in particolare al
figlio di Kociss interpretato al cinema da Rock Hudson tre anni
prima. Tale aspetto è dovuto anche ai disegni di Emilio Uberti, che
nel raffigurare il torso nudo di Kociss si ispirava chiaramente allo
stile di Burne Hogarth, fondamentale punto di riferimento per
chiunque in quel periodo volesse disegnare delle anatomie atletiche
in modo preciso e dinamico.
Kociss su Tutto West n. 4 (Daim Press, 1987) |
Anche
il Kociss dell’Audace fu poi ristampato in formato verticale, sulla
testata TuttoWest pubblicata dalla Daim Press nel 1987. Lo stesso
personaggio è inoltre riapparso di recente anche in un volume
dell’ANAFI.
El Sargento Kirk, da Misterix n. 226 (Editorial Abril, 1953) |
Il
Sergente Kirk, creato da Héctor Germán Oesterheld e Hugo Pratt e
apparso sulla rivista argentina Misterix dal gennaio 1953, non è
stato adottato dagli indiani da bambino ma da adulto, dopo aver
militato per anni nell’esercito. Compie insomma una scelta di campo
altrettanto controcorrente di Tex, disertando e unendosi a una tribù
indiana trentacinque prima che uscisse il libro Dances with Wolves
(Balla coi Lupi) di Michael Blake, trasposto nel 1990 nel film di
Kevin Kostner. Anche Kirk è bollato dai bianchi come rinnegato al
pari dell’ufficiale protagonista di quel romanzo, ma la sua scelta
di disertare è più meditata e consapevole. Prima ancora di
stringere relazioni cogli indiani infatti, la sua coscienza finisce
per ribellarsi perché non vuole più contribuire a compiere massacri
indiscriminati contro popoli hanno tutti i diritti di difendere le
loro terre.
Indiani comanche, da El Sargento Kirk (1953) |
Kirk
si unirà poi alla tribù dei Tchatooga diventando fratello di sangue
di Maha, il giovane figlio del sakem, e distaccandosi sempre più
dalla sua vecchia vita compirà varie imprese sempre in difesa dei
più deboli, senza badare al colore della pelle e procurandosi la
fama di guerriero giusto e leale anche tra le tribù avversarie.
Può
sembrare curioso che, al contrario di Balla coi Lupi, il sergente
Kirk pur vivendo tra gli indiani continui sempre a indossare la sua
divisa da soldato. Il fatto è che, nonostante le sue scelte, sembra
non aver mai smesso del tutto di considerarsi un militare. A un certo
punto, grazie al suo spirito di abnegazione, riesce addirittura a
ottenere il perdono dal colonnello della sua vecchia guarnigione.
Anzi, cosa più unica che rara, il comandante si assume perfino tutta
la responsabilità per aver schierato i suoi uomini dalla parte
sbagliata.
El Sargento Kirk, da Misterix n. 345 (Editorial Abril, 1955) |
È
poco credibile che una diserzione sia scusata tanto facilmente, ma
così gli autori accomodarono le cose e, poiché i bianchi avrebbero
continuato a odiare Kirk, il colonnello lo invia a esplorare le terre
del Nord-Ovest. Ma anche dopo aver compiuto la missione, Kirk non
tornerà ai suoi doveri di soldato e continuerà a vivere in un ranch
con tre validi pard senza che il suo congedo sia spiegato (forse gli
era solo scaduta la ferma…).
Ma
ciò che più conta è che in quel lungo viaggio, e anche dopo, Kirk
e i suoi tre compagni (l’indiano Maha, l’ex-bandito Corto e il
dottor Forbes) incontrano vari popoli indiani e, se all’inizio sono
quasi sempre costretti a scontrarsi con loro, anche a causa delle
rivalità tra nazioni native, poi finiscono spesso per farseli amici.
Stanco
degli indiani poco realistici dei fumetti e film dell’epoca, Pratt
si preoccupò di rappresentare le nazioni indiane con tratti etnici e
costumi più corretti, differenziando abiti e acconciature così che
ogni popolo si riconosca da particolari caratteristiche, anche se in
qualche caso tali costumi sembrano un po’ arbitrari.
Il Sergente Kirk e Maha |
Comunque
se Kirk riesce a farsi amici i Comanche, i Mandan o i Sioux, dopo
averli combattuti, non è solo grazie a buone intenzioni e saggi
principi, ma anche per averne ottenuto il rispetto in qualità di
valoroso guerriero loro nemico, per cui molte tribù preferiranno
averlo come alleato contro le nazioni avversarie.
Anche gli Cheyenne, che Kirk affronta quando assaltano le carovane dei coloni, ricorrono al suo valido aiuto quando l’ennesimo ufficiale senza scrupoli ne distrugge i villaggi, massacrando donne e bambini, e di fronte a simili soprusi il sergente, al pari di Tex, non esita a mettersi ancora una volta dalla parte dei nativi. Al contrario quando tribù con cui era in buoni rapporti scendono in guerra contro i civili, per le solite violazioni dei trattati da parte dei bianchi, Kirk torna ad affrontarli a fianco dei vecchi commilitoni. In questi casi la generosità del sergente (che quando può evita di uccidere sia bianchi che indiani e non agisce mai in preda all’odio né in modo sleale) fa sì che gli indiani lo rispettino e lo ammirino anche quando lotta contro di loro.
Anche gli Cheyenne, che Kirk affronta quando assaltano le carovane dei coloni, ricorrono al suo valido aiuto quando l’ennesimo ufficiale senza scrupoli ne distrugge i villaggi, massacrando donne e bambini, e di fronte a simili soprusi il sergente, al pari di Tex, non esita a mettersi ancora una volta dalla parte dei nativi. Al contrario quando tribù con cui era in buoni rapporti scendono in guerra contro i civili, per le solite violazioni dei trattati da parte dei bianchi, Kirk torna ad affrontarli a fianco dei vecchi commilitoni. In questi casi la generosità del sergente (che quando può evita di uccidere sia bianchi che indiani e non agisce mai in preda all’odio né in modo sleale) fa sì che gli indiani lo rispettino e lo ammirino anche quando lotta contro di loro.
Sgt. Kirk n. 16 (Ivaldi, ottobre 1968) |
Il
Sgt. Kirk è uscito in Italia per la prima volta sull’omonima
rivista dell’editrice Ivaldi, tra il 1967 e il 1979. Fu poi
ristampato negli anni ’70 dalla Cenisio, prima sull’albo Rin Tin
Tin e Rusty e poi nella collana in formato bonellide Kirk Western. La
saga di Kirk è stata raccolta in volumi da Mondadori e oggi dalla
Rizzoli Lizard. L’ultima edizione, in cinque volumi, è uscita
nella collana TuttoPratt allegata al Corriere della Sera nel 2014.
Osceola ritratto da George Catlin (1830) |
È
un cavalleggero con simili scrupoli anche l’eroe del film Seminole
di Budd Boetticher, uscito negli USA nel marzo 1953 e ispirato alla
storica resistenza dell’omonima nazione indiana guidata dal capo
Osceola, una volta tanto interpretato da un attore con almeno un po’
di sangue indio, il messicano Anthony Quinn.
Seminole, poster originale (1953) |
Il
protagonista del film è però il tenente Lance Caldwell interpretato
da Rock Hudson, un amico d’infanzia di Osceola che è forse il
primo soldato bianco del cinema a prendere le difese degli indiani,
per cui come Kirk sarà considerato un traditore. Ma il vero
tradimento, come si vede nel film, fu compiuto dall’esercito, che
catturò Osceola recatosi a parlamentare. Il fatto è storico e il
capo seminole morì davvero in carcere, ma di malattia o crisi
cardiaca, probabilmente dovute alla durezza della prigionia e alla
depressione che spesso colpiva gli indiani in cattività. Nel film
invece, più comodamente per la coscienza dei bianchi, è ucciso da
un seminole suo rivale che vuole continuare a combattere. Riecco la
distinzione tra l’indiano buono e l’indiano cattivo. Qui però il
bellicoso Kajeck è un guerriero duro ma leale, che salva dalla
fucilazione l’ufficiale Caldwell accusato al suo posto e riporta
tra i suoi le spoglie di Osceola da lui stesso ucciso, per onorarle
degnamente. Perciò occupa il forte coi suoi guerrieri, ma senza
infierire sui soldati che potrebbe sterminare facilmente, in uno dei
pochi finali in cui gli indiani sono vittoriosi e magnanimi mentre la
pace resta lontana.
In
effetti gli ultimi Seminole non si arresero mai e non furono
sconfitti, sia per la loro ostinata resistenza che per il
disinteresse dei bianchi per le inospitali paludi della Florida in
cui furono costretti a rifugiarsi.
Se abbiamo citato il film di Boetticher è anche perché sembra aver ispirato un eroe dei fumetti creato un paio di anni dopo dal disegnatore Warren Tufts, un personaggio che condivide con l’ufficiale interpretato da Rock Hudson in quel film non solo il grado, il taglio dell’uniforme e l’antirazzismo, ma anche il suo stesso nome, Lance, e la fisionomia generale, anche se all’inizio i suoi lineamenti erano quelli dello stesso Tufts.
Se abbiamo citato il film di Boetticher è anche perché sembra aver ispirato un eroe dei fumetti creato un paio di anni dopo dal disegnatore Warren Tufts, un personaggio che condivide con l’ufficiale interpretato da Rock Hudson in quel film non solo il grado, il taglio dell’uniforme e l’antirazzismo, ma anche il suo stesso nome, Lance, e la fisionomia generale, anche se all’inizio i suoi lineamenti erano quelli dello stesso Tufts.
Lance
apparve in tavole domenicali dal 1955 al 1960 e in strisce
giornaliere tra il 1957 e il 1958, in una saga dapprima narrata solo
con didascalie, dallo stile paragonabile a una sorta di Prince
Valiant del West.
Come
il suo precursore cinematografico, Lance St. Lorne è un tenente dei
dragoni del tutto privo di tendenze razziste, anche se nella sua
prima avventura, quando è ancora un giovane ufficiale inesperto e in
cerca di gloria, si scontra imprudentemente con un capo degli indiani
Sac rischiando di scatenare una guerra.
Lance e Kit Carson tra i Kiowa (1956) |
Ma
sia nei flashback della sua giovinezza che nelle successive avventure
in giro per il Nord-America, in cui spesso fa a meno della divisa,
vediamo che in diverse situazioni Lance stabilisce delle relazioni
amichevoli con varie tribù indiane, come quelle di Kiowa, Comanche e
Sioux, prendendo anche parte attivamente alla loro vita quotidiana,
nonostante altre volte non possa invece evitare di battersi, come
contro i Piedi Neri.
Altre
cose che la serie a fumetti di Lance ha in qualche modo in comune col
film Seminole, sono l’uso libero ma plausibile di personaggi
storici, come un giovane Kit Carson, e la meticolosa ricostruzione di
costumi e scenografie, compresi naturalmente le usanze e l’aspetto
dei veri Indiani d’America. Qui i loro abbigliamenti e acconciature
sono infatti riprodotti in modo molto accurato e preciso, con una
piccola concessione alla moda divistica hollywoodiana solo nel caso
dell’abito stretto e provocante di una bella ragazza indiana…
Hondo, romanzo di Louis L'Amour (Bantam Books) |
Un
altro film uscito nel novembre 1953 che ispirò direttamente un
fumetto fu Hondo, tratto da un racconto di Louis L’Amour dell’anno
precedente, diretto da John Farrow e interpretato da John Wayne nel
ruolo dello scout e portaordini dell’esercito Hondo Lane. Dal film
L’Amour trasse un romanzo uscito nello stesso anno.
L’Hondo
letterario e cinematografico, che nel 1967 sarebbe diventato anche
protagonista di una serie di telefilm, ha vissuto tra gli Apache dopo
aver sposato una di loro ed è rimasto vedovo perché sua moglie è
stata uccisa dai soldati. È quindi molto affine a Tex e perciò non
poteva che interessare il suo creatore.
Infatti
un paio di anni dopo l’uscita in Italia del film Hondo, Gianluigi
Bonelli si ispirò a lui per creare nel 1956 l’omonimo eroe di una
serie di albi a striscia, Hondo l’Indiano Bianco, le cui avventure,
disegnate da Franco Bignotti e divise in varie serie durarono in
tutto centodiciassette numeri fino al 1958. L’Hondo disegnato si
distingue però sia da Tex che da John Wayne per la sua lunga e
abbondante chioma, da cui il suo nome indiano di Capelli Lunghi
(mentre l’Hondo di L’Amour era detto Emberado, cioè Impetuoso in
spagnolo).
Hondo, poster italiano del film del 1953 |
Ciò
che l’Hondo dei fumetti ha invece in comune con molti eroi western
precedenti, da Lone Ranger a Tex, è la presenza di un pard indiano,
nel suo caso il guerriero apache Natanis, insieme al quale tenta di
fare da mediatore tra gli indiani e i bianchi. Il primo episodio
della serie è però la storia di una vendetta, in cui Hondo aiuta
Natanis a colpire i bianchi colpevoli di aver massacrato il padre, la
moglie e il figlio dell’amico. Per certi versi la sua relazione con
gli Apache è infatti più stretta di quella del personaggio di
L’Amour. L’Hondo di Bonelli e Bignotti è un orfano allevato dal
padre di Natanis, che perciò è suo fratello di sangue. La famiglia
del suo pard indiano era quindi alla fine anche la famiglia di
adozione dello stesso Hondo.
Le
storie di Hondo sono state ristampate in formato verticale, prima su
Zenith Gigante e poi su Tutto West.
Hondo su Zenith Gigante |
Jerry Spring, da Collana Grandi Albi n. 1, supplemento a L'Avventuroso n. 3 (Sole editore, 1973) |
Un
altro eroe bianco decisamente antirazzista è il ranger Jerry Spring,
creato nel 1954 dal belga Jijé (al secolo Joseph Gillain) sulle
pagine del settimanale Spirou. Anche nel suo abbigliamento,
caratterizzato da una camicia gialla e un foulard al collo, questo
personaggio può essere considerato un po’ una versione d’Oltralpe
del nostro Tex (o un anello di congiunzione tra Tex e Zagor, avendo
un pard messicano…).
Jerry Spring n. 3 (Dupuis, 1956) |
Anche
se non si tira indietro se costretto a combattere contro bande di
nativi, le idee di Jerry Spring sulla questione indiana sono ben
chiarite dall’episodio intitolato Il Lupo Solitario, in cui il
ranger cattura l’omonimo indiano accusato di omicidio per poi
impedirne il linciaggio agevolandone la fuga. Dopo averlo catturato
di nuovo, apprende da Lupo Solitario che le autorità non avevano
voluto perseguire il bianco responsabile della strage della sua
famiglia e perciò si era fatto giustizia da solo uccidendo il
colpevole. Sapendo che nessuna giuria del paese avrebbe giudicato
obiettivamente il suo prigioniero, Jerry preferisce lasciarlo fuggire
in Canada con moglie e figlio e dare le dimissioni da ranger, anziché
condurlo in carcere incontro a morte certa.
L’eroe
di Jijé risponde insomma alla sua coscienza prima che alla legge,
soprattutto se i piatti della giustizia pendono da una parte sola. Lo
stesso Tex, in situazioni simili, non si è comportato in modo troppo
diverso.
In
Italia Jerry Spring è apparso sull’albo Tipitì della Dardo nel
1962 e su L’Avventuroso di Sole Editore dal 1973. Di recente è poi
uscita anche da noi, edita da Renoir/Nona Arte, la serie cronologica
in volume Jerry Spring l’Integrale, che ne raccoglie tutte le
storie, le stesse che dal gennaio 2016 dovrebbero uscire anche in
edicola, in dieci albi della Collana Western che è allegata ogni
settimana alla Gazzetta dello Sport.
L'Ultimo Apache, poster originale (1954) |
A
proposito di guerrieri indiani che affrontano da soli e senza
speranze lo strapotere dell’uomo bianco, il film più filo-indiano
del 1954, uscito nel luglio di quell’anno, fu certamente Apache
(L’Ultimo Apache) diretto da Robert Aldrich e tratto dal romanzo
Bronco Apache, scritto basandosi su fatti reali da Paul Wellman,
autore anche della sceneggiatura del film. Per la prima volta al
cinema il protagonista è un indiano irriducibile che combatte contro
i bianchi senza compromessi, e per la precisione un guerriero della
banda di Geronimo di nome Massai (come sempre non interpretato da un
vero nativo, ma col volto di Burt Lancaster) che, mentre Geronimo e
gli altri suoi compagni vengono deportati in Florida, riesce
arditamente a fuggire.
Benché
Massai sia descritto come un uomo sempre pronto a uccidere al minimo
pericolo, lo spettatore che non sia del tutto cinico o razzista non
può che identificarsi con lui e parteggiare per un guerriero rimasto
solo a lottare contro un intero esercito che gli dà la caccia, senza
avere in pratica nessuna speranza di salvarsi.
Apache Kid n. 19, copertina di John Severin (Atlas, 1956) |
Il
finale del libro fedele alla verità storica, in cui Massai finiva
per essere ucciso e che sceneggiatore e regista volevano mantenere,
per volontà dei produttori fu però modificato in un parziale lieto
fine per assecondare gli ipocriti canoni hollywoodiani, ovvero per
far sentire meno in colpa gli spettatori americani, cosicché l’eroe
pur sconfitto è lasciato in vita e dovrà adattarsi anche lui alla
sorte impostagli dal governo dei bianchi.
Forse non è un caso che nel dicembre del 1954, quindi cinque mesi dopo l’uscita del film L’Ultimo Apache, l’editrice Atlas riprese la pubblicazione degli albi a fumetti di Apache Kid, interrotta quasi tre anni prima. La serie fu ora affidata a John Severin, che nel frattempo era passato a lavorare per questo editore e poteva ormai essere considerato esperto del genere indian western per il suo meticoloso lavoro su American Eagle.
Forse non è un caso che nel dicembre del 1954, quindi cinque mesi dopo l’uscita del film L’Ultimo Apache, l’editrice Atlas riprese la pubblicazione degli albi a fumetti di Apache Kid, interrotta quasi tre anni prima. La serie fu ora affidata a John Severin, che nel frattempo era passato a lavorare per questo editore e poteva ormai essere considerato esperto del genere indian western per il suo meticoloso lavoro su American Eagle.
Albi Apaches (Editrice Vaglieri, 1955) |
Anche
in Italia il disegnatore Armando Bonato, già autore di Yabù,
realizzò nel 1955 le storie di un guerriero apache dall’esplicito
nome di Lupo Solitario, che furono pubblicate sugli Albi Apaches
dell’editrice Vaglieri.
Il
fatto che il nome Lupo Solitario sia stato usato per più personaggi
non deve stupire, poiché è un tipico nome indiano, probabilmente
appartenuto davvero a vari guerrieri, in particolare a un capo dei
Kiowa.
Mocassin Noir, 2a serie, n. 1 (Editions des Remparts, 1959) |
Il
disegnatore Carlo Cedroni realizzò a sua volta le avventure di un
altro indiano solitario di nome Mocassino Nero, pubblicato tra il
1954 e il 1956 sulla Collana del Puma delle Edizioni Erre-Ci. Questo
personaggio fu tradotto in Francia come Mocassin Noir dalle Éditions
des Remparts, in due serie rispettivamente del 1958 e del 1959, e poi
riproposto ancora in Italia nel 1962 sulla Nuova Collana del Puma
delle Edizioni S.E.D.I.P.
A
conferma che i tempi stavano ormai cambiando, anche nel film The
Indian Fighter (Il Cacciatore di Indiani), diretto da André DeToth
nel 1955, a dispetto del titolo l’eroe Johnny Hawks interpretato da
Kirk Douglas non si adopera più per combattere gli indiani come
faceva in passato ma per ottenere la pace tra bianchi e Sioux,
sventando i piani di due imbroglioni senza scrupoli che fomentano il
conflitto per i loro scopi. A motivare maggiormente il suo impegno
per riappacificare i due popoli, Hawks si innamora inoltre di una
ragazza sioux, la bella Onahti, naturalmente non interpretata da una
vera indiana ma dall’attrice italiana Elsa Martinelli, rimasta
famosa soprattutto per la scena iniziale di questo film in cui fa il
bagno nuda in un fiume…
Di The Indian Fighter fu realizzata anche una versione a fumetti sul n°687 della collana Four Color della Dell.
Di The Indian Fighter fu realizzata anche una versione a fumetti sul n°687 della collana Four Color della Dell.
The Indian Fighter, su Four Color Comics n. 687 (Dell, anni '50) |
1955-1960:
Indiani convenzionali, indiani fantastici e indiani buffi
Alla
metà degli anni ’50 del ‘900, i saggi sugli Indiani d’America
stavano ormai uscendo dall’ambito un po’ specialistico degli
studi etnologici entro cui erano rimasti per circa un secolo. Se
nell’ormai lontano 1851 il primo studio serio su una singola
comunità indiana, quella delle sei nazioni irochesi, scritto da
Lewis Henry Morgan, aveva dato inizio alla moderna antropologia
culturale, nel 1956 si arrivò al più ampio e sintetico volume di
Oliver La Farge intitolato A Pictorial History of the American Indian
(Una Storia Illustrata dell’Indiano Americano; edizione italiana:
Il Mondo degli Indiani, Mondadori 1961), che con un linguaggio
semplice rende accessibili a tutti, con abbondanza di documentazioni
fotografiche e riproduzioni di dipinti d’epoca, i principali dati
storici ed etnologici relativi alle più importanti nazioni indiane
del Nord-America.
Il mondo degli Indiani, di Oliver La Farge (Mondadori, 1961) |
Nello
stesso periodo, anche in altri paesi uscirono libri che, nel loro
piccolo, contribuirono alla divulgazione della vera cultura e
narrativa orale indiana. In Italia uno dei primi rivolto al grande
pubblico dovrebbe essere stato Pellerossa Storie e Leggende, scritto
da Piero Pieroni nel 1954 e pubblicato dalla Vallecchi di Firenze.
Brave Eagle, Four Color n. 750 (Dell, anni '50) |
A
contribuire a divulgare un po’ un’immagine positiva degli indiani
contribuì, tra il 1955 e il 1956, anche la produzione da parte della
NBC di una serie di telefilm in ventisei episodi, poi trasmessi
invece dalla CBS, con protagonista un giovane e pacifico capo
cheyenne, Brave Eagle (letteralmente Aquila Valorosa), le cui
avventure furono anche trasposte a fumetti dalla Dell sulla solita
collana Four Color. Naturalmente ancora una volta l’eroe non era
interpretato da un vero indiano, ma dall’attore d’origine
norvegese Keith Larsen, probabilmente solo perché volevano un
guerriero alto e gli scandinavi hanno pochi peli come gli indiani. In
compenso il figlio adottivo di Brave Eagle, Keena, era un vero
giovane indiano hopi di nome Anthony Numkena, mentre il ruolo
femminile di Morning Star (Stella del Mattino) andò all’indiana
sioux Kim Winona.
Come
succedeva nei telefilm dell’epoca i protagonisti riproducono una
sorta di unità familiare, col meticcio Smokey Joe interpretato dal
comico Bert Wheeler che fa un po’ da zio saggio. Ma gli altri
indiani di contorno, impersonati per lo più da comparse americane,
appaiono decisamente falsi, anche per i loro costumi piuttosto
ingenui e scontati. Ad ogni modo Brave Eagle si impegna soprattutto
per mantenere la pace sia con le altre nazioni indiane che coi coloni
bianchi, scontrandosi inevitabilmente anche con vari pregiudizi
razziali.
I telefilm di Brave Eagle furono trasmessi anche in Italia, col nome del protagonista cambiato in Penna di Falco Capo Cheyenne, lo stesso titolo con cui furono tradotti anche i suoi albi a fumetti, pubblicati da noi dall’Editrice Cenisio in due serie, una di diciannove numeri tra il 1961 e il 1962 e una di dieci nel 1965.
I telefilm di Brave Eagle furono trasmessi anche in Italia, col nome del protagonista cambiato in Penna di Falco Capo Cheyenne, lo stesso titolo con cui furono tradotti anche i suoi albi a fumetti, pubblicati da noi dall’Editrice Cenisio in due serie, una di diciannove numeri tra il 1961 e il 1962 e una di dieci nel 1965.
L'Ultima Caccia, poster originale (1956) |
Si
continuarono inoltre a produrre film che consideravano il punto di
vista dei Nativi Americani, come The Last Hunt (L’Ultima Caccia),
tratto dall’omonimo romanzo di Milton Lott e diretto da Richard
Brooks nel 1956.
Anche
qui si assiste ancora una volta al comportamento opposto di due tipi
di uomini bianchi, in questo caso due cacciatori di bisonti, uno
interpretato da Stewart Granger che aiuta una tribù indiana a
sfamarsi durante l’inverno (anche stavolta per intercessione di una
bella indiana) e l’altro, interpretato da Robert Taylor, privo di
scrupoli e pronto a far strage sia di bisonti che di indiani con la
stessa indiscriminata spietatezza.
Anche
la versione a fumetti di The Last Hunt fu pubblicata sulla collana
Four Color, precisamente sul n°678.
La Tortura della Freccia, poster originale (1957) |
Invece
nel film di Samuel Fuller Run of the Arrow (La Tortura della Freccia)
del 1957, un soldato confederato interpretato da Rod Steiger per non
arrendersi ai nordisti se ne va a Ovest. Qui, più o meno come
successo a Tex, è fatto prigioniero dai Sioux e, per evitare una
brutta fine, sposa una di loro e si unisce alla tribù, convertendosi
al loro modo di vivere e aiutandoli poi a non farsi ingannare
dall’esercito dell’Unione. Come al solito anche qui il capo dei
Sioux non è interpretato da un vero indiano, ma dall’attore
Charles Bronson.
A
questi seguirono altri film in cui si restituisce un po’ di dignità
agli indiani, a volte condannando la violenza con cui certi bianchi
si accanivano contro di loro, mentre il lento mutamento di giudizio
storico sui fatti del West si riscontrava anche nei fumetti di vari
paesi, su cui apparivano saltuariamente dei protagonisti indiani.
In
tale clima di graduale ma sempre più decisa rivalutazione della
cultura dei Nativi Americani, vari autori dedicarono non più a dei
bianchi adottati ma a dei veri indiani, delle storie di genere sempre
più vario.
Turok Son of Stone n. 14 (Dell 1958) |
Nell’ottobre
1954, la Dell/Western Publishing aveva pubblicato il primo albo di
quella che sarebbe diventata una delle serie più originali e longeve
su un nativo americano, Turok Son of Stone (Turok, Figlio della
Pietra), inizialmente scritta da Gailord DuBois e disegnata da Rex
Maxon. Dopo due numeri di prova usciti su Four Color, nel 1956 Turok
passò su una sua testata regolare a partire dal n°3 e in seguito
gli autori furono sostituiti dallo scrittore Paul S. Newman e dal
disegnatore italiano Alberto Giolitti. Questa prima serie passò
dall’editrice Dell alla Gold Key e infine alla Western’s Whitman
e si concluse col n°130 nel 1982. Protagonisti sono due indiani, il
maturo Turok e il più giovane Andar, appartenenti a una tribù e
un’epoca imprecisata, che si ritrovano prigionieri in una valle
piena di dinosauri e altri esseri preistorici, uomini primitivi
compresi.
Turok Son of Stone n. 93, ristampa del n. 19 del 1960 (Whitman, 1974) |
Sembra
che il soggetto in origine dovesse essere l’argomento di un
episodio di Young Hawk (Giovane Falco), un altro indiano protagonista
di una precedente serie scritta da DuBois in appendice agli albi di
Lone Ranger.
Il
problema dei conflitti con la civiltà dei Bianchi qui non si pone e,
in un ambiente così alieno, il lettore si identifica coi due
indiani, per conoscenze e mentalità più progrediti degli uomini
preistorici che incontrano.
Storie
della prima serie di Turok, soprattutto del periodo di Giolitti ma
non solo, sono state pubblicate in Italia dalle Edizioni Fratelli
Spada, prima in una sua testata di quindici numeri dal 1972 al 1974 e
poi in dieci fascicoli nella collana Albi Spada, uscita dal 1974 al
1977, a rotazione con altri personaggi della Gold Key.
Turok n. 4 (Fratelli Spada, 1972) |
Dieci
anni dopo la conclusione della prima serie, altre versioni di Turok,
più moderne e anche più violente, sono state pubblicate da vari
altri editori, a cominciare dalla Valiant che nel 1992 reintrodusse
il personaggio sull’albo Magnus Robot Fighter. In queste storie
Turok è un kiowa proveniente dal XIX secolo che, attraversata
l’epoca dei dinosauri per una distorsione spazio-temporale, giunge
nel futuro. Nel 1993 la Valiant varò quindi una nuova testata di
Turok col sottotitolo modificato in Dinosaur Hunter (Cacciatore di
Dinosauri), ambientata nel XX secolo e uscita più o meno in
contemporanea con il film Jurassic Park, che fu la principale causa
di un rinnovato interesse per i dinosauri, cosa che non può certo
essere stata casuale.
Turok Dinosaur Hunter n. 4 (Valiant 1993) |
Oltre
a due speciali e un paio di miniserie, il Turok della Valiant, di
autori come Timothy Truman e Rags Morales, durò quarantasette
numeri, di cui i primi pubblicati in Italia sulla testata a lui
dedicata dalla Playpress nel 1994. In questa versione Turok per lo
più uccide da solo i dinosauri giunti nel presente, visto che Andar,
il suo giovane amico di una volta, è stato estromesso dalla serie,
anche se nel n°4 l’eroe lo incontra di nuovo nel corpo di quello
che per un paradosso temporale è ormai diventato un vecchio indiano.
Altre
versioni di Turok dalla durata più breve e in cui a volte il
personaggio ha caratteristiche ancora diverse, sono state pubblicate
dalla Acclaim nel 1998, dalla Dark Horse nel 2010 e dalla Dynamite
nel 2014.
Anche in Italia a metà anni ‘50 uscirono altri eroi indiani protagonisti di serie a fumetti più o meno effimere.
Le
avventure di Aquila Bianca ripresero nel 1955 col nome cambiato in
Penna Bianca, sulla collana Jungla Avventurosa dell’editrice Il
Ponte. Le due brevi serie, di undici numeri in tutto, furono raccolte
subito dopo in dei supplementi intitolati Furia Rossa. Sul finire
della prima serie, alla regina dei Castori Penna Bianca subentrò
come personaggio principale suo figlio Jutak, che, diventato il nuovo
sakem, sulla stessa collana fu poi titolare tra il ‘56 e il ‘57
di altre due brevi serie, scritte e disegnate come le precedenti da
Pini Segna.
Jutak, 2a serie, n. 5 (Editrice Il Ponte, 1957) |
I Tre del West (Editrice Il Ponte, 1957) |
Ma
le avventure di Jutak non erano ancora concluse. Tra il 1957 e il
1959 fu anche uno dei protagonisti de I Tre del West, un’altra
serie di Pini Segna dedicata a tre personaggi di diverse etnie (un
bianco, un rosso e un nero) e durata per trentotto albi divisi in due
serie di diverso formato. Allo stesso tempo il sakem figlio di Penna
Bianca apparve anche nella serie Yumak, pubblicata nel 1958 sulla
Collana Tam Tam, la stessa su cui, tra il 1961 e il 1963, furono
ristampate le storie di Penna Bianca, Jutak e I Tre del West. Jutak
fu poi ripreso, col sottotitolo Il Sakem Invincibile, in una serie di
nove numeri pubblicata dalle Edizioni Metro nel 1974.
Jutak il Sakem Invincibile (Edizioni Metro, 1974) |
L’editrice
Il Ponte, che poi cambierà nome in Edizioni Bianconi, a fine anni
’50 pubblicò anche altri due eroi indiani: Aquila Rossa, apparso
nel 1957 coi disegni di Vladimiro Missaglia e di Pini Segna e
raccolto in episodi completi col titolo Furia Indiana, e Falco Nero,
uscito nel ‘59 e ripreso nel ‘63 sulla collana Super Tam-Tam.
Furia Indiana, Raccolta Aquila Rossa (Editrice Il Ponte, 1957) |
Falco Nero n. 1 (Editrice Il Ponte, 1959) |
Oltre
alla serie di Jutak, nel 1956 apparvero un paio di eroi indiani in
formato a striscia, Rama l’Apache di Andrea Lavezzolo e Virgilio
Muzzi, edito dalla Dardo e ristampato nel 2009 dall’Editoriale
Mercury, e Tom Tom, ispirato sia nel nome che nell’aspetto
all’amico di Lone Ranger, disegnato da Renzo Orrù e pubblicato dal
n°11 degli Albi Tascabili Arcobaleno dell’omonima editrice, al
posto della Giubba Rossa Thunder Jack.
Tom Tom, Albi Tascabili Arcobaleno n. 11 (1956) |
Rama l'Apache n. 1 (Dardo, 1956) |
Come
già detto, nel 1957 Gian Luigi Bonelli scrisse la sua seconda
versione di Kociss, capo apache che oltre a difendere la sua gente
dalle prepotenze dei colonizzatori bianchi vive anche avventure
fantasiose con riti magici, valli perdute e animali mostruosi. Ma
quell’anno lo stesso Bonelli insieme al disegnatore Francesco
Gamba, diede vita anche a un altro eroe indiano, Yado, un guerriero
pahute dotato di arcani poteri in quanto figlio di uno sciamano.
Quando la sua tribù cattura una donna bianca, Yado si comporta come
Lilyth con Tex, cioè la sposa per salvarle la vita, ma in questo
caso lui e sua moglie vengono esiliati dalla tribù. Yado userà
comunque i suoi poteri per vendicare i maltrattamenti subiti dai suoi
genitori, accompagnato nelle sue avventure da un cavallo bianco e un
coyote coi quali è in grado di parlare grazie alle sue doti
sciamaniche.
Yado, ristampa in volume su Collana Autori n.4 (Milone Editore, 1999). Copertina di Francesco Gamba. |
Indians n. 60, edizione francese (Imperia, 1960) |
Sempre
nel 1957 l’editrice francese Imperia sostituì una sua precedente
collana western intitolata Prairie (Prateria) con l’edizione locale
della testata Indians, che durò fino al 1960. Tutti e sessanta i
numeri avevano copertine dell’italiano Rino Ferrari. Anche
l’Indians francese è dedicata esclusivamente ai Nativi Americani
e, oltre a serie tratte dall’omonimo albo statunitense come
Starlight e Longbow, contiene anche personaggi di altri editori USA
come White Indian, Lone Eagle e Swift Arrow, personaggi inglesi come
Strongbow the Mohawk, qualche storia italiana tratta da Il Vittorioso
e naturalmente anche delle storie francesi originali.
I ladri di giovenche, da Occhio di Pollo di Jacovitti (1957) |
Tra
le storie italiane tradotte in Francia su Indians, ci fu anche il
primo episodio dell’inetto e gracile indiano Occhio di Pollo della
tribù dei Ciriuaua, creato da Jacovitti su Il Vittorioso nel 1957 e
poi ripreso brevemente dallo stesso autore nel 1972 sul Corriere dei
Piccoli, dove però la sua tribù cambiò nome in Ciriuacchi.
Nella
sua prima avventura, Occhio di Pollo affronta una banda di bianchi
che rubano le giovenche della sua tribù e supplisce alle proprie
carenze guerresche con abbondanti dosi di coraggio (o incoscienza),
ricevendo anche un bel po’ d’aiuto dall’eroico Boffalo Bill,
detto Cotenna Gialla, trasparente parodia di Buffalo Bill.
Occhio Di Pollo, di Jacovitti (1957) |
Il
fatto che i Ciriuaua allevino mucche pare una delle solite buffe
trovate di Jacovitti, visto che nell’800 la gran parte degli
indiani non possedevano bovini, o almeno non gli Apache come i
Chiricahua. Ma dal 1920 gli Apache della riserva di San Carlos
divennero davvero padroni di mandrie di bestiame, grazie ai loro
ottimi pascoli, il ché provocò contrasti cogli allevatori bianchi
della zona. Chissà se l’autore ne era a conoscenza…
Anche
in Occhio di Pollo c’è un indiano cattivo, come nei film
dell’epoca, ma stavolta nel senso che tradisce i suoi fratelli
indiani. Il subdolo Treccia Giovanni è infatti prima in combutta coi
ladri e poi deciso a usurpare i meriti di Occhio di Pollo, ma non
avrà il coraggio di andare fino in fondo e finirà per pentirsi e
confessare, ottenendo il perdono per intercessione del protagonista,
in sintonia con la morale cattolica del giornale.
La
storia del piccolo indiano Occhio di Pollo, insieme a un altro
western di Jacovitti, è stata poi raccolta in un volume cartonato di
Mondadori del 1971, intitolato Per un Pugno di Spiccioli & Occhio
di Pollo.
Oumpah-Pah 1 (Le Lombard, 1958) |
Nei
fumetti degli anni ‘50 non mancavano altre parodie dei pellirosse,
come le storie del piccolo e scaltro indianino Caribù, realizzato da
Antonio Interlenghi per l’editrice Alpe, o quelle del muscoloso
guerriero Oumpah-Pah creato da due grandi autori francesi, René
Goscinny e Albert Uderzo, e apparso in cinque episodi, usciti sul
settimanale belga Tintin dal 1958 al 1962 e poi raccolti in tre album
tra il 1961 e il 1967.
Oumpah-Pah,
il cui nome riproduce ironicamente il ritmo di un valzer, vive nei
pressi di una colonia francese in terra americana durante il XVIII
secolo. Il nome della sua tribù, i Shavashavah, che in francese si
legge come ça va ça va (va bene va bene), nell’ortografia
somiglia anche all’inglese shave (rasatura), che si potrebbe anche
riferire all’uso di scalpare i nemici, una pessima abitudine che
per la verità era stata introdotta dai bianchi, ma a cui a
quell’epoca molte tribù indiane presero effettivamente gusto… Lo
stesso Oumpah-Pah, nel primo episodio, si appresta a scotennare il
nobile ufficiale francese Hubert de la Pâte Feuilletée, ma ci
rinuncia accorgendosi con sgomento che porta una parrucca e finisce
per diventarne amico ribattezzandolo Doppio Scalpo. Dopo di ché i
due vivono varie avventure, contro pirati e tribù nemiche.
Oumpah-Pah L'Intégrale (Les Editions Albert René) |
In
Italia Oumpah-Pah apparve inizialmente sul Corriere dei Piccoli,
mentre da poco ne è uscita anche da noi l’edizione integrale in un
solo volume, pubblicata da Renoir/Nona Arte col nome trascritto
Umpah-pah.
Da Lucky Luke, 14° episodio (Dupuis, 1958) |
In
quel periodo lo stesso Goscinny insieme al disegnatore belga Morris
creò varie altre gustose caricature di pellirosse anche nella lunga
serie del cowboy solitario Lucky Luke. Cheyenne, Sioux e Apache
finirono tutti sotto la sua lente deformante, descritti come dotati
di un misto di candida ingenuità e di sottile furberia, col
protagonista che a volte apre loro gli occhi sugli inganni spesso
perpetrati ai loro danni, mentre in altri casi si approfitta lui
stesso, ma a fin di bene, della loro scarsa comprensione degli
oggetti usati dai bianchi.
Nel
14° episodio di Lucky Luke sono gli indiani a fare un vero affare a
spese degli americani, che dopo aver confinato molti popoli rossi in
Oklahoma vogliono impossessarsi anche di quella terra brulla e
inospitale. Gli indiani la cedono per un mucchio di collanine, ma
quando i coloni si daranno per vinti e ripartiranno, la ricompreranno
a un prezzo irrisorio dal governo che non la vuole più e finiranno
per trovarvi il petrolio diventando ricchi. Nella realtà le cose non
andarono proprio così, ma neanche in modo troppo diverso…
Cimarron di Edna Farber, un'edizione italiana (Mursia, 1968) |
1960-1967:
Visioni, vendette e vite tribali
L’episodio
di Lucky Luke La Corsa all’Oklahoma, disegnato da Morris nel 1958,
fu raccolto in volume nel 1960 e lo stesso anno uscì un film
esattamente con la stessa ambientazione, Cimarron, diretto da Anthony
Mann e tratto dall’omonimo romanzo di Edna Ferber, pubblicato nel
1929 e già adattato al cinema nel 1931.
Il
nome Oklahoma in lingua choctaw significa Gente Rossa, poiché in
quel territorio erano stati volta per volta deportati ed esiliati gli
indiani le cui terre originarie erano state occupate dai bianchi. Sia
nel libro che nel film Cimarron, si evidenziano le tristi e
rassegnate condizioni di quegli antichi abitanti delle Americhe,
popoli come i Cherokee, adattatisi alla civiltà dei bianchi e
nonostante ciò scacciati dalle loro città dell’Est, deportati in
Oklahoma attraverso una marcia inumana, con altre nazioni indiane
come gli Osage, e dopo cinquant’anni di nuovo spogliati dei loro
territori ed emarginati dall’ennesima invasione di coloni
americani.
In
Cimarron uno dei pochi bianchi a prendere vigorosamente le difese
degli indiani è il protagonista Yancey Cravat, un giornalista e
avventuriero che nel film del 1960 ha il volto di Glenn Ford ed è
detto appunto Cimarrón (nome che in spagnolo significa selvatico e
si riferisce anche al territorio non ancora civilizzato).
In
quella pellicola tra l’altro si vede un terribile e spietato
linciaggio ai danni di un indiano innocente, che viene impiccato dai
bianchi senza nessun motivo, per pura persecuzione razziale,
dopodichè la vedova e la figlioletta dell’ucciso vengono accolte
da Yancey e da sua moglie Sabra in casa loro. Le scene come questa di
vera e propria violenza razzista verso gli indiani (e anche verso gli
ebrei) sono però state aggiunte nel film ed erano assenti nel
romanzo originale di trent’anni prima, in cui invece si descrive il
modo altrettanto feroce e spietato con cui gli indiani Osage
avrebbero impedito le unioni miste con gli afroamericani.
Cimarron, poster italiano del film del 1960 |
Anche
nel libro della Ferber si mostra il razzismo verso gli indiani, ma
esprimendolo più che altro attraverso parole e atteggiamenti. La
stessa Sabra nel romanzo è molto più razzista che nel film (se
ospita delle ragazze indiane in casa sua è solo in qualità di
serve) e le occorre quasi tutta la vita, ovvero tutto il romanzo, per
arrivare a condividere almeno in parte le idee antirazziste del
marito. Nonostante ciò loro figlio Cimarron, che ha preso dal padre,
sposa la figlia di un capo Osage la cui famiglia ha trovato il
petrolio nella propria terra e così, paradossalmente, si arricchisce
imparentandosi coi pellirosse a lungo disprezzati dalla madre.
Un rito del peyote, dipinto indiano del 1910 circa |
Nel
romanzo è anche interessante la breve descrizione dei riti del culto
del peyote, un modo con cui i nativi hanno cercato di consolarsi
delle loro tristi condizioni sociali. Tale fungo allucinogeno,
potendo procurare visioni, è ancora oggi usato in rituali sciamanici
indiani, simili a una sorta di comunione. Teoricamente lo scopo
consisterebbe nel rendere accessibili delle esperienze mistiche anche
a chi non è uno sciamano. In pratica si tratta anche e soprattutto
di evadere, almeno con lo spirito, da una realtà frustrante e
desolata. Nel libro questo rito è comunque descritto solo
dall’esterno e non vi si dice che cosa sognino i partecipanti.
Alce Nero parla (edizione Bompiani, 1988) |
Un
altro tipo di rapimenti estatici e visionari è invece descritto
vividamente in un altro libro, a cura del poeta John Gneisenau
Neihardt, intitolato Black Elk Speaks (Alce Nero Parla), che fu
ripubblicato nel 1961 dall’Università del Nebraska dopo essere
uscito la prima volta nel 1932. In questo caso non si tratterebbe di
visioni indotte ma spontanee. Il volume infatti si presenta come
l’autobiografia di un vero sciamano sioux nato nel 1863, che parla
di come in gioventù avesse conosciuto Toro Seduto e Cavallo Pazzo e
assistito a eventi come la battaglia del Little Big Horn e la strage
di Wounded Knee, e anche delle sue esperienze mistiche, in cui le
visioni di un altro mondo, carico di potenti immagini metaforiche, si
imponeva su di lui.
Alce Nero in età avanzata |
Negli
anni ’60, grazie al mutato contesto culturale, il libro Alce Nero
Parla ottenne considerazione e successo ben maggiori e nel 1968 fu
tradotto in Italia dalla Adelphi. Intanto era uscito nel 1953 un
altro libro basato su una serie di interviste ad Alce Nero, a cura
dell’antropologo Joseph Epes Brown, dal titolo La Sacra Pipa.
In
seguito gli hanno dedicato altri libri, di volta in volta a sostegno
del suo essere uno sciamano che ha finto di convertirsi al
Cristianesimo, o un uomo che ha rinnegato il suo passato di uomo
medicina diventando missionario cattolico. Ma se Alce Nero avesse
considerato un imbroglio la sua vita precedente di uomo sacro, si
potrebbe sospettare che fosse passato da un imbroglio all’altro,
poiché la missione cattolica gli passava uno stipendio, forse esiguo
per un bianco ma elevato per un indiano delle riserve, in cambio
della sua attività di catechista che sfruttava il suo vecchio
ascendente di sciamano per convertire altri indiani al Cristianesimo.
Un Black Elk citato su Tex Gigante n. 91 (Araldo, 1968) |
Il
fatto è che in genere la separazione intollerante che i bianchi
fanno tra riti tradizionali e riti cristiani non esiste affatto per
gli indiani, che a volte si dedicano a entrambi i culti senza farsi
problemi. Intanto Alce Nero era morto nel 1950, senza poter
confermare né smentire le idee attribuitegli dai sostenitori delle
varie tesi.
Prima
ancora che il libro Alce Nero Parla uscisse in italiano, il nome
Black Elk apparve anche in una storia di Tex che abbiamo già citato,
Vendetta Indiana, in cui però apparteneva a un capo ute e non a uno
sciamano. Ma a parte qualche storia di Tex come questa, in cui si
descrive il massacro di un villaggio indiano simile a quello davvero
compiuto nel 1868 dai cavalleggeri di Custer sul fiume Washita, i
fumetti western che uscivano intorno al 1960 generalmente non
tenevano ancora molto conto della vera storia e cultura indiana.
Kiki Manito, da Zagor Speciale n. 4 (SBE, 1991) |
Delle
esperienze collegate al misticismo indiano saranno comunque vissute
in seguito anche da uno dei più noti eroi del fumetto italiano, lo
Zagor creato da Guido Nolitta e Gallieno Ferri proprio nel 1961.
Nelle sue storie, ricche di elementi magici e horror, hanno finito
per verificarsi saltuarie apparizioni del dio Kiki Manito (il Grande
Spirito, in lingua algonchina), rappresentato come un ragazzo a
cavallo di un bisonte sacro, la cui benevolenza verso Zagor finirà
in pratica per rendere ufficiale il suo compito di difensore dei
popoli rossi.
Tra
l’altro non è la prima volta che il Grande Essere Misterioso dei
Nativi Americani viene raffigurato in un fumetto sotto forma umana.
Lo si è visto per esempio, mentre galleggiava in una nuvola, anche
nella breve serie a striscia di Gordon Jim, scritta e disegnata da
Rinaldo Dami e pubblicata dall’editrice Audace nel 1952.
Visione di Manitù, da Gordon Jim n. 10 (Audace, 1952) |
L’apparizione
in Zagor di una simile personificazione di Manito, per quanto un po’
semplicistica, la renderà per certi versi una serie simpaticamente
“pagana”, nel senso più positivo del termine. Soprattutto dalla
fine degli anni ’80 in poi, le storie di Zagor faranno
saltuariamente sempre più riferimento al misticismo indiano,
ispirandosi a volte a tradizioni, storie o leggende in parte
autentiche dei popoli rossi, anche grazie ai testi particolarmente
accurati di nuovi sceneggiatori come Tiziano Sclavi, Mauro Boselli e
Moreno Burattini.
È
in sintonia con la cultura indiana anche il fatto che sulla casacca
di Zagor ci sia l’emblema di un’aquila, ovvero l’Uccello del
Tuono, una divinità che tuttora è davvero dipinta sugli abiti da
indossare in certe cerimonie, anche se fa parte delle credenze degli
indiani delle praterie più che di quelli delle foreste.
Casacca per la Danza degli Spiriti con l'effige dell'Uccello del Tuono |
Zagor
si caratterizza infatti come difensore degli indiani delle regioni
dell’Est, sintetizzate nell’immaginaria foresta di Darkwood, ma
non esita ad affrontare chiunque minacci la pace della regione. In
ciò ricorda eroi sul tipo di Phantom, che come Zagor amministra la
giustizia e incute rispetto a indigeni considerati ingenui e
superstiziosi, facendosi passare per un essere soprannaturale. Tale
inganno protratto nel tempo, benché perpetrato disinteressatamente e
senza che l’eroe abusi mai del suo ascendente, può far nascere
anche qui il sospetto di residui di mentalità coloniale, visto che
un bianco domina in qualche modo sui nativi.
Zagor e Tonka, su Zagor n. 25 |
Ma
Zagor ha verso i popoli indigeni un atteggiamento più affabile e
conviviale rispetto all’eroe mascherato di Falk e ha rapporti di
autentica amicizia con molti indiani, come il capo irochese Tonka, lo
sciamano mohicano Molti Occhi, l’avvocato cherokee Satko, il capo
seminole Manetola e il capo kiowa e ex-nemico Winter Snake.
Benché
sembri frequentare soprattutto dei capi, per uno che recita il ruolo
del semidio immortale, lo Spirito con la Scure dimostra insomma un
carattere molto umano. Inoltre ciò che lo spinge, nella sua
instancabile missione di pacificazione, non è un vago e generico
senso di giustizia, ma l’esigenza di riscattarsi dalle stragi di
indiani compiute dai bianchi come suo padre, che era stato un
ufficiale dell’esercito, e anche da lui stesso.
Da Maxi Zagor n. 2 (SBE, 2001) |
Tra
l’altro anche la lunga marcia compiuta dai Cherokee per giungere in
Oklahoma, da loro detta la Pista delle Lacrime, è stata raccontata
in un’interessante storia, scritta da Moreno Burattini e disegnata
da Alessandro Chiarolla per il Maxi Zagor n°2 del 2001. Qui l’eroe
di Darkwood protesta contro la deportazione dei Cherokee fino a
strattonare malamente il presidente Andrew Jackson, che tra parentesi
si sarebbe meritato di peggio, visto che storicamente fu proprio lui
ad avanzare la vergognosa proposta del forzato trasferimento a Ovest
dei popoli indiani, durante il quale almeno un quarto dei Cherokee
morì di stenti.
Falco Bianco si allea con gli Irochesi Mohawk (Dardo, anni '60) |
Gli
indiani dell’Est hanno un ruolo importante anche in altre due serie
pubblicate a breve distanza l’una dall’altra da due autori
italiani, ma in due diversi continenti, entrambe ambientate nel XVIII
secolo, quello del ciclo dei Mohicani di Fenimore Cooper, che ne
costituisce evidentemente l’iniziale fonte d’ispirazione.
Sequoia, da Falco Bianco (Dardo, anni '60) |
La
prima è Falco Bianco, il Robin Hood del Nord-Est, creata dal
disegnatore Onofrio Bramante e pubblicata dalla Dardo dal 1961. Il
protagonista, il barone di Saint Castin, comanda un gruppo irregolare
di trapper che combatte dalla parte dei Francesi contro gli Inglesi,
ma è anche il capo bianco della nazione indiana dei Penobscot, il
ché mette a sua disposizione in difesa della causa francese un
discreto spiegamento di forze.
Fratello
di sangue di Falco Bianco è il grosso e forzuto indiano Sequoia, ma
il nome dato a quest’ultimo per indicarne la forza e solidità è
leggermente anacronistico, visto che l’albero detto Sequoia fu
chiamato così solo un secolo dopo, in onore del famoso inventore
dell’alfabeto cherokee, che si chiamava in realtà Sikwayi.
Falco
Bianco è poi stato ripubblicato dalla Dardo anche in appendice agli
albi del pirata Sandor dal 1966, raccolto in formato gigante negli
anni ’90 e ristampato di recente in formato bonellide dalle
Edizioni If.
Dotata di maggior fascino è però Wheeling di Hugo Pratt, storia nata nel 1962 sulla rivista argentina Misterix e ambientata durante gli scontri tra Inglesi e indiani che precedono la Guerra d’Indipendenza Americana. All’inizio del racconto il conflitto è innescato da una strage compiuta dai coloni bianchi contro gli Shawnee, che dopo aver sopportato molte ingiustizie da parte dei bianchi, questa volta non mancheranno di vendicarsi.
Dotata di maggior fascino è però Wheeling di Hugo Pratt, storia nata nel 1962 sulla rivista argentina Misterix e ambientata durante gli scontri tra Inglesi e indiani che precedono la Guerra d’Indipendenza Americana. All’inizio del racconto il conflitto è innescato da una strage compiuta dai coloni bianchi contro gli Shawnee, che dopo aver sopportato molte ingiustizie da parte dei bianchi, questa volta non mancheranno di vendicarsi.
Fort Wheeling, Collana Metal n. 6 (Nuova Frontiera, 1982) |
In
Wheeling sono almeno due i bianchi considerati dei rinnegati. Simon
Girty, che è stato allevato dagli indiani Wyandot, è un
autoritratto di Pratt e funge un po’ da deus ex-machina, ma il vero
protagonista è il virginiano Criss Kenton, un giovane soldato a cui
gli indiani hanno massacrato la famiglia. Nonostante ciò Criss
libera un indiano prigioniero, il giovane Tiny, per scambiarlo col
proprio fratello catturato dagli Shawnee e Tiny ricambia il favore
adottando Criss come fratello di sangue perché non sia fatto a sua
volta prigioniero. Da quel momento il virginiano dovrà proteggere il
suo fratello shawnee dagli altri americani.
Sia
in Falco Bianco che in Wheeling, si accenna a come certe nazioni
irochesi, alleate degli Inglesi, erano pronte a passare a combattere
contro di loro. Su certi dettagli la storia di Pratt è molto più
documentata e accurata e infatti è dopo la Guerra d’Indipendenza
che fu in effetti stipulata dallo stesso George Washington la pace
tra gli Americani e gli Irochesi, che in seguito combatteranno
insieme contro gli Shawnee.
Il Capo degli Shawnee, da Fort Wheeling di Pratt (1962) |
In Italia la prima parte di Wheeling fu edita in volume da Ivaldi nel 1972, nel formato orizzontale originale, e poi da Mondadori in formato verticale. La seconda parte della storia fu pubblicata da Pratt in Francia nel 1980 e raccolta in Italia nell’album Fort Wheeling, n°6 della Collana Metal edito dalla Nuova Frontiera nel 1982. Una terza parte fu completata dall’autore solo più tardi. Le ultime edizioni di Wheeling sono quelle della Rizzoli-Lizard e dei volumi allegati a Corriere della Sera e Gazzetta dello Sport nel 2010 e nel 2014.
Leggende indiane di Pratt, 1° volume (copertina tratta da Frontera Extra n. 33, 1961) |
Wheeling
fu l’ultima serie di Pratt pubblicata in Argentina e fu interrotta
per il suo improvviso ritorno in Italia, nel 1962. Da quello stesso
anno pubblicò, in appendice agli Albi di Pecos Bill dell’editore
Angelo Fasani, una trentina di adattamenti a fumetti di Leggende
Indiane tratte dal folclore di varie nazioni dei Nativi Americani e,
come nelle fiabe, i protagonisti non sono solo adulti ma anche
ragazzi indiani. Date le poche pagine a disposizione, Pratt in questa
serie non si fa problemi a usare abbondanti didascalie fuse
graficamente con le immagini, che oggi fanno apparire un po’ datate
queste storie, ma costituiscono un interessante esempio di come
letteratura e fumetto possano fondersi. In una leggenda degli indiani
Fox, Pratt rappresenta anche il Grande Spirito, come una figura
luminosa che interviene con un miracolo per nascondere la tribù ai
nemici.
Manitù appare ai Fox, da Leggende Indiane di Pratt (anni '60) |
Raccolte
più tardi in due volumi dal Fumetto Club, le Leggende Indiane di
Pratt sono state ripubblicate di recente dalla Rizzoli-Lizard in
appendice alla saga di Wheeling, collocazione che hanno mantenuto
anche nei due volumi di Wheeling della collana cartonata TuttoPratt,
uscita nel 2014 allegata al Corriere della Sera.
Da Lo Sceriffo Kendall, supplemento a Il Corriere dei Piccoli n. 34 (1964) |
Intanto
in Inghilterra nel 1963 apparvero sulla rivista Ranger dell’editrice
Fleetway le storie a fumetti dello sceriffo Ralph Kendall, scritte
inizialmente dall’italiano Piero Dami e disegnate dal cileno Arturo
del Castillo, il cui protagonista ogni volta che incontra degli
indiani cerca di capirli e di avere dei buoni rapporti con loro.
Così
nella sua prima avventura Kendall aiuta un vecchio apache che
custodisce l’oro della sua tribù, non solo contro dei banditi ma
anche contro un proprio ex-amico altrettanto avido. In seguito aiuta
a mantenere la pace con gli Cheyenne, che avevano reagito alle solite
invasioni non autorizzate dei bianchi nelle loro terre.
Kendall
fu proseguito per quaranta episodi da Del Castillo con altri
sceneggiatori come Héctor G. Oesterheld. In Italia esordì nel 1964
su un supplemento del Corriere dei Piccoli e dal 1967 uscì su Rin
Tin Tin & Rusty della Cenisio. Le sue prime storie sono state
raccolte, nel 2007, sul n°44 della collana Storia del West delle
Edizioni If e oggi è proposto in modo più completo e organico in
una serie di album di Allagalla Editore.
Da Lo Sceriffo Slade (Oscar Mondadori, 1975) |
Approcci
comprensivi verso gli indiani sono tentati, ma con meno successo,
anche dallo sceriffo Wess Slade, protagonista della serie The
Wastelands (Le Terre Desolate) di George Stokes, uscita a strisce dal
1960 sul giornale inglese London Sunday Express. Anche qui si
evidenzia come spesso siano le invasioni e violenze dei bianchi a
provocare la vendetta degli indiani, per lo più degli Apaches
riprodotti con precisione e correttezza.
Ma
la serie di Slade è più realistica di quella di Kendall e gli
indiani, pur rappresentati con rispetto, sono i duri guerrieri che
erano nella realtà, coi quali non è facile raggiungere una pace
accomodante una volta che il sangue dei loro figli e fratelli è
stato versato. A volte gli Apache reagiscono al fatto per loro
incomprensibile e inaccettabile che i bianchi li impicchino per dei
semplici furti, cosa che innesca la solita spirale di vendette.
Lo
Sceriffo Slade è uscito in Italia nel 1963 in una sua testata
pubblicata dalle Edizioni La Freccia, nel 1968 sul Vittorioso e negli
anni ’70 sui supplementi di Linus, su due Oscar Mondadori a lui
dedicati, su Il Mago West e sulla Nuova Collana Hombre – I Valorosi
dell’Editrice Stormo, dove il suo nome fu cambiato in Ringo.
Jerowa, da Collana Corral n. 4 (Editore Crespi, 1966) |
Tra
gli indiani protagonisti di fumetti, nei primi anni ’60 apparve
Jerowa, di autori anonimi, che uscì sia in Francia che in Italia,
dove fu pubblicato sulla Collana Corral dell’Editore Crespi nel
1966. In questo caso non ci sono riferimenti alla cultura indiana, a
parte l’appartenenza etnica del protagonista. Questi, col suo
fisico ben piazzato, armato di due colt che porta alla cintura e
accompagnato da un anziano sudista baffuto chiamato Piede Rapido, se
ne va per le città dei bianchi a raddrizzare torti a suon di
sparatorie e sganassoni, in storie che, brevità a parte, fanno quasi
sembrare il personaggio una specie di versione indiana di Tex.
Cuore d'Argento, da Albi dell'Intrepido n. 966 (Universo, 1964) |
Il
disegnatore Carlo Savi, che aveva collaborato agli albi di Aquila
Bianca, realizzò invece un’altra serie sugli indiani di tono
altrettanto irreale e romantico, Cuore d’Argento, su un giovane
sakem accompagnato da una fedele aquila che fu il primo personaggio
fisso degli Albi dell’Intrepido, dove uscì a puntate dal 1964.
Le
avventure di Cuore d’Argento hanno tutte le caratteristiche dei
romanzi d’appendice in cui si alternano di continuo dei colpi di
scena piuttosto forzati, a cominciare dalla prima storia suddivisa in
quaranta brevi puntate. Qui il protagonista, che si credeva figlio
del capo dei Mohicani, scopre invece che il suo vero padre è il capo
dei Nantas, il ché lo getta nella più completa costernazione perché
di conseguenza pensa di essere fratello della figlia del capo, che
voleva sposare. Ma a risolvere la situazione e toglierlo
dall’imbarazzo giunge opportunamente la notizia che la ragazza era
stata adottata e i due innamorati non sono consanguinei.
Per
quanto qui nomi e costumi siano del tutto fantasiosi e la cultura
indiana sia descritta in termini fin troppo idilliaci e ben poco
realistici, l’autore non può comunque evitare di fare qualche
cenno ai contrasti con la società dei bianchi, come quando un
affarista senza scrupoli vuole far passare la sua ferrovia sul
territorio dei Nantas e per riuscirci complotta per far uccidere il
loro capo Cuore d’Argento che si oppone al progetto.
Il Grande Sentiero, poster italiano (1964) |
In
quel periodo però i romanzi e i film western si stavano ormai
distaccando da certi stereotipi di maniera, per parlare maggiormente
e in modo più accurato della vera vita di frontiera e degli indiani
autentici.
Nel
1964 uscì infatti anche il film Cheyenne Autumn (Il Grande Sentiero),
con cui il regista John Ford, al suo ultimo western, tentò di
rimediare a una carriera passata a rappresentare gli indiani come
selvaggi assassini. Per una volta descrisse dei nativi che combattono
per delle buone ragioni, raccontando la lunga e difficile migrazione
di un gruppo di Cheyenne che, per non morire di stenti, lasciano la
malsana zona dell’Oklahoma in cui erano stati confinati dal
governo. Ma nonostante le buone intenzioni e la presenza di un
ufficiale che prende le difese degli indiani interpretato da Richard
Widmark, il risultato non fu poi troppo memorabile, oscillando tra il
patetico e l’umoristico senza trovare il registro ideale per
narrare al meglio quella storia.
Dustin Hoffman è Jack Crabb nel film Il Piccolo Grande Uomo |
Sempre
nel 1964 gli Cheyenne furono descritti in modo più realistico e
coinvolgente nel romanzo Little Big Man (Il Piccolo Grande Uomo) di
Thomas Berger, da cui nel 1970 il regista Arthur Penn trasse
l’omonimo film con Dustin Hoffman. Vi si narra la vita immaginaria
di Jack Crabb, da piccolo adottato dagli Cheyenne dopo che questi
hanno ucciso suo padre e gli altri uomini di una carovana. La strage
era stata compiuta sotto l’influenza dell’alcool, che le stesse
vittime avevano incautamente offerto agli indiani. Nell’esporre i
contrasti tra i due modi di vivere, il libro è infatti pieno di
ironia, giocando sui continui equivoci che sorgono tra due culture
incapaci di comprendersi. Uno dei pochi a rendersi conto delle
tragiche assurdità che si verificano è il protagonista, che conosce
bene entrambi i mondi pur senza sentirsi del tutto parte di nessuno
dei due.
Il Piccolo Grande Uomo di Thomas Berger, 1a edizione italiana (Rizzoli, 1972) |
Come
nei precedenti Alce Nero Parla e Un Uomo Chiamato Cavallo, anche ne
Il Piccolo Grande Uomo il lettore può immedesimarsi nella vita di
una tribù indiana vedendola dall’interno e scoprendo una cultura
diversa dalla propria e di certo anche abbastanza dura, ma con una
sua dignità e fierezza, in certe cose anche molto più tollerante di
quella dei bianchi, come nel rispetto e la considerazione verso gli
omosessuali.
Il
film poi riproduce e accentua ancor di più l’ironia del romanzo,
ma taglia gran parte delle oltre cinquecento pagine del libro e
modifica molti dettagli per far fare una figura migliore sia all’eroe
che agli indiani. Per esempio, nel film sembra che Jack sia allevato
da una tribù diversa da quella che ha compiuto l’eccidio.
Il vero Piccolo Grande Uomo |
Il
nome Piccolo Grande Uomo dato dagli Cheyenne a Jack Crabb, per le
gesta attribuite a un piccoletto come lui, non fu inventato
dall’autore del romanzo. Era davvero quello di un valoroso
guerriero indiano non molto alto, appartenente però alla nazione
sioux. Il vero Piccolo Grande Uomo non fu poi molto leale verso i
propri fratelli rossi, visto che si arruolò nella polizia indiana al
servizio dei bianchi e fu coinvolto nell’omicidio del suo ex-capo
Cavallo Pazzo. Analogamente Jack Crabb, dopo aver assistito al quasi
completo massacro della sua famiglia cheyenne sul fiume Washita, si
aggrega al reggimento del generale Custer, proprio il responsabile di
quell’eccidio, anche se inizialmente lo fa soprattutto con la
segreta intenzione di vendicarsi. Ma nel libro Crabb finisce suo
malgrado per rispettare l’esaltato carisma di Custer e, dopo aver
tentato invano prima di ucciderlo e poi di metterlo in guardia,
combatte con lui a Little Big Horn contro gli indiani. Nel film
invece lo spinge intenzionalmente alla disfatta e alla morte in
battaglia, per vendicarsi a costo della propria stessa vita, un
prezzo che comunque alla fine non pagherà visto che in entrambe le
versioni verrà salvato in extremis.
Il Piccolo Grande Uomo, poster italiano (1970) |
Verrà
stordito e salvato in modo molto simile a Jack Crabb anche Tex, sul
n°492 del 2001, in un episodio scritto da Claudio Nizzi e disegnato
da Giovanni Ticci intitolato proprio Little Big Horn, che svolgendosi
in parte sul teatro dell’omonima battaglia finisce per ricordare
abbastanza il finale de Il Piccolo Grande Uomo.
Anche
Tex infatti tenta di mettere in guardia e di salvare Custer, perché
la sua morte non provochi una spietata guerra a oltranza contro Sioux
e Cheyenne, cosa poi puntualmente avvenuta. Ma in quella storia, come
in Little Big Man, sono molto importanti le visioni di un capo
indiano, in questo caso quelle di Toro Seduto, che riteneva davvero
gli fosse stata preannunciata in sogno la disfatta di Custer e la
vittoria dei suoi.
Toro Seduto, da Tex n. 492 (SBE, 2001) |
L’inizio
e la fine de Il Piccolo Grande Uomo, con l’ultracentenario Crabb
che rievoca la propria vita narrandola a uno scrittore, ha poi
ispirato una cornice molto simile a Paolo Eleuteri Serpieri che,
nell’album L’Eroe e la Leggenda pubblicato nel 2015, ha fatto
raccontare una storia giovanile di Tex da un vecchissimo Carson, una
storia in cui Aquila della Notte, nell’aspetto e nel modo di agire,
appare più che mai simile a un vero indiano, anche nei tratti
somatici e nei capelli lunghi. E se tale storia vede Tex combattere
ferocemente tanto contro dei bianchi che contro degli indiani
comanche, in entrambi i casi lo fa da appartenente alla nazione
navajo, per vendicare la morte di uomini e donne di quello che
considera a tutti gli effetti come il suo stesso popolo.
Lobo Kid su Collana Rodeo n. 6 (Araldo, 1967) |
Un altro bianco adottato dagli indiani nei fumetti è Lobo Kid, apparso anch’esso nel 1964, in appendice agli albi di Furio, con testi di Gianluigi Bonelli e disegni di Loredano Ugolini. La sua storia è abbastanza semplice.
Durante la Guerra di Secessione una ricca famiglia del Sud è massacrata da banditi vestiti da nordisti. Solo il piccolo Larry Clayton è salvato dal comanche Yagor e cresce tra gli indiani. Una volta adulto, preso il nome di Lobo Kid, si vendica del mandante della strage, che si scopre essere un suo parente avido dell’eredità. Nel finale scritto da Glauco Verozzi, che concluse la storia quando tre anni dopo fu ristampata in due albi su Collana Rodeo, Lobo Kid ritorna a vivere nella sua vecchia tenuta insieme a una ragazza comanche.
Mark tra gli Indiani, da Collana Araldo, 2a serie, n. 100 |
È cresciuto tra gli indiani anche il Comandante Mark, capo di un gruppo di insorti antibritannici negli anni della Rivoluzione Americana, creato dal gruppo EsseGEsse nel 1966. Al centesimo episodio, si scopre infatti che una imprecisata tribù lo ha raccolto neonato su una spiaggia, dopo che la nave francese su cui viaggiava la sua famiglia era stata affondata da una fregata inglese. Il vantaggio di Mark rispetto ad altri personaggi fu che insieme a lui era stato accolto tra gli indiani anche un anonimo uomo di lettere che, come suo padre adottivo, provvide a trasmettergli un’istruzione di prim’ordine basata su idee libertarie e progressiste.
L'incontro-scontro tra Mark e Gufo Triste, da Collana Araldo, 2a serie, n. 100 |
Nella stessa storia si scopre anche l’origine dell’amicizia tra Mark e Gufo Triste, l’ex-capo di una tribù dei Grandi Laghi che, dopo essersi scontrato con lui per sete di vendetta contro i bianchi, decise infine di combattere insieme ai ribelli americani perché i soldati Inglesi avevano massacrato tutta la sua gente.
Benché
col suo fisico macilento Gufo Triste sia la caricatura di un indiano
pessimista e menagramo, quando non interpreta dei siparietti comici,
dimostra di essere capace di grande abnegazione, coraggio e lealtà
verso i suoi amici patrioti, rimediando così almeno in parte
all’immagine piuttosto stereotipata degli indiani selvaggi e
crudeli che gli autori avevano spesso dato di molti Nativi Americani
nelle loro serie precedenti.
Bufalo Bucolico e In Bocca Al Lupo, da Tumbleweeds di Tom K. Ryan |
Anche
in certe strisce americane degli anni ’60, l’umorismo degli
autori tendeva a sdrammatizzare la tragedia del genocidio e la triste
condizione degli ultimi Nativi Americani, ridendo di tutto e tutti
senza troppe remore.
Dal
1965 apparvero le strisce di Tom K. Ryan intitolate al pigro cow-boy
Tumbleweeds, un nome che indica i rotolacampi, le palle vegetali
mosse dal vento nei deserti americani, e che fu cambiato in Colt
sulla rivista italiana Eureka. In questa serie molto spazio è
dedicato alla sgangherata tribù indiana dei Poohawks, composta da
guerrieri ben poco audaci o saggi, ma al contrario pigri e infingardi
né più né meno dei bianchi.
Il capo dei Poohawks e Limpida Lucertola, da Eureka Pocket n. 11 (Ed. Corno, 1973) |
Nella
strip di Ryan infatti sia i nativi che i coloni sono per lo più
piccoli uomini incapaci ben al di sotto della statura dei miti
western, come l’inetto e sciocco guerriero Limpida Lucertola,
incapace di ottenere in alcun modo la mano di Piccola Colomba, la
figlia del capo per la quale spasima, o il suo iniziale rivale in
amore appena un po’ più deciso di nome Bargigli Verdi. Ma tra gli
indiani come tra i bianchi si aggirano anche speculatori cinici e
furbi, come l’uomo medicina, lo stesso capotribù e il minuscolo
indiano Buona Fortuna (o In Bocca al Lupo), che si prende sempre
gioco del grosso e stupido guerriero Bufalo Bucolico. E benché i
Poohawks siano tutto meno che pacifici, almeno finché non finiscono
le munizioni, non mancano le battute sarcastiche sugli inganni e
ladrocini ai danni degli indiani da parte delle altrettanto infide
autorità americane.
In
Italia Colt e i suoi buffi indiani sono apparsi, oltre che su Eureka,
in dei volumi dell’Editoriale Corno, tra cui il primo della serie
Comics-Box del 1969 e due della serie Eureka Pocket, e in un Oscar
Mondadori del 1971.
Redeye di Gordon Bess |
A
Tumbleweeds seguirono nel 1967 le più bonarie strisce di Redeye
(Occhio Rosso) di Gordon Bess, dedicate interamente a una strampalata
tribù indiana. Il nome del protagonista, capo della tribù dei
Chickiepan, è un cinico ma leggero riferimento alla tragedia
dell’alcoolismo di cui sono vittime ancora oggi molti indiani delle
riserve. Nella prima traduzione italiana sulla rivista Off-Side,
Redeye fu quindi ribattezzato Narice Rossa, poiché da noi è
l’arrossamento del naso più che dell’occhio a essere ritenuto
sintomo di ubriachezza.
Occhio di Talpa e Pinta di Rum, da Il Corriere dei Ragazzi (1974) |
Invece
su Il Corriere dei Ragazzi, dove la strip di Bess fu pubblicata negli
anni ’70, venne chiamata genericamente La Tribù Terribile,
praticamente lo stesso titolo datole anche in Francia, mentre il nome
del capo fu tradotto come Occhio di Talpa. Anche in queste strisce
troviamo un indiano sciocco che cerca inutilmente di convincere il
capo a concedergli la mano di sua figlia e il suo nome, Tanglefoot
(Piede Ingarbugliato), sembrerebbe un altro riferimento all’alcolismo
nelle riserve, infatti sul Corriere dei Ragazzi fu ribattezzato Pinta
di Rum. Gordon Bess proseguì la serie fino al 1988, dopodichè fu
costretto per motivi di salute a passarla ad altri due autori, Bill
Yates e Mel Casson, che la realizzarono per altri vent’anni.
Ma
con la fine degli anni ’60 del ‘900 si stava ormai per innescare
un’epoca di radicali trasformazioni nel costume e nel pensiero
occidentale, che non potevano che riflettersi anche in una completa
rivalutazione delle culture sottomesse dalle invasioni coloniali,
compresa quella dei Nativi Americani, sia nella letteratura che nel
cinema e naturalmente anche nei fumetti. Gli eroi dei western
disegnati dagli anni ‘70 in poi, non poterono più fare a meno di
tenerne conto e anche per non apparire simpatizzanti delle politiche
governative di esproprio delle terre dell’Ovest ai danni degli
indiani, finirono spesso per essere ancora più legati in vari modi
alla cultura indigena, come vedremo ampiamente nella terza parte di
questo lunghissimo articolo.
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