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mercoledì 6 gennaio 2016

L'ANGOLO DEL BONELLIDE (XXI): LA LUNGA STRADA DEL WESTERN FILO-INDIANO (seconda parte: arrivano Tex, Zagor e Mark!)

di Andrea Cantucci


Tex: L'Eroe e la Leggenda, da Romanzi a Fumetti n. 11 (SBE, 2015)



E voi chiamate selvaggi i Choctaw, i Creek, i Chickasaw, i Cherokee, i Seminole? Ma sono le cinque tribù civili; avevano le loro leggi, la loro religione…
dal romanzo Cimarron di Edna Ferber (1929)


…gli indiani non capiscono mai i bianchi, e viceversa.
dal romanzo Il Piccolo Grande Uomo di Thomas Berger (1964)




1949-1953: Indiani orfani e indiani bianchi

Pow-Wow Smith, su Western Comics n. 43 (DC, 1954)


Alla fine degli anni ’40, nei fumetti americani cominciarono ad apparire sia eroi indiani vestiti come i bianchi che eroi bianchi vestiti come indiani. Sull’albo antologico Detective Comics n° 151 del settembre 1949, lo scrittore Don Cameron e il disegnatore Carmine Infantino crearono il personaggio di Pow-Wow Smith, un indiano sioux di nome Ohiyesa che svolge l’attività di sceriffo in una cittadina del West contemporaneo e che quattro anni dopo diventerà il titolare della testata Western Comics, ambientata invece nel passato.

Dan Brand e Tipi, da White Indian n. 11 (Magazine Enterprises, 1953)


Sempre nel 1949 la tipica coppia composta da un eroe bianco e una spalla indiana subì una sostanziale modifica con l’apparizione, in appendice all’albo western Durango Kid, della serie Dan Brand and Tipi, disegnata inizialmente da Frank Frazetta e ristampata dalla Magazine Enterprises in una serie di cinque albi usciti dal 1953 al 1955 (e numerati da 11 a 15), col titolo modificato in White Indian (Indiano Bianco). Come dice il titolo definitivo, qui il protagonista Dan Brand, anziché portare un pard indiano nel mondo dei bianchi, adotta lui stesso la vita e l’abbigliamento dei nativi americani, unendosi alla tribù del suo giovane amico Tipi. 

White Indian, ristampa in volume (Vanguard Productions)

 
Quella che Brand definisce la sua missione è di tentare di fare da tramite e da paciere tra le due culture, in un’epoca come il XVIII secolo in cui invece le guerre in terra americana tra Inglesi e Francesi sfruttavano e alimentavano le inimicizie tra le varie nazioni indiane, mettendole le une contro le altre, oltre che contro i bianchi della parte avversa. L’ambientazione iniziale è quindi molto simile a quella de L’Ultimo dei Mohicani, ma qui i protagonisti finiranno per parteggiare per i ribelli anti-inglesi all’epoca della Rivoluzione Americana.
Con White Indian si inaugurò il filone dei bianchi che diventano veri e propri membri di tribù indiane, un filone che trae ispirazione da casi storici reali, poiché gli Indiani avevano davvero l’abitudine di adottare sia membri di altre tribù che di gruppi etnici diversi. Si conteranno molti altri esempi di indiani bianchi in albi successivi, usciti dal 1950 in poi, e non solo nei fumetti ma anche nella letteratura e nel cinema.

Indian Country di Dorothy M. Johnson (Ballantine Books)

Proprio nel gennaio 1950 la scrittrice Dorothy Marie Johnson pubblicò sulla rivista Collier il racconto A Man Called Horse (Un Uomo Chiamato Cavallo), in cui un aristocratico di Boston è catturato da una tribù indiana, reso schiavo e usato come animale da soma. Poi però riesce a integrarsi nella vita del villaggio, impara a comprendere e rispettare la cultura di chi lo tiene prigioniero e si guadagna a sua volta il loro rispetto nel modo più duro. Riconquista la dignità e la libertà perdute uccidendo degli indiani nemici e impossessandosi dei loro cavalli, sposa la figlia del proprio ex-padrone e diventa un membro accettato della tribù.
Il racconto era forse troppo avanti per l’epoca, nel rispetto che mostra nei confronti dei Nativi Americani, visto che il bianco non li assoggetta alla propria cultura, ma è lui a convertirsi alla loro. Nel 1958 A Man Called Horse fu adattato in un telefilm della serie Wagon Train, ma il cinema, in cui iniziavano ad apparire le prime pellicole moderatamente filo-indiane, non sembrava ancora interessato a soggetti così impegnativi. Solo nel 1968 la storia della Johnson sarà ristampata nella sua raccolta Indian Country (Paese Indiano) e poco dopo adattata per lo schermo dal regista Elliot Silverstein, con Richard Harris come protagonista.

Un Uomo Chiamato Cavallo, poster originale (1970)

Il film Un Uomo Chiamato Cavallo uscirà nel 1970 e il successo sarà tale che saranno realizzati due seguiti.
Alla fine del primo film, l’ex-cacciatore inglese John Morgan guida vittoriosamente in battaglia i suoi nuovi amici Sioux contro un attacco dei loro nemici Shoshoni, guadagnandosi così il diritto di tornare in Inghilterra, seguito da alcuni guerrieri. L’ex-prigioniero bianco, forte dell’esperienza bellica di secoli, finisce per insegnare agli Indiani solo un’efficace tattica di combattimento, ma essendosi adattato alla vita tribale, colui che si riteneva più civile ha scoperto un modo di vivere diverso, forse più duro, ma non necessariamente inferiore.
Il film infatti è interessante soprattutto dal punto di vista etnologico, nel ricostruire dal di dentro attività quotidiane e rituali tipici dei Sioux, come la tortura auto-inflitta della Danza del Sole con cui l’aspirante guerriero dimostra il proprio valore, in modo da essere accettato nella tribù e potersi sposare. Tra l’altro è la prima volta che gli indiani parlano sempre e soltanto nei loro idiomi autentici per tutta la durata di un film.
Ma in quel gennaio 1950 in cui era uscito il racconto che lo avrebbe ispirato, fumetti e cinema avevano ancora parecchia strada da fare, prima di arrivare a descrivere in modo così efficace la vera cultura indiana.

Straight Arrow n. 1 (Magazine Enterprises, 1950)

Ci provò, ma in modo inevitabilmente ancora ingenuo, la testata a fumetti Straight Arrow (Freccia Dritta), pubblicata dalla Magazine Enterprises dal febbraio del 1950. Si basava sull’omonima serie radiofonica scritta da Sheldon Stark e trasmessa per quasi trecento episodi tra il 1948 e il 1951 e non era dedicata a un bianco adottato dagli indiani ma a un indiano rimasto orfano e adottato dai Bianchi. Straight Arrow è infatti figlio di un guerriero comanche e a dieci anni resta il solo superstite del suo villaggio, dopo una strage compiuta da una banda di criminali composta sia da bianchi che da indiani. Il ragazzo giunge ferito al ranch degli Adams che lo allevano come loro figlio dandogli il nome di Steve. Alla morte dei genitori adottivi Steve Adams ne eredita la proprietà e la chiama Broken Bow Ranch (Ranch Arco Spezzato), riuscendo a integrarsi nella società dei bianchi solo perché si fa passare per uno di loro, ma non scorda le proprie origini e quando è necessario riprende la sua vera identità di Straight Arrow per affrontare criminali o altre minacce. 

Straight Arrow n. 55 (Magazine Enterprises, 1956)

 
La serie è in pratica una variante western del tema dell’identità segreta, con cui in quegli anni editori e produttori cercavano di sostituire i giustizieri con super-poteri, che dopo la fine della guerra non vendevano più. Si può notare infatti che il protagonista, un indiano che nella vita di tutti i giorni finge di essere un bianco, ha qualcosa in comune con Superman, che è un alieno che finge di essere un terrestre. Il fatto poi che si cambi d’abito in una caverna dove tiene il suo cavallo, ricorda facilmente sia Zorro che Batman.
Tra l’altro Straight Arrow, che tra il 1950 e il 1951 uscì anche in strisce giornaliere, fu sceneggiato per lo più dallo scrittore Gardner Fox, specializzato proprio in fumetti di super-eroi e romanzi di fantascienza.
La serie a fumetti di Straight Arrow durò fino al n°55 del 1956 e parallelamente apparve con altri personaggi anche sui ventisei numeri nella collana Straight Arrow Comics, oltre che sull’albo antologico Best of the West.

Buffalo Bill e Cheyenne Kid (Audace, 1951)


I disegni di Straight Arrow erano di Fred Meagher, autore sempre dal 1950 anche di un’altra importante serie western a strisce, quella di Buffalo Bill. Anche questi era in buoni rapporti con una tribù appartenente alla nazione Cheyenne, poiché nel primo episodio fece amicizia col giovane figlio del capo, chiamato con ben poca fantasia Cheyenne Kid (Ragazzo Cheyenne), che divenne subito il suo fedele compagno d’avventure.
Questa versione di Buffalo Bill apparve in Italia in una serie di albi a striscia, pubblicata dall’Audace nel 1951.

Indians n. 1 (Fiction House, 1950)


Un altro bianco adottato dai pellerossa fu Manzar the White Indian, alias Dan Carter, apparso dal n°1 della testata Indians – Picture Stories of the First Americans (Indiani – Storie per Immagini dei Primi Americani), una collana antologica dedicata esclusivamente a fumetti sui Nativi Americani, pubblicata dal 1950 dalla Fiction House e durata fino al n°17 del 1953. Ogni albo di Indians ospitava cinque episodi di contenuto diverso. Vi apparvero Lone Wolf the Avenger (Lupo Solitario, il Vendicatore), Orphan the Wild Pony (Orfano, il Pony Selvaggio), Starlight of the Hurons (Luce di Stelle degli Uroni) e Long Bow Blackfoot Boy (Lungo Arco, Ragazzo Piede Nero), che dal 1951 fu anche protagonista di una propria testata durata nove numeri.

Indians n. 10 (Fiction House, 1952)

Long Bow n. 1 (Fiction House, 1951)


Anche negli USA evidentemente i giovani lettori si identificavano più facilmente con eroi loro coetanei. Long Bow infatti è un giovane piede nero rimasto orfano quando dei guerrieri della nazione nemica dei Corvi gli uccidono i genitori. Suo padre prima di morire gli affida il proprio grande arco, che il ragazzo maneggia a fatica ma con cui riesce ugualmente a vendicarsi, salvando inoltre un uomo bianco che diventa suo amico.
Di Long Bow tra il 1960 e il 1963 uscì un’edizione inglese di trentuno numeri, molti più di quella americana, poiché conteneva anche storie di Long Bow e di altri personaggi apparse originariamente su Indians.

La collana Four Color Comics  sul n. 290 (Dell, 1950) tiene a battesimo la serie  The Chief


 The Chief, ottiene una serie regolare, ribattezzata Indian Chief . Questa la cover del n. 12 (Dell, 1953)

Poco dopo l’uscita di Indians, nell’agosto 1950 il n°290 della collana Four Color della Dell-Western ospitò il primo albo della testata The Chief (Il Capo), scritta inizialmente da Gailord DuBois e anch’essa dedicata a storie western con protagonisti indiani. Dovette avere un certo riscontro di pubblico, visto che col n°2 dell’aprile 1951 divenne una serie regolare trimestrale, il cui titolo cambiò dal terzo numero in Indian Chief.


 
Tra i primi personaggi di Indian Chief, le cui avventure furono disegnate anche dall’italiano Alberto Giolitti, ci furono White Wolf e Moon Maiden (Lupo Bianco e Giovane Luna), una coppia composta da un cacciatore pawnee e sua moglie, appartenente alla nazione irochese degli Onondaga, alle prese coi problemi quotidiani della vita di frontiera. Dal n°12 del 1953 subentrò invece come personaggio principale il capo indiano White Eagle (Aquila Bianca), in storie che furono disegnate prima da Morris Gollub e poi da John Buscema. L’aspetto di questo personaggio anticipava in qualche modo il successivo e ben più longevo Turok. Infatti la collana Indian Chief, e quindi anche la serie di White Eagle, si conclusero infine col n°33, nel 1959.


Il Passo del Diavolo, poster originale (1950)


Intanto tra luglio e settembre 1950 erano usciti i primi due film in cui cambiò radicalmente l’atteggiamento verso gli indiani, The Broken Arrow (L’Amante Indiana) di Delmer Daves e soprattutto Devil’s Doorway (Il Passo del Diavolo) di Anthony Mann. Erano antirazziste anche le storie d’amore raccontate, ne L’Amante Indiana tra un bianco e una giovane apache e ne Il Passo del Diavolo tra uno shoshone e una donna bianca.
Nella prima pellicola, ispirata a precisi fatti storici, lo scout Tom Jeffords interpretato da James Stewart avvia i primi negoziati di pace cogli Apache di Cochise, invitando al dialogo e alla convivenza tra culture diverse, ma la seconda costituisce una ancor più netta denuncia del razzismo verso i nativi a tutti i livelli.

Robert Taylor (a sinistra) è lo Shoshone Lance Poole ne Il Passo del Diavolo

L’indiano Lance Poole interpretato da Robert Taylor ne Il Passo del Diavolo è infatti un ex-soldato che, dopo aver combattuto nella Guerra di Secessione ed essere stato decorato, torna nel Wyoming per trovarsi assediato dall’intolleranza dei Bianchi, che gli negano anche il diritto di bere in un saloon. Un medico rifiuta addirittura di curare suo padre, che di conseguenza muore, mentre un affarista pretende di portargli via la sua terra, attraverso una violenta e pretestuosa aggressione razzista messa in atto contro l’intera comunità shoshone, nonostante le proteste della coraggiosa donna avvocato interpretata da Paula Raymond.
Con una storia in fondo semplice, il film quindi sintetizza e denuncia, oltre ai singoli atti razzisti, tutta la questione dei sistematici e continui espropri ai danni dei nativi messi in atto per lungo tempo, anche con leggi su misura, non solo dalle singole comunità dei coloni bianchi, ma dallo stesso governo degli Stati Uniti.


Apache Kid n. 8 (Atlas, 1951)


Un paio di mesi dopo l’uscita de Il Passo del Diavolo, la casa editrice Atlas Comics, con minori pretese, pubblicò un fumetto su un ennesimo indiano bianco, che come Lance Poole vive a metà tra le due culture. Apache Kid apparve sull’albo Two-Gun Western n°5 del novembre 1950, in una storia disegnata da un giovane John Buscema, e dall’anno seguente divenne titolare di una sua testata realizzata da altri disegnatori e durata per diciannove numeri, usciti in modo discontinuo fino al 1956. L’eroe della serie non ha niente in comune col personaggio storico Apache Kid (uno scout apache ribellatosi all’esercito e apparso anche in una storia di Tex), ma è il bianco Alan Krandall, allevato da un capo apache dopo essere rimasto orfano, che usa l’appartenenza alle due culture come un’identità segreta, vivendo tra i bianchi come un comune cowboy, sotto il falso nome di Aloysius Kare, e indossando il suo costume di guerra indiano per affrontare i criminali.

Apache Kid n. 11 (Atlas, 1954)


Apache Kid combatte e protegge tanto i Bianchi quanto gli Indiani, e la sua imparzialità ed equidistanza è confermata e rappresentata simbolicamente anche dai due comprimari che lo assistono nella serie, l’anziano capo apache Falco Rosso, suo padre adottivo, e il suo fratello bianco, il capitano dell’esercito Bill Gregory. Quasi trent’anni dopo avrà due “padri” simili anche un altro orfano sospeso tra la cultura dei coloni e dei nativi ma protagonista di un fumetto italiano, la giubba rossa Piuma Rossa, figlio di un bianco e un’indiana.

American Eagle di John Severin


Nel 1951 un indiano dal nome tanto patriottico quanto improbabile di American Eagle (Aquila Americana), i cui succinti abiti avevano i colori della bandiera USA, apparve invece come protagonista sull’albo Prize Comics Western della Crestwood/Pioneer Publications. I disegni erano di John Severin, che ne realizzò la serie fino al 1953, sforzandosi di riprodurre costumi e ambientazioni in modo sempre più realistico, così come erano particolarmente accurati i riferimenti storici alle nazioni indiane e alle loro alleanze e rivalità.
American Eagle è un capo dei Corvi, che erano alleati dei Bianchi e nemici di quasi tutte le altre nazioni delle praterie, e per questo molto spesso erano loro a fare da scout per l’esercito nel corso delle guerre indiane. Il contesto della serie è quindi plausibile e l’amicizia tra l’eroe e i Bianchi ben spiegata, anche se è ovvio che la maggior parte delle altre tribù non potevano certo considerare come personaggi eroici, ma piuttosto con disprezzo, quegli indiani che si mettevano al servizio dei Bianchi, come appunto i Corvi, i Pawnee o gli Ute.

Swift Arrow n. 1 (Ajax-Farrell, 1954)

I super-eroi che furoreggiavano nel decennio precedente erano ormai stati sostituiti provvisoriamente da altri fumetti, soprattutto western, e oltre a quelle già citate uscirono negli USA tra il 1950 e il 1956 molte altre testate di vari editori dedicate a nativi americani, benché di minore durata, come Indian Fighter, Redskin, Geronimo, Young Eagle, Indian Braves, Red Arrow, Fighting Indians, Swift Arrow, Warpath e Lone Eagle. 


Young Eagle n. 1 (Fawcett, 1950)


L’indiano Young Eagle (Giovane Aquila), pubblicato dalla Fawcett dal 1950, nell’aspetto ricordava abbastanza Tonto, mentre Swift Arrow (Freccia Veloce), che ottenne il suo albo nel 1954, era il “fratello pellerossa” dell’eroe Lone Rider, con cui costituiva una coppia che era una chiara imitazione di Lone Ranger e Tonto.

Kansas Kid, Collana Sparviero, 2a serie, n. 1 (Editrice Cremona, 1949)
Le unioni miste e la nascita di meticci, soprattutto figli di un bianco e un’indiana, erano eventi comunissimi nella Storia del West, anche per l’iniziale scarsità di donne bianche nelle terre di frontiera, ma pur essendo testimoniate anche da alcuni dei primi romanzi western come quelli di May o di Salgari, per quanto riguarda i protagonisti dei fumetti o dei film furono accuratamente evitate fino alla fine degli anni ’40 del ‘900.
Nel fumetto western italiano, il primo eroe meticcio, figlio del pistolero Wild Bill Hickock e di una principessa sioux, era stato Kansas Kid, realizzato dal 1948 da Carlo Saccarello e Carlo Cossio e uscito sulla Collana Sparviero dell’editrice Cremona, in due serie rispettivamente di cento e di cinquantatre numeri. Viste le sue origini, nelle sue storie gli indiani erano rappresentati in modo particolarmente rispettoso, a differenza di altri albi dell’epoca, anche se come tutti gli eroi del West doveva spesso affrontare delle tribù in fermento. Kansas Kid fu poi riproposto dall’editrice Zenit nel 1952, dall’editrice Selene nel 1955 e dalla Corno dal 1963. Una ristampa amatoriale delle sue avventure è inoltre stata pubblicata dalla Dardo nel 1995.

Kansas Kid, serie dakota n. 1 (Ed. Corno, 1963)

Silver Gek su Kinowa Raccolta n. 2 (Dardo, anni '50)


Da noi il primo importante eroe bianco allevato dagli indiani fu invece Silver Gek, che apparve fin dai primi episodi nella serie Kinowa, iniziata nel 1950 coi testi di Andrea Lavezzolo (che si firmava A. Lawson) e i disegni del gruppo EsseGEsse, composto da Giovanni Sinchetto, Dario Guzzon e Pietro Sartoris.
L’iniziale protagonista di Kinowa è Sam Boyle che, poiché la sua famiglia è stata massacrata dagli indiani e lui è stato scalpato e lasciato per morto, si vendica indossando una maschera demoniaca di pelle d’anatra (un dettaglio ispirato a un episodio di Prince Valiant) e uccidendo tutti i pellirosse che incontra, di ogni tribù. Quando porta la maschera gli indiani lo chiamano Kinowa, che dovrebbe significare Uomo-Spettro, mentre quando li combatte col suo vero volto, in qualità di scout dell’esercito, è chiamato da loro lo Scalpato.

Kinowa n. 1 (Dardo 1950)


Con tali premesse, Kinowa sembra tutto tranne una serie filo-indiana. Infatti la maggior parte dei Nativi Americani sono qui ancora visti in modo piuttosto razzista, come selvaggi subdoli, infidi e malvagi. Boyle però non sa che il sakem dei Pawnie invece di uccidere il suo figlioletto Jack lo ha adottato, cosicché, una volta cresciuto, è diventato un guerriero della tribù, nemico giurato dell’assassino di indiani Kinowa. Jack intende ucciderlo non sapendo che è suo padre, per cui si infiltra tra i bianchi col nome di Silver.
In questa sorta di feuilleton western è Silver Gek a permettere un certo cambiamento di prospettiva, fin dalle scene in cui attraverso di lui si accenna a vaghi elementi di spiritualità e lealtà indiana. Dopo che padre e figlio diventano amici, per poi riconoscersi, la loro reciproca influenza fa uccidere un po’ meno indiani a Sam Boyle e soprattutto attenua l’odio di Silver verso i Bianchi. I due si ripromettono addirittura di combattere le ingiustizie senza più badare al colore della pelle per portare la pace nei territori indiani, obiettivo che non potranno realizzare insieme a causa dell’apparente morte di Kinowa, o meglio di Sam Boyle. Dopo la sua scomparsa l’eroe della serie diventa Silver Gek e proprio suo padre morente, lo spietato uccisore di indiani, ne benedice l’unione con la giovane indiana Pallida Aurora (o Luna Sorgente), sua compagna d’infanzia.

Kinowa Raccolta n. 1 (dardo, anni '50)




La saga di Kinowa e Silver Gek uscì per la prima volta in una serie di albi quadrati dell’editrice Dardo, che poi l’ha riproposta molte volte e in vari formati, nel 1952, nel 1958, nel 1964 e nel 1976, in quest’ultima edizione sotto forma di albo bonellide. L’ultima riedizione, in ventotto albi di grande formato, è uscita nel 1990.
Dopo l’abbandono dei tre dell’EsseGEsse, che dal 1951 furono naturalmente sempre più assorbiti dalla realizzazione del loro Capitan Miki, i disegni della serie di Kinowa furono portati avanti da Pietro Gamba.

Kinowa n. 4 (Dardo, 1990)


Anche nella realtà storica, uno dei modi principali in cui un bianco poteva entrare a far parte di una tribù, oltre a quello di essere adottato da bambino, era naturalmente il matrimonio con una donna indiana. 

Tex 2a serie, n. 38 (Audace, 1950)

 
Se nei romanzi c’erano già state unioni multirazziali, come quella forzata tra il colonnello Devandel e l’indiana Yalla nel ciclo del West di Salgari, nei fumetti il primo eroe bianco a sposare un’indiana fu Tex, che in un noto episodio dell’agosto 1950 si unì alla principessa navajo Lilyth, quasi in contemporanea con il film L'Amante Indiana, uscito negli USA il mese precedente ma distribuito in Italia qualche mese dopo, in cui è lo scout Tom Jeffords a sposarsi con la giovane apache Sonseeahray con la benedizione del capo Cochise. 

Tex e Lilyth, dalla Collezione Storica a Colori n. 4 (2007)
 
Tex si distingueva così in senso antirazzista da altri eroi dei mass media, come Tarzan e Phantom, che pur regnando su popoli indigeni intraprendono lunghi e difficoltosi viaggi pur di procurarsi una moglie bianca.
Dopo la nascita del figlio Kit e la morte di Lilyth (che, anche se i dettagli si sapranno molti anni dopo, ricorda un po’ quella di Minnehaha nel poema The Song of Hiawatha), Tex iniziò ad accompagnarsi al guerriero Tiger Jack, il cui nome ricordava quello del Silver Gek apparso poco prima su Kinowa, e con lui costituì per breve tempo una coppia sul tipo di quelle di Old Shatterhand-Winnetou e Lone Ranger-Tonto.

Tex e Tiger Jack, su Tex Gigante n. 51 (Araldo, 1964)
 
Tex Gigante n. 91 (Araldo, 1968)






Il fatto che poi un bianco come Tex sia diventato capo supremo di tutti i Navajos (un ruolo di potere simile a quello di Winnetou) evoca facili reminiscenze neocolonialiste ma, benché abbia spesso combattuto contro indiani aggressivi, Tex ha spesso anche preso le difese dei popoli rossi, che fossero i suoi fratelli di sangue o altri. Se dei popoli nativi sono accusati di colpe non loro o aggrediti ingiustamente dai bianchi, Tex si oppone fermamente a ogni sopruso fino ad arrivare in certi casi a schierarsi apertamente contro lo stesso esercito degli Stati Uniti, a partire da episodi memorabili e ormai classici come Sangue Navajo e Vendetta Indiana.

Tex Quindicinale n. 33 (Audace, anni '50)

Tex Serie Gigante n. 3 (Audace, 1954)

In fondo Tex, a dispetto della sua carica di ranger e agente indiano, può benissimo essere considerato un “indiano bianco” come Dan Brand o Apache Kid, ovvero un americano adottato da una nazione indiana, come appare più evidente quando vediamo lui e suo figlio Kit in costume navajo, al villaggio in cui vivono. Tra l’altro il nome indiano di Kit, Piccolo Falco, ha un precedente illustre. È lo stesso di un famoso e valoroso guerriero sioux che combatté a lungo contro i bianchi e per la precisione il fratello di Cavallo Pazzo.
Riguardo invece al nome indiano di Tex, Aquila della Notte, non può essere un caso se ricorda quelli di due personaggi di Emilio Salgari. Chiaramente è ottenuto dalla fusione dei nomi Aquila Bianca e Uccello della Notte. Il primo è un capo Irochese la cui storia ha di certo ispirato anche l’episodio del matrimonio di Tex. 

Romanzo apocrifo ispirato al racconto di Salgari Aquila Bianca (Sonzogno, 1936)

 
Nel racconto che porta il suo nome, Aquila Bianca vive infatti una situazione identica a quella vissuta da Tex al palo della tortura, compreso perfino il bersaglio circolare disegnato sul petto e, esattamente come lui, prima di essere colpito viene salvato in extremis dalla figlia del capo dei suoi aggressori con cui poi si sposa.
Il nome Uccello della Notte è stato invece usato da Salgari sia per lo scorridore apache protagonista del suo racconto Il Bisonte Nero, che per il figlio nato dall’unione tra Devandel e Yalla che appare nel romanzo Le Frontiere del Far West. E sono tutti testi che naturalmente GianLuigi Bonelli non poteva non conoscere…

Aquila Bianca n. 1 (Editrice A.R.C., 1949)


Penna Azzurra, anno II, n. 9 (1948)


Il nome Aquila Bianca fu anche quello della seconda eroina indiana protagonista di un albo a fumetti italiano. La prima era stata Penna Azzurra di Pini Segna, pubblicata dall’Editoriale Sportiva nel 1947. I testi di Aquila Bianca erano invece di Gian Giacomo Dalmasso e i disegni di Enzo Magni, già autori nel 1948 di Pantera Bionda. Fu certo per bissarne il successo che nel ‘49 crearono questa principessa dei pellerossa dal costume quasi altrettanto succinto, per i canoni dell’epoca, tanto che già dal n°1 si intravede un piccolo intervento auto-censorio, con l’aggiunta sotto il suo abito di una sorta di sottoveste. Quella di Aquila Bianca rimaneva comunque una specie di minigonna ante litteram, ma non la indossò a lungo. Come per Pantera Bionda, intervenne di certo una pesante censura, visto che anche il suo abito si allungò sempre più e le ginocchia e le spalle, dapprima nude, della bella indiana furono inesorabilmente coperte. Eppure a parte l’innocua civetteria di quei pochi centimetri di pelle nuda, che forse a quei tempi poteva davvero attirare l’attenzione dei ragazzini più grandi, nelle sue storie, come in quelle di Pantera Bionda, non c’è niente di scabroso. 

Aquila Bianca n. 29

 
Aquila Bianca e il suo atletico amico Erwo, membri dell’immaginaria tribù indiana dei Castori, non fanno nulla di spinto (almeno mentre i lettori li guardano…). Più che altro cercano di mantenere la pace tra indiani e bianchi, anche con l’aiuto del cane Lip che somiglia a Rin Tin Tin. Nonostante ciò lo stesso tipo di censura, oggi davvero ridicola e dovuta a un certo bigottismo di marca cattolica, fu applicata in modo pesante fin dal n°1 anche nell’edizione di Aquila Bianca uscita subito dopo in Francia, col nome di Gazelle Blanche (Gazzella Bianca). Anche grazie a quest’edizione francese quasi contemporanea, la serie ebbe comunque un certo successo. Infatti in Italia Aquila Bianca fu sospesa provvisoriamente col n°28, mentre oltralpe proseguì.

Gazelle Blanche n. 1 (Editrice Sage, 1949)

Yabù, 1a serie, n. 8 (Edizioni Alpe, 1951)


Tra i primi eroi indiani titolari di una testata italiana si può citare anche il giovane capo Yabù, realizzato da Armando Bonato a partire dal 1950 e pubblicato dalle Edizioni Alpe, in due serie rispettivamente di trenta e dodici numeri, fino alla fine del 1953. Yabù, come Aquila Bianca, soffre ancora di una disinvolta approssimazione nell’iconografia dei costumi, spesso troppo ricchi e ricercati per degli indiani delle pianure.
Come accadeva al cow-boy statunitense Red Ryder, anche nei fumetti western italiani dei primi anni ’50 poteva poi capitare che dei piccoli orfani nativi fossero adottati da un eroe bianco a cui facevano da spalla. 

Rocky Rider di Mario Uggeri

 
È il caso del quasi omonimo Rocky Rider, uno sceriffo creato nel 1951 da Luigi Grecchi e Mario Uggeri sui supplementi de L’Intrepido. Questi adotta una piccola indiana di nome Fiore e un monello bianco di nome Golia, che a sua volta ammira talmente i pellerossa da girare sempre in costume indiano e col copricapo di penne in testa, un po’ come tanti bambini degli anni ’50 che quindi potevano facilmente identificarsi con lui.


Oklahoma!, 13° episodio, Albo d'Oro n. 366 (Mondadori, 1952)

Un altro piccolo indiano adottato invece da un ufficiale sudista è Oklahoma, nell’omonima serie a puntate pubblicata dal 1952 sugli Albi d’Oro di Mondadori, con testi di Guido Martina e disegni di Raffaele Paparella e altri. Il ragazzo è comunque coinvolto in una vicenda del tutto estranea alle tradizioni indiane, essendosi assunto il compito, alla morte del padre adottivo, di portare in salvo un pezzo della bandiera confederata. 

Forte Arco il Mohawk, da Ögan n. 5 (Dardo, 1965)
 

Un ennesimo eroe bianco che poco dopo la metà dell‘800 viene adottato dagli indiani è Strongbow the Mohawk (Forte Arco il Mohawk), ideato dall’editore inglese Edward Holmes e apparso per la prima volta nel 1953 sulla rivista Comet dell’editrice Allen, con i testi di Mike Butterworth e i disegni di Geoff Campion.
Il protagonista, perdutosi nella prateria da bambino, fu raccolto da un capo mohawk che poi lo chiamò Forte Arco, perché riuscì a tendere un arco sacro. Dopo che il loro villaggio fu distrutto dall’esercito, il giovane Strongbow, unico sopravvissuto al massacro, fu trovato e curato dal medico texano Ted Barnaby, che lo fece passare per suo figlio e gli fece studiare Medicina all’università. L’ex-indiano bianco divenne così il dottor Jim Barnaby, nonché un atleta sportivo campione di boxe. Anche il suo secondo padre adottivo fu però ucciso, stavolta dai Comanche, e Strongbow decise di riprendere la sua identità indiana per combattere e vendicare le ingiustizie da chiunque fossero compiute, conservando però anche l’identità del dottor Jim Barnaby. 

Strongbow The Mohawk su Comet (1953)

 
Il personaggio di Strongbow, che tiene nascosti arco e costume da mohawk dentro un albero sacro e che nel meccanismo dell’identità segreta ricorda molto Straight Arrow e Apache Kid, pur nella semplicità di un eroe degli anni ’50 è piuttosto sfaccettato, con qualità utili sia per un guerriero che per un uomo di pace e con sentimenti privi di parzialità del tutto equidistanti tra il mondo dei bianchi e quello degli indiani.
Strongbow uscì su Comet fino al 1957 e le sue ultime avventure furono retrodatate alla prima metà dell’800, il ché gli permise di diventare amico di due famosi eroi, l’Occhio di Falco protagonista de L’Ultimo dei Mohicani e il personaggio storico Davy Crockett, coi quali visse avventure particolarmente fantasiose.
In una nuova versione uscita sulla rivista Swift, Strongbow fu poi ribattezzato Blackbow the Cheyenne (Arco Nero lo Cheyenne) e le sue avventure tornarono a svolgersi dopo la Guerra di Secessione. Il nome fu cambiato per evitare problemi con la marca di liquore Strongbow, mentre l’appartenenza etnica fu modificata per motivi di verosimiglianza storica, visto che i Mohawk vivevano molto lontani dal Texas e dal West.
In questo periodo delle storie di Blackbow furono disegnate dall’italiano Pini Segna e pubblicate da noi prima dalle Edizioni della Bilancia e poi dalle Edizioni Pini Segna, col nome modificato in Blah Bow o Blak Bow.

Forte Arco, Occhio di Falco e Davy Crockett, da Avventura Gigante n. 21 (Dardo, 1972)

Nel 1963 Blackbow cambiò ancora editore, approdando sul giornale Eagle dell’editrice Fleetway, con storie scritte da Edward Cowan e disegnate da Frank Humphris e Don Lawrence. La Fleetway continuò a pubblicarlo fino al 1969 e lo esportò anche in Francia e in Italia, dove già uscivano i suoi fumetti di guerra.
Tra gli anni ’60 e ’70 Forte Arco il Mohawk fu così edito da noi dalla Dardo, che lo pubblicò, traducendone il nome originale, in appendice a Ögan il Principe Vichingo e sulla collana antologica Avventura Gigante.


1953-1955: Dalla parte del nemico

Se alcuni dei primi eroi indiani dei fumetti erano in realtà dei bianchi adottati, nei primi film più o meno filo-indiani dello stesso periodo erano degli attori bianchi a interpretare il ruolo del pellerossa protagonista.
 
L'Amante Indiana, poster originale (1950)

Kociss, l'Eroe Indiano - poster originale (1952)


Nella trilogia composta dai film The Broken Arrow (L’Amante Indiana), The Battle at Apache Pass (Kociss l’Eroe Indiano) e Taza Son of Cochise (Il Figlio di Kociss), usciti dal 1950 al 1954, il famoso capo degli Apache Chiricahua è interpretato dal grintoso attore Jeff Chandler e suo figlio Taza da un più spaesato Rock Hudson. Come si è detto, nel primo dei tre titoli James Stewart è Tom Jeffords (nel film uno scout, nella realtà storica il proprietario di una linea di diligenze), uno dei primi eroi western che, avviando le trattative cogli Apache e poi sposando una di loro, si guadagna l’accusa d’essere un rinnegato colluso col nemico, ma nonostante ciò è chiaro che è lui a stare dalla parte giusta (non quella degli Apache ma quella della pace), una bella differenza rispetto agli eroi ammazza-indiani senza neanche un dubbio dei tanti western precedenti.

Il figlio di Kociss, poster originale (1954)


Tutte e tre le pellicole prendono spunto da fatti storici e mostrano il punto di vista dei nativi più di quanto accadesse in passato, ma nella terza, nonostante le buone intenzioni e il coinvolgimento di veri pellirosse, si ricade nella facile e ipocrita distinzione tra indiani cosiddetti buoni come Taza, disposti a lasciarsi rinchiudere nelle riserve, e indiani considerati cattivi come Geronimo, solo perché combattono a oltranza piuttosto che cedere agli invasori. Tra l’altro, nel film Kociss l’Eroe Indiano il “cattivo” Geronimo è l’attore irochese Jay Silverheels, che nello stesso periodo interpretava anche l’indiano “buono” Tonto nei telefilm di Lone Ranger.


Kocis, il Re dei Pellerossa (Tomasina Editore, 1967)

In Italia la trilogia cinematografica su Kociss ispirò più o meno direttamente due o tre serie a fumetti scritte da Gianluigi Bonelli. I suoi primi albi a striscia intitolati a Kocis (scritto con una sola esse) furono pubblicati dal 1953, cioè proprio l’anno seguente all’uscita del film Kociss l’Eroe Indiano, dall’editrice Tomasina, che già tre anni prima aveva prodotto una serie di cinquantuno albi a striscia su un indiano di nome Aquila Rossa. 

Zà La Mort n. 1 (Audace, 1953)

 
Sempre nel 1953 Gianluigi Bonelli creò invece per l’Audace l’eroe indiano Zà la Mort, disegnato da Pietro Gamba. Il nome del personaggio era ripreso da quello di un criminale giustiziere del cinema muto, ma qui si tratta di un apache bronco che lotta contro i bianchi in difesa dei suoi fratelli rossi. All’inizio della serie sono citati come suoi amici proprio i protagonisti del film L’Amante Indiana, ovvero Cocise (scritto senz’acca) e Tom Jeffords, che qui appare infatti come pard di Zà la Mort, pur essendo uno scout dell’esercito.

Kociss n. 2, Collana Audace (1957)

Mentre i diritti della prima versione di Kocis rimasero all’editrice Tomasina, che la ristamperà in formato verticale nel 1967, Bonelli padre dal 1957 pubblicò sugli albi a striscia della Collana Audace una sua seconda versione a fumetti di Kociss (ora scritto con la kappa e due esse, come nei titoli italiani dei film statunitensi). Questa volta il celebre capo apache assomiglia in particolare al figlio di Kociss interpretato al cinema da Rock Hudson tre anni prima. Tale aspetto è dovuto anche ai disegni di Emilio Uberti, che nel raffigurare il torso nudo di Kociss si ispirava chiaramente allo stile di Burne Hogarth, fondamentale punto di riferimento per chiunque in quel periodo volesse disegnare delle anatomie atletiche in modo preciso e dinamico. 

Kociss su Tutto West n. 4 (Daim Press, 1987)
 
Anche il Kociss dell’Audace fu poi ristampato in formato verticale, sulla testata TuttoWest pubblicata dalla Daim Press nel 1987. Lo stesso personaggio è inoltre riapparso di recente anche in un volume dell’ANAFI.

El Sargento Kirk, da Misterix n. 226 (Editorial Abril, 1953)


Il Sergente Kirk, creato da Héctor Germán Oesterheld e Hugo Pratt e apparso sulla rivista argentina Misterix dal gennaio 1953, non è stato adottato dagli indiani da bambino ma da adulto, dopo aver militato per anni nell’esercito. Compie insomma una scelta di campo altrettanto controcorrente di Tex, disertando e unendosi a una tribù indiana trentacinque prima che uscisse il libro Dances with Wolves (Balla coi Lupi) di Michael Blake, trasposto nel 1990 nel film di Kevin Kostner. Anche Kirk è bollato dai bianchi come rinnegato al pari dell’ufficiale protagonista di quel romanzo, ma la sua scelta di disertare è più meditata e consapevole. Prima ancora di stringere relazioni cogli indiani infatti, la sua coscienza finisce per ribellarsi perché non vuole più contribuire a compiere massacri indiscriminati contro popoli hanno tutti i diritti di difendere le loro terre. 

Indiani comanche, da El Sargento Kirk (1953)

 
Kirk si unirà poi alla tribù dei Tchatooga diventando fratello di sangue di Maha, il giovane figlio del sakem, e distaccandosi sempre più dalla sua vecchia vita compirà varie imprese sempre in difesa dei più deboli, senza badare al colore della pelle e procurandosi la fama di guerriero giusto e leale anche tra le tribù avversarie.
Può sembrare curioso che, al contrario di Balla coi Lupi, il sergente Kirk pur vivendo tra gli indiani continui sempre a indossare la sua divisa da soldato. Il fatto è che, nonostante le sue scelte, sembra non aver mai smesso del tutto di considerarsi un militare. A un certo punto, grazie al suo spirito di abnegazione, riesce addirittura a ottenere il perdono dal colonnello della sua vecchia guarnigione. Anzi, cosa più unica che rara, il comandante si assume perfino tutta la responsabilità per aver schierato i suoi uomini dalla parte sbagliata. 

El Sargento Kirk, da Misterix n. 345 (Editorial Abril,  1955)


È poco credibile che una diserzione sia scusata tanto facilmente, ma così gli autori accomodarono le cose e, poiché i bianchi avrebbero continuato a odiare Kirk, il colonnello lo invia a esplorare le terre del Nord-Ovest. Ma anche dopo aver compiuto la missione, Kirk non tornerà ai suoi doveri di soldato e continuerà a vivere in un ranch con tre validi pard senza che il suo congedo sia spiegato (forse gli era solo scaduta la ferma…).
Ma ciò che più conta è che in quel lungo viaggio, e anche dopo, Kirk e i suoi tre compagni (l’indiano Maha, l’ex-bandito Corto e il dottor Forbes) incontrano vari popoli indiani e, se all’inizio sono quasi sempre costretti a scontrarsi con loro, anche a causa delle rivalità tra nazioni native, poi finiscono spesso per farseli amici.
Stanco degli indiani poco realistici dei fumetti e film dell’epoca, Pratt si preoccupò di rappresentare le nazioni indiane con tratti etnici e costumi più corretti, differenziando abiti e acconciature così che ogni popolo si riconosca da particolari caratteristiche, anche se in qualche caso tali costumi sembrano un po’ arbitrari.


Il Sergente Kirk e Maha


Comunque se Kirk riesce a farsi amici i Comanche, i Mandan o i Sioux, dopo averli combattuti, non è solo grazie a buone intenzioni e saggi principi, ma anche per averne ottenuto il rispetto in qualità di valoroso guerriero loro nemico, per cui molte tribù preferiranno averlo come alleato contro le nazioni avversarie.  
Anche gli Cheyenne, che Kirk affronta quando assaltano le carovane dei coloni, ricorrono al suo valido aiuto quando l’ennesimo ufficiale senza scrupoli ne distrugge i villaggi, massacrando donne e bambini, e di fronte a simili soprusi il sergente, al pari di Tex, non esita a mettersi ancora una volta dalla parte dei nativi. Al contrario quando tribù con cui era in buoni rapporti scendono in guerra contro i civili, per le solite violazioni dei trattati da parte dei bianchi, Kirk torna ad affrontarli a fianco dei vecchi commilitoni. In questi casi la generosità del sergente (che quando può evita di uccidere sia bianchi che indiani e non agisce mai in preda all’odio né in modo sleale) fa sì che gli indiani lo rispettino e lo ammirino anche quando lotta contro di loro.


Sgt. Kirk n. 16 (Ivaldi, ottobre 1968)

Il Sgt. Kirk è uscito in Italia per la prima volta sull’omonima rivista dell’editrice Ivaldi, tra il 1967 e il 1979. Fu poi ristampato negli anni ’70 dalla Cenisio, prima sull’albo Rin Tin Tin e Rusty e poi nella collana in formato bonellide Kirk Western. La saga di Kirk è stata raccolta in volumi da Mondadori e oggi dalla Rizzoli Lizard. L’ultima edizione, in cinque volumi, è uscita nella collana TuttoPratt allegata al Corriere della Sera nel 2014.

Osceola ritratto da George Catlin (1830)

È un cavalleggero con simili scrupoli anche l’eroe del film Seminole di Budd Boetticher, uscito negli USA nel marzo 1953 e ispirato alla storica resistenza dell’omonima nazione indiana guidata dal capo Osceola, una volta tanto interpretato da un attore con almeno un po’ di sangue indio, il messicano Anthony Quinn. 

Seminole, poster originale (1953)

 
Il protagonista del film è però il tenente Lance Caldwell interpretato da Rock Hudson, un amico d’infanzia di Osceola che è forse il primo soldato bianco del cinema a prendere le difese degli indiani, per cui come Kirk sarà considerato un traditore. Ma il vero tradimento, come si vede nel film, fu compiuto dall’esercito, che catturò Osceola recatosi a parlamentare. Il fatto è storico e il capo seminole morì davvero in carcere, ma di malattia o crisi cardiaca, probabilmente dovute alla durezza della prigionia e alla depressione che spesso colpiva gli indiani in cattività. Nel film invece, più comodamente per la coscienza dei bianchi, è ucciso da un seminole suo rivale che vuole continuare a combattere. Riecco la distinzione tra l’indiano buono e l’indiano cattivo. Qui però il bellicoso Kajeck è un guerriero duro ma leale, che salva dalla fucilazione l’ufficiale Caldwell accusato al suo posto e riporta tra i suoi le spoglie di Osceola da lui stesso ucciso, per onorarle degnamente. Perciò occupa il forte coi suoi guerrieri, ma senza infierire sui soldati che potrebbe sterminare facilmente, in uno dei pochi finali in cui gli indiani sono vittoriosi e magnanimi mentre la pace resta lontana.


Lance, di Warren Tufts (1956)

In effetti gli ultimi Seminole non si arresero mai e non furono sconfitti, sia per la loro ostinata resistenza che per il disinteresse dei bianchi per le inospitali paludi della Florida in cui furono costretti a rifugiarsi.
Se abbiamo citato il film di Boetticher è anche perché sembra aver ispirato un eroe dei fumetti creato un paio di anni dopo dal disegnatore Warren Tufts, un personaggio che condivide con l’ufficiale interpretato da Rock Hudson in quel film non solo il grado, il taglio dell’uniforme e l’antirazzismo, ma anche il suo stesso nome, Lance, e la fisionomia generale, anche se all’inizio i suoi lineamenti erano quelli dello stesso Tufts.
Lance apparve in tavole domenicali dal 1955 al 1960 e in strisce giornaliere tra il 1957 e il 1958, in una saga dapprima narrata solo con didascalie, dallo stile paragonabile a una sorta di Prince Valiant del West.
Come il suo precursore cinematografico, Lance St. Lorne è un tenente dei dragoni del tutto privo di tendenze razziste, anche se nella sua prima avventura, quando è ancora un giovane ufficiale inesperto e in cerca di gloria, si scontra imprudentemente con un capo degli indiani Sac rischiando di scatenare una guerra. 

Lance e Kit Carson tra i Kiowa (1956)

 
Ma sia nei flashback della sua giovinezza che nelle successive avventure in giro per il Nord-America, in cui spesso fa a meno della divisa, vediamo che in diverse situazioni Lance stabilisce delle relazioni amichevoli con varie tribù indiane, come quelle di Kiowa, Comanche e Sioux, prendendo anche parte attivamente alla loro vita quotidiana, nonostante altre volte non possa invece evitare di battersi, come contro i Piedi Neri.
Altre cose che la serie a fumetti di Lance ha in qualche modo in comune col film Seminole, sono l’uso libero ma plausibile di personaggi storici, come un giovane Kit Carson, e la meticolosa ricostruzione di costumi e scenografie, compresi naturalmente le usanze e l’aspetto dei veri Indiani d’America. Qui i loro abbigliamenti e acconciature sono infatti riprodotti in modo molto accurato e preciso, con una piccola concessione alla moda divistica hollywoodiana solo nel caso dell’abito stretto e provocante di una bella ragazza indiana…

Hondo, romanzo di Louis L'Amour (Bantam Books)

Un altro film uscito nel novembre 1953 che ispirò direttamente un fumetto fu Hondo, tratto da un racconto di Louis L’Amour dell’anno precedente, diretto da John Farrow e interpretato da John Wayne nel ruolo dello scout e portaordini dell’esercito Hondo Lane. Dal film L’Amour trasse un romanzo uscito nello stesso anno.
L’Hondo letterario e cinematografico, che nel 1967 sarebbe diventato anche protagonista di una serie di telefilm, ha vissuto tra gli Apache dopo aver sposato una di loro ed è rimasto vedovo perché sua moglie è stata uccisa dai soldati. È quindi molto affine a Tex e perciò non poteva che interessare il suo creatore.
Infatti un paio di anni dopo l’uscita in Italia del film Hondo, Gianluigi Bonelli si ispirò a lui per creare nel 1956 l’omonimo eroe di una serie di albi a striscia, Hondo l’Indiano Bianco, le cui avventure, disegnate da Franco Bignotti e divise in varie serie durarono in tutto centodiciassette numeri fino al 1958. L’Hondo disegnato si distingue però sia da Tex che da John Wayne per la sua lunga e abbondante chioma, da cui il suo nome indiano di Capelli Lunghi (mentre l’Hondo di L’Amour era detto Emberado, cioè Impetuoso in spagnolo). 

Hondo, poster italiano del film del 1953
 
Ciò che l’Hondo dei fumetti ha invece in comune con molti eroi western precedenti, da Lone Ranger a Tex, è la presenza di un pard indiano, nel suo caso il guerriero apache Natanis, insieme al quale tenta di fare da mediatore tra gli indiani e i bianchi. Il primo episodio della serie è però la storia di una vendetta, in cui Hondo aiuta Natanis a colpire i bianchi colpevoli di aver massacrato il padre, la moglie e il figlio dell’amico. Per certi versi la sua relazione con gli Apache è infatti più stretta di quella del personaggio di L’Amour. L’Hondo di Bonelli e Bignotti è un orfano allevato dal padre di Natanis, che perciò è suo fratello di sangue. La famiglia del suo pard indiano era quindi alla fine anche la famiglia di adozione dello stesso Hondo.
Le storie di Hondo sono state ristampate in formato verticale, prima su Zenith Gigante e poi su Tutto West.

Hondo su Zenith Gigante

Jerry Spring, da Collana Grandi Albi n. 1, supplemento a L'Avventuroso n. 3 (Sole editore, 1973)


Un altro eroe bianco decisamente antirazzista è il ranger Jerry Spring, creato nel 1954 dal belga Jijé (al secolo Joseph Gillain) sulle pagine del settimanale Spirou. Anche nel suo abbigliamento, caratterizzato da una camicia gialla e un foulard al collo, questo personaggio può essere considerato un po’ una versione d’Oltralpe del nostro Tex (o un anello di congiunzione tra Tex e Zagor, avendo un pard messicano…).


Jerry Spring n. 3 (Dupuis, 1956)


Anche se non si tira indietro se costretto a combattere contro bande di nativi, le idee di Jerry Spring sulla questione indiana sono ben chiarite dall’episodio intitolato Il Lupo Solitario, in cui il ranger cattura l’omonimo indiano accusato di omicidio per poi impedirne il linciaggio agevolandone la fuga. Dopo averlo catturato di nuovo, apprende da Lupo Solitario che le autorità non avevano voluto perseguire il bianco responsabile della strage della sua famiglia e perciò si era fatto giustizia da solo uccidendo il colpevole. Sapendo che nessuna giuria del paese avrebbe giudicato obiettivamente il suo prigioniero, Jerry preferisce lasciarlo fuggire in Canada con moglie e figlio e dare le dimissioni da ranger, anziché condurlo in carcere incontro a morte certa.

 
Jerry Spring su Tipitì n. 7 (Dardo, 1962)

L’eroe di Jijé risponde insomma alla sua coscienza prima che alla legge, soprattutto se i piatti della giustizia pendono da una parte sola. Lo stesso Tex, in situazioni simili, non si è comportato in modo troppo diverso.
In Italia Jerry Spring è apparso sull’albo Tipitì della Dardo nel 1962 e su L’Avventuroso di Sole Editore dal 1973. Di recente è poi uscita anche da noi, edita da Renoir/Nona Arte, la serie cronologica in volume Jerry Spring l’Integrale, che ne raccoglie tutte le storie, le stesse che dal gennaio 2016 dovrebbero uscire anche in edicola, in dieci albi della Collana Western che è allegata ogni settimana alla Gazzetta dello Sport.

L'Ultimo Apache, poster originale (1954)

A proposito di guerrieri indiani che affrontano da soli e senza speranze lo strapotere dell’uomo bianco, il film più filo-indiano del 1954, uscito nel luglio di quell’anno, fu certamente Apache (L’Ultimo Apache) diretto da Robert Aldrich e tratto dal romanzo Bronco Apache, scritto basandosi su fatti reali da Paul Wellman, autore anche della sceneggiatura del film. Per la prima volta al cinema il protagonista è un indiano irriducibile che combatte contro i bianchi senza compromessi, e per la precisione un guerriero della banda di Geronimo di nome Massai (come sempre non interpretato da un vero nativo, ma col volto di Burt Lancaster) che, mentre Geronimo e gli altri suoi compagni vengono deportati in Florida, riesce arditamente a fuggire.
Benché Massai sia descritto come un uomo sempre pronto a uccidere al minimo pericolo, lo spettatore che non sia del tutto cinico o razzista non può che identificarsi con lui e parteggiare per un guerriero rimasto solo a lottare contro un intero esercito che gli dà la caccia, senza avere in pratica nessuna speranza di salvarsi.


Apache Kid n. 19, copertina di John Severin (Atlas, 1956)

Il finale del libro fedele alla verità storica, in cui Massai finiva per essere ucciso e che sceneggiatore e regista volevano mantenere, per volontà dei produttori fu però modificato in un parziale lieto fine per assecondare gli ipocriti canoni hollywoodiani, ovvero per far sentire meno in colpa gli spettatori americani, cosicché l’eroe pur sconfitto è lasciato in vita e dovrà adattarsi anche lui alla sorte impostagli dal governo dei bianchi.
Forse non è un caso che nel dicembre del 1954, quindi cinque mesi dopo l’uscita del film L’Ultimo Apache, l’editrice Atlas riprese la pubblicazione degli albi a fumetti di Apache Kid, interrotta quasi tre anni prima. La serie fu ora affidata a John Severin, che nel frattempo era passato a lavorare per questo editore e poteva ormai essere considerato esperto del genere indian western per il suo meticoloso lavoro su American Eagle.


Albi Apaches (Editrice Vaglieri, 1955)

Anche in Italia il disegnatore Armando Bonato, già autore di Yabù, realizzò nel 1955 le storie di un guerriero apache dall’esplicito nome di Lupo Solitario, che furono pubblicate sugli Albi Apaches dell’editrice Vaglieri.
Il fatto che il nome Lupo Solitario sia stato usato per più personaggi non deve stupire, poiché è un tipico nome indiano, probabilmente appartenuto davvero a vari guerrieri, in particolare a un capo dei Kiowa.

Mocassin Noir, 2a serie, n. 1 (Editions des Remparts, 1959)

Il disegnatore Carlo Cedroni realizzò a sua volta le avventure di un altro indiano solitario di nome Mocassino Nero, pubblicato tra il 1954 e il 1956 sulla Collana del Puma delle Edizioni Erre-Ci. Questo personaggio fu tradotto in Francia come Mocassin Noir dalle Éditions des Remparts, in due serie rispettivamente del 1958 e del 1959, e poi riproposto ancora in Italia nel 1962 sulla Nuova Collana del Puma delle Edizioni S.E.D.I.P.
A conferma che i tempi stavano ormai cambiando, anche nel film The Indian Fighter (Il Cacciatore di Indiani), diretto da André DeToth nel 1955, a dispetto del titolo l’eroe Johnny Hawks interpretato da Kirk Douglas non si adopera più per combattere gli indiani come faceva in passato ma per ottenere la pace tra bianchi e Sioux, sventando i piani di due imbroglioni senza scrupoli che fomentano il conflitto per i loro scopi. A motivare maggiormente il suo impegno per riappacificare i due popoli, Hawks si innamora inoltre di una ragazza sioux, la bella Onahti, naturalmente non interpretata da una vera indiana ma dall’attrice italiana Elsa Martinelli, rimasta famosa soprattutto per la scena iniziale di questo film in cui fa il bagno nuda in un fiume…
Di The Indian Fighter fu realizzata anche una versione a fumetti sul n°687 della collana Four Color della Dell.

The Indian Fighter, su Four Color Comics n. 687 (Dell, anni '50)

1955-1960: Indiani convenzionali, indiani fantastici e indiani buffi

Alla metà degli anni ’50 del ‘900, i saggi sugli Indiani d’America stavano ormai uscendo dall’ambito un po’ specialistico degli studi etnologici entro cui erano rimasti per circa un secolo. Se nell’ormai lontano 1851 il primo studio serio su una singola comunità indiana, quella delle sei nazioni irochesi, scritto da Lewis Henry Morgan, aveva dato inizio alla moderna antropologia culturale, nel 1956 si arrivò al più ampio e sintetico volume di Oliver La Farge intitolato A Pictorial History of the American Indian (Una Storia Illustrata dell’Indiano Americano; edizione italiana: Il Mondo degli Indiani, Mondadori 1961), che con un linguaggio semplice rende accessibili a tutti, con abbondanza di documentazioni fotografiche e riproduzioni di dipinti d’epoca, i principali dati storici ed etnologici relativi alle più importanti nazioni indiane del Nord-America.

Il mondo degli Indiani, di Oliver La Farge (Mondadori, 1961)


Nello stesso periodo, anche in altri paesi uscirono libri che, nel loro piccolo, contribuirono alla divulgazione della vera cultura e narrativa orale indiana. In Italia uno dei primi rivolto al grande pubblico dovrebbe essere stato Pellerossa Storie e Leggende, scritto da Piero Pieroni nel 1954 e pubblicato dalla Vallecchi di Firenze.

Brave Eagle, Four Color n. 750 (Dell, anni '50)


A contribuire a divulgare un po’ un’immagine positiva degli indiani contribuì, tra il 1955 e il 1956, anche la produzione da parte della NBC di una serie di telefilm in ventisei episodi, poi trasmessi invece dalla CBS, con protagonista un giovane e pacifico capo cheyenne, Brave Eagle (letteralmente Aquila Valorosa), le cui avventure furono anche trasposte a fumetti dalla Dell sulla solita collana Four Color. Naturalmente ancora una volta l’eroe non era interpretato da un vero indiano, ma dall’attore d’origine norvegese Keith Larsen, probabilmente solo perché volevano un guerriero alto e gli scandinavi hanno pochi peli come gli indiani. In compenso il figlio adottivo di Brave Eagle, Keena, era un vero giovane indiano hopi di nome Anthony Numkena, mentre il ruolo femminile di Morning Star (Stella del Mattino) andò all’indiana sioux Kim Winona.

Penna di Falco, 1a serie, n.18 (Cenisio, 1962)

 
Come succedeva nei telefilm dell’epoca i protagonisti riproducono una sorta di unità familiare, col meticcio Smokey Joe interpretato dal comico Bert Wheeler che fa un po’ da zio saggio. Ma gli altri indiani di contorno, impersonati per lo più da comparse americane, appaiono decisamente falsi, anche per i loro costumi piuttosto ingenui e scontati. Ad ogni modo Brave Eagle si impegna soprattutto per mantenere la pace sia con le altre nazioni indiane che coi coloni bianchi, scontrandosi inevitabilmente anche con vari pregiudizi razziali. 
I telefilm di Brave Eagle furono trasmessi anche in Italia, col nome del protagonista cambiato in Penna di Falco Capo Cheyenne, lo stesso titolo con cui furono tradotti anche i suoi albi a fumetti, pubblicati da noi dall’Editrice Cenisio in due serie, una di diciannove numeri tra il 1961 e il 1962 e una di dieci nel 1965.


L'Ultima Caccia, poster originale (1956)

Si continuarono inoltre a produrre film che consideravano il punto di vista dei Nativi Americani, come The Last Hunt (L’Ultima Caccia), tratto dall’omonimo romanzo di Milton Lott e diretto da Richard Brooks nel 1956.
Anche qui si assiste ancora una volta al comportamento opposto di due tipi di uomini bianchi, in questo caso due cacciatori di bisonti, uno interpretato da Stewart Granger che aiuta una tribù indiana a sfamarsi durante l’inverno (anche stavolta per intercessione di una bella indiana) e l’altro, interpretato da Robert Taylor, privo di scrupoli e pronto a far strage sia di bisonti che di indiani con la stessa indiscriminata spietatezza.
Anche la versione a fumetti di The Last Hunt fu pubblicata sulla collana Four Color, precisamente sul n°678.

La Tortura della Freccia, poster originale (1957)

Invece nel film di Samuel Fuller Run of the Arrow (La Tortura della Freccia) del 1957, un soldato confederato interpretato da Rod Steiger per non arrendersi ai nordisti se ne va a Ovest. Qui, più o meno come successo a Tex, è fatto prigioniero dai Sioux e, per evitare una brutta fine, sposa una di loro e si unisce alla tribù, convertendosi al loro modo di vivere e aiutandoli poi a non farsi ingannare dall’esercito dell’Unione. Come al solito anche qui il capo dei Sioux non è interpretato da un vero indiano, ma dall’attore Charles Bronson.
A questi seguirono altri film in cui si restituisce un po’ di dignità agli indiani, a volte condannando la violenza con cui certi bianchi si accanivano contro di loro, mentre il lento mutamento di giudizio storico sui fatti del West si riscontrava anche nei fumetti di vari paesi, su cui apparivano saltuariamente dei protagonisti indiani.
In tale clima di graduale ma sempre più decisa rivalutazione della cultura dei Nativi Americani, vari autori dedicarono non più a dei bianchi adottati ma a dei veri indiani, delle storie di genere sempre più vario. 

Turok Son of Stone n. 14 (Dell 1958)
 

Nell’ottobre 1954, la Dell/Western Publishing aveva pubblicato il primo albo di quella che sarebbe diventata una delle serie più originali e longeve su un nativo americano, Turok Son of Stone (Turok, Figlio della Pietra), inizialmente scritta da Gailord DuBois e disegnata da Rex Maxon. Dopo due numeri di prova usciti su Four Color, nel 1956 Turok passò su una sua testata regolare a partire dal n°3 e in seguito gli autori furono sostituiti dallo scrittore Paul S. Newman e dal disegnatore italiano Alberto Giolitti. Questa prima serie passò dall’editrice Dell alla Gold Key e infine alla Western’s Whitman e si concluse col n°130 nel 1982. Protagonisti sono due indiani, il maturo Turok e il più giovane Andar, appartenenti a una tribù e un’epoca imprecisata, che si ritrovano prigionieri in una valle piena di dinosauri e altri esseri preistorici, uomini primitivi compresi. 

Turok Son of Stone n. 93, ristampa del n. 19 del 1960 (Whitman, 1974)
 
Sembra che il soggetto in origine dovesse essere l’argomento di un episodio di Young Hawk (Giovane Falco), un altro indiano protagonista di una precedente serie scritta da DuBois in appendice agli albi di Lone Ranger.
Il problema dei conflitti con la civiltà dei Bianchi qui non si pone e, in un ambiente così alieno, il lettore si identifica coi due indiani, per conoscenze e mentalità più progrediti degli uomini preistorici che incontrano.
Storie della prima serie di Turok, soprattutto del periodo di Giolitti ma non solo, sono state pubblicate in Italia dalle Edizioni Fratelli Spada, prima in una sua testata di quindici numeri dal 1972 al 1974 e poi in dieci fascicoli nella collana Albi Spada, uscita dal 1974 al 1977, a rotazione con altri personaggi della Gold Key.

Turok n. 4 (Fratelli Spada, 1972)

Dieci anni dopo la conclusione della prima serie, altre versioni di Turok, più moderne e anche più violente, sono state pubblicate da vari altri editori, a cominciare dalla Valiant che nel 1992 reintrodusse il personaggio sull’albo Magnus Robot Fighter. In queste storie Turok è un kiowa proveniente dal XIX secolo che, attraversata l’epoca dei dinosauri per una distorsione spazio-temporale, giunge nel futuro. Nel 1993 la Valiant varò quindi una nuova testata di Turok col sottotitolo modificato in Dinosaur Hunter (Cacciatore di Dinosauri), ambientata nel XX secolo e uscita più o meno in contemporanea con il film Jurassic Park, che fu la principale causa di un rinnovato interesse per i dinosauri, cosa che non può certo essere stata casuale.

Turok Dinosaur Hunter n. 4 (Valiant 1993)

Oltre a due speciali e un paio di miniserie, il Turok della Valiant, di autori come Timothy Truman e Rags Morales, durò quarantasette numeri, di cui i primi pubblicati in Italia sulla testata a lui dedicata dalla Playpress nel 1994. In questa versione Turok per lo più uccide da solo i dinosauri giunti nel presente, visto che Andar, il suo giovane amico di una volta, è stato estromesso dalla serie, anche se nel n°4 l’eroe lo incontra di nuovo nel corpo di quello che per un paradosso temporale è ormai diventato un vecchio indiano.
Altre versioni di Turok dalla durata più breve e in cui a volte il personaggio ha caratteristiche ancora diverse, sono state pubblicate dalla Acclaim nel 1998, dalla Dark Horse nel 2010 e dalla Dynamite nel 2014.

 
Furia Rossa, supplemento a Jungla Avventurosa nuova serie n. 2 (Editrice il Ponte, 1956)

Anche in Italia a metà anni ‘50 uscirono altri eroi indiani protagonisti di serie a fumetti più o meno effimere.
Le avventure di Aquila Bianca ripresero nel 1955 col nome cambiato in Penna Bianca, sulla collana Jungla Avventurosa dell’editrice Il Ponte. Le due brevi serie, di undici numeri in tutto, furono raccolte subito dopo in dei supplementi intitolati Furia Rossa. Sul finire della prima serie, alla regina dei Castori Penna Bianca subentrò come personaggio principale suo figlio Jutak, che, diventato il nuovo sakem, sulla stessa collana fu poi titolare tra il ‘56 e il ‘57 di altre due brevi serie, scritte e disegnate come le precedenti da Pini Segna.

Jutak, 2a serie, n. 5 (Editrice Il Ponte, 1957)


I Tre del West (Editrice Il Ponte, 1957)

Ma le avventure di Jutak non erano ancora concluse. Tra il 1957 e il 1959 fu anche uno dei protagonisti de I Tre del West, un’altra serie di Pini Segna dedicata a tre personaggi di diverse etnie (un bianco, un rosso e un nero) e durata per trentotto albi divisi in due serie di diverso formato. Allo stesso tempo il sakem figlio di Penna Bianca apparve anche nella serie Yumak, pubblicata nel 1958 sulla Collana Tam Tam, la stessa su cui, tra il 1961 e il 1963, furono ristampate le storie di Penna Bianca, Jutak e I Tre del West. Jutak fu poi ripreso, col sottotitolo Il Sakem Invincibile, in una serie di nove numeri pubblicata dalle Edizioni Metro nel 1974.

Jutak il Sakem Invincibile (Edizioni Metro, 1974)


L’editrice Il Ponte, che poi cambierà nome in Edizioni Bianconi, a fine anni ’50 pubblicò anche altri due eroi indiani: Aquila Rossa, apparso nel 1957 coi disegni di Vladimiro Missaglia e di Pini Segna e raccolto in episodi completi col titolo Furia Indiana, e Falco Nero, uscito nel ‘59 e ripreso nel ‘63 sulla collana Super Tam-Tam.


Furia Indiana, Raccolta Aquila Rossa (Editrice Il Ponte, 1957)


Falco Nero n. 1 (Editrice Il Ponte, 1959)


Oltre alla serie di Jutak, nel 1956 apparvero un paio di eroi indiani in formato a striscia, Rama l’Apache di Andrea Lavezzolo e Virgilio Muzzi, edito dalla Dardo e ristampato nel 2009 dall’Editoriale Mercury, e Tom Tom, ispirato sia nel nome che nell’aspetto all’amico di Lone Ranger, disegnato da Renzo Orrù e pubblicato dal n°11 degli Albi Tascabili Arcobaleno dell’omonima editrice, al posto della Giubba Rossa Thunder Jack.


Tom Tom, Albi Tascabili Arcobaleno n. 11 (1956)


Rama l'Apache n. 1 (Dardo, 1956)

Come già detto, nel 1957 Gian Luigi Bonelli scrisse la sua seconda versione di Kociss, capo apache che oltre a difendere la sua gente dalle prepotenze dei colonizzatori bianchi vive anche avventure fantasiose con riti magici, valli perdute e animali mostruosi. Ma quell’anno lo stesso Bonelli insieme al disegnatore Francesco Gamba, diede vita anche a un altro eroe indiano, Yado, un guerriero pahute dotato di arcani poteri in quanto figlio di uno sciamano. Quando la sua tribù cattura una donna bianca, Yado si comporta come Lilyth con Tex, cioè la sposa per salvarle la vita, ma in questo caso lui e sua moglie vengono esiliati dalla tribù. Yado userà comunque i suoi poteri per vendicare i maltrattamenti subiti dai suoi genitori, accompagnato nelle sue avventure da un cavallo bianco e un coyote coi quali è in grado di parlare grazie alle sue doti sciamaniche. 


Yado, ristampa in volume su Collana Autori n.4 (Milone Editore, 1999). Copertina di Francesco Gamba.

Indians n. 60, edizione francese (Imperia, 1960)


 
Sempre nel 1957 l’editrice francese Imperia sostituì una sua precedente collana western intitolata Prairie (Prateria) con l’edizione locale della testata Indians, che durò fino al 1960. Tutti e sessanta i numeri avevano copertine dell’italiano Rino Ferrari. Anche l’Indians francese è dedicata esclusivamente ai Nativi Americani e, oltre a serie tratte dall’omonimo albo statunitense come Starlight e Longbow, contiene anche personaggi di altri editori USA come White Indian, Lone Eagle e Swift Arrow, personaggi inglesi come Strongbow the Mohawk, qualche storia italiana tratta da Il Vittorioso e naturalmente anche delle storie francesi originali.


I ladri di giovenche, da Occhio di Pollo di Jacovitti (1957)


Tra le storie italiane tradotte in Francia su Indians, ci fu anche il primo episodio dell’inetto e gracile indiano Occhio di Pollo della tribù dei Ciriuaua, creato da Jacovitti su Il Vittorioso nel 1957 e poi ripreso brevemente dallo stesso autore nel 1972 sul Corriere dei Piccoli, dove però la sua tribù cambiò nome in Ciriuacchi.
Nella sua prima avventura, Occhio di Pollo affronta una banda di bianchi che rubano le giovenche della sua tribù e supplisce alle proprie carenze guerresche con abbondanti dosi di coraggio (o incoscienza), ricevendo anche un bel po’ d’aiuto dall’eroico Boffalo Bill, detto Cotenna Gialla, trasparente parodia di Buffalo Bill. 

Occhio Di Pollo, di Jacovitti (1957)

 
Il fatto che i Ciriuaua allevino mucche pare una delle solite buffe trovate di Jacovitti, visto che nell’800 la gran parte degli indiani non possedevano bovini, o almeno non gli Apache come i Chiricahua. Ma dal 1920 gli Apache della riserva di San Carlos divennero davvero padroni di mandrie di bestiame, grazie ai loro ottimi pascoli, il ché provocò contrasti cogli allevatori bianchi della zona. Chissà se l’autore ne era a conoscenza…
Anche in Occhio di Pollo c’è un indiano cattivo, come nei film dell’epoca, ma stavolta nel senso che tradisce i suoi fratelli indiani. Il subdolo Treccia Giovanni è infatti prima in combutta coi ladri e poi deciso a usurpare i meriti di Occhio di Pollo, ma non avrà il coraggio di andare fino in fondo e finirà per pentirsi e confessare, ottenendo il perdono per intercessione del protagonista, in sintonia con la morale cattolica del giornale.
La storia del piccolo indiano Occhio di Pollo, insieme a un altro western di Jacovitti, è stata poi raccolta in un volume cartonato di Mondadori del 1971, intitolato Per un Pugno di Spiccioli & Occhio di Pollo.

Oumpah-Pah 1 (Le Lombard, 1958)

Nei fumetti degli anni ‘50 non mancavano altre parodie dei pellirosse, come le storie del piccolo e scaltro indianino Caribù, realizzato da Antonio Interlenghi per l’editrice Alpe, o quelle del muscoloso guerriero Oumpah-Pah creato da due grandi autori francesi, René Goscinny e Albert Uderzo, e apparso in cinque episodi, usciti sul settimanale belga Tintin dal 1958 al 1962 e poi raccolti in tre album tra il 1961 e il 1967.
Oumpah-Pah, il cui nome riproduce ironicamente il ritmo di un valzer, vive nei pressi di una colonia francese in terra americana durante il XVIII secolo. Il nome della sua tribù, i Shavashavah, che in francese si legge come ça va ça va (va bene va bene), nell’ortografia somiglia anche all’inglese shave (rasatura), che si potrebbe anche riferire all’uso di scalpare i nemici, una pessima abitudine che per la verità era stata introdotta dai bianchi, ma a cui a quell’epoca molte tribù indiane presero effettivamente gusto… Lo stesso Oumpah-Pah, nel primo episodio, si appresta a scotennare il nobile ufficiale francese Hubert de la Pâte Feuilletée, ma ci rinuncia accorgendosi con sgomento che porta una parrucca e finisce per diventarne amico ribattezzandolo Doppio Scalpo. Dopo di ché i due vivono varie avventure, contro pirati e tribù nemiche. 

Oumpah-Pah L'Intégrale (Les Editions Albert René)
 
In Italia Oumpah-Pah apparve inizialmente sul Corriere dei Piccoli, mentre da poco ne è uscita anche da noi l’edizione integrale in un solo volume, pubblicata da Renoir/Nona Arte col nome trascritto Umpah-pah.

Da Lucky Luke, 14° episodio (Dupuis, 1958)


In quel periodo lo stesso Goscinny insieme al disegnatore belga Morris creò varie altre gustose caricature di pellirosse anche nella lunga serie del cowboy solitario Lucky Luke. Cheyenne, Sioux e Apache finirono tutti sotto la sua lente deformante, descritti come dotati di un misto di candida ingenuità e di sottile furberia, col protagonista che a volte apre loro gli occhi sugli inganni spesso perpetrati ai loro danni, mentre in altri casi si approfitta lui stesso, ma a fin di bene, della loro scarsa comprensione degli oggetti usati dai bianchi.
Nel 14° episodio di Lucky Luke sono gli indiani a fare un vero affare a spese degli americani, che dopo aver confinato molti popoli rossi in Oklahoma vogliono impossessarsi anche di quella terra brulla e inospitale. Gli indiani la cedono per un mucchio di collanine, ma quando i coloni si daranno per vinti e ripartiranno, la ricompreranno a un prezzo irrisorio dal governo che non la vuole più e finiranno per trovarvi il petrolio diventando ricchi. Nella realtà le cose non andarono proprio così, ma neanche in modo troppo diverso…

Cimarron di Edna Farber, un'edizione italiana (Mursia, 1968)

1960-1967: Visioni, vendette e vite tribali

L’episodio di Lucky Luke La Corsa all’Oklahoma, disegnato da Morris nel 1958, fu raccolto in volume nel 1960 e lo stesso anno uscì un film esattamente con la stessa ambientazione, Cimarron, diretto da Anthony Mann e tratto dall’omonimo romanzo di Edna Ferber, pubblicato nel 1929 e già adattato al cinema nel 1931.
Il nome Oklahoma in lingua choctaw significa Gente Rossa, poiché in quel territorio erano stati volta per volta deportati ed esiliati gli indiani le cui terre originarie erano state occupate dai bianchi. Sia nel libro che nel film Cimarron, si evidenziano le tristi e rassegnate condizioni di quegli antichi abitanti delle Americhe, popoli come i Cherokee, adattatisi alla civiltà dei bianchi e nonostante ciò scacciati dalle loro città dell’Est, deportati in Oklahoma attraverso una marcia inumana, con altre nazioni indiane come gli Osage, e dopo cinquant’anni di nuovo spogliati dei loro territori ed emarginati dall’ennesima invasione di coloni americani.


Cimarron, poster originale del film del 1931

In Cimarron uno dei pochi bianchi a prendere vigorosamente le difese degli indiani è il protagonista Yancey Cravat, un giornalista e avventuriero che nel film del 1960 ha il volto di Glenn Ford ed è detto appunto Cimarrón (nome che in spagnolo significa selvatico e si riferisce anche al territorio non ancora civilizzato).
In quella pellicola tra l’altro si vede un terribile e spietato linciaggio ai danni di un indiano innocente, che viene impiccato dai bianchi senza nessun motivo, per pura persecuzione razziale, dopodichè la vedova e la figlioletta dell’ucciso vengono accolte da Yancey e da sua moglie Sabra in casa loro. Le scene come questa di vera e propria violenza razzista verso gli indiani (e anche verso gli ebrei) sono però state aggiunte nel film ed erano assenti nel romanzo originale di trent’anni prima, in cui invece si descrive il modo altrettanto feroce e spietato con cui gli indiani Osage avrebbero impedito le unioni miste con gli afroamericani.

Cimarron, poster italiano del film del 1960


Anche nel libro della Ferber si mostra il razzismo verso gli indiani, ma esprimendolo più che altro attraverso parole e atteggiamenti. La stessa Sabra nel romanzo è molto più razzista che nel film (se ospita delle ragazze indiane in casa sua è solo in qualità di serve) e le occorre quasi tutta la vita, ovvero tutto il romanzo, per arrivare a condividere almeno in parte le idee antirazziste del marito. Nonostante ciò loro figlio Cimarron, che ha preso dal padre, sposa la figlia di un capo Osage la cui famiglia ha trovato il petrolio nella propria terra e così, paradossalmente, si arricchisce imparentandosi coi pellirosse a lungo disprezzati dalla madre.

Un rito del peyote, dipinto indiano del 1910 circa

Nel romanzo è anche interessante la breve descrizione dei riti del culto del peyote, un modo con cui i nativi hanno cercato di consolarsi delle loro tristi condizioni sociali. Tale fungo allucinogeno, potendo procurare visioni, è ancora oggi usato in rituali sciamanici indiani, simili a una sorta di comunione. Teoricamente lo scopo consisterebbe nel rendere accessibili delle esperienze mistiche anche a chi non è uno sciamano. In pratica si tratta anche e soprattutto di evadere, almeno con lo spirito, da una realtà frustrante e desolata. Nel libro questo rito è comunque descritto solo dall’esterno e non vi si dice che cosa sognino i partecipanti.


Alce Nero parla (edizione Bompiani, 1988)


Un altro tipo di rapimenti estatici e visionari è invece descritto vividamente in un altro libro, a cura del poeta John Gneisenau Neihardt, intitolato Black Elk Speaks (Alce Nero Parla), che fu ripubblicato nel 1961 dall’Università del Nebraska dopo essere uscito la prima volta nel 1932. In questo caso non si tratterebbe di visioni indotte ma spontanee. Il volume infatti si presenta come l’autobiografia di un vero sciamano sioux nato nel 1863, che parla di come in gioventù avesse conosciuto Toro Seduto e Cavallo Pazzo e assistito a eventi come la battaglia del Little Big Horn e la strage di Wounded Knee, e anche delle sue esperienze mistiche, in cui le visioni di un altro mondo, carico di potenti immagini metaforiche, si imponeva su di lui.

Alce Nero in età avanzata


Negli anni ’60, grazie al mutato contesto culturale, il libro Alce Nero Parla ottenne considerazione e successo ben maggiori e nel 1968 fu tradotto in Italia dalla Adelphi. Intanto era uscito nel 1953 un altro libro basato su una serie di interviste ad Alce Nero, a cura dell’antropologo Joseph Epes Brown, dal titolo La Sacra Pipa.
In seguito gli hanno dedicato altri libri, di volta in volta a sostegno del suo essere uno sciamano che ha finto di convertirsi al Cristianesimo, o un uomo che ha rinnegato il suo passato di uomo medicina diventando missionario cattolico. Ma se Alce Nero avesse considerato un imbroglio la sua vita precedente di uomo sacro, si potrebbe sospettare che fosse passato da un imbroglio all’altro, poiché la missione cattolica gli passava uno stipendio, forse esiguo per un bianco ma elevato per un indiano delle riserve, in cambio della sua attività di catechista che sfruttava il suo vecchio ascendente di sciamano per convertire altri indiani al Cristianesimo.
 
Un Black Elk citato su Tex Gigante n. 91 (Araldo, 1968)


Il fatto è che in genere la separazione intollerante che i bianchi fanno tra riti tradizionali e riti cristiani non esiste affatto per gli indiani, che a volte si dedicano a entrambi i culti senza farsi problemi. Intanto Alce Nero era morto nel 1950, senza poter confermare né smentire le idee attribuitegli dai sostenitori delle varie tesi.
Prima ancora che il libro Alce Nero Parla uscisse in italiano, il nome Black Elk apparve anche in una storia di Tex che abbiamo già citato, Vendetta Indiana, in cui però apparteneva a un capo ute e non a uno sciamano. Ma a parte qualche storia di Tex come questa, in cui si descrive il massacro di un villaggio indiano simile a quello davvero compiuto nel 1868 dai cavalleggeri di Custer sul fiume Washita, i fumetti western che uscivano intorno al 1960 generalmente non tenevano ancora molto conto della vera storia e cultura indiana. 

Kiki Manito, da Zagor Speciale n. 4 (SBE, 1991)
 

Delle esperienze collegate al misticismo indiano saranno comunque vissute in seguito anche da uno dei più noti eroi del fumetto italiano, lo Zagor creato da Guido Nolitta e Gallieno Ferri proprio nel 1961. Nelle sue storie, ricche di elementi magici e horror, hanno finito per verificarsi saltuarie apparizioni del dio Kiki Manito (il Grande Spirito, in lingua algonchina), rappresentato come un ragazzo a cavallo di un bisonte sacro, la cui benevolenza verso Zagor finirà in pratica per rendere ufficiale il suo compito di difensore dei popoli rossi.
Tra l’altro non è la prima volta che il Grande Essere Misterioso dei Nativi Americani viene raffigurato in un fumetto sotto forma umana. Lo si è visto per esempio, mentre galleggiava in una nuvola, anche nella breve serie a striscia di Gordon Jim, scritta e disegnata da Rinaldo Dami e pubblicata dall’editrice Audace nel 1952.

Visione di Manitù, da Gordon Jim n. 10 (Audace, 1952)

L’apparizione in Zagor di una simile personificazione di Manito, per quanto un po’ semplicistica, la renderà per certi versi una serie simpaticamente “pagana”, nel senso più positivo del termine. Soprattutto dalla fine degli anni ’80 in poi, le storie di Zagor faranno saltuariamente sempre più riferimento al misticismo indiano, ispirandosi a volte a tradizioni, storie o leggende in parte autentiche dei popoli rossi, anche grazie ai testi particolarmente accurati di nuovi sceneggiatori come Tiziano Sclavi, Mauro Boselli e Moreno Burattini.
È in sintonia con la cultura indiana anche il fatto che sulla casacca di Zagor ci sia l’emblema di un’aquila, ovvero l’Uccello del Tuono, una divinità che tuttora è davvero dipinta sugli abiti da indossare in certe cerimonie, anche se fa parte delle credenze degli indiani delle praterie più che di quelli delle foreste.

Casacca per la Danza degli Spiriti con l'effige dell'Uccello del Tuono


Zagor si caratterizza infatti come difensore degli indiani delle regioni dell’Est, sintetizzate nell’immaginaria foresta di Darkwood, ma non esita ad affrontare chiunque minacci la pace della regione. In ciò ricorda eroi sul tipo di Phantom, che come Zagor amministra la giustizia e incute rispetto a indigeni considerati ingenui e superstiziosi, facendosi passare per un essere soprannaturale. Tale inganno protratto nel tempo, benché perpetrato disinteressatamente e senza che l’eroe abusi mai del suo ascendente, può far nascere anche qui il sospetto di residui di mentalità coloniale, visto che un bianco domina in qualche modo sui nativi.


Zagor e Tonka, su Zagor n. 25

Ma Zagor ha verso i popoli indigeni un atteggiamento più affabile e conviviale rispetto all’eroe mascherato di Falk e ha rapporti di autentica amicizia con molti indiani, come il capo irochese Tonka, lo sciamano mohicano Molti Occhi, l’avvocato cherokee Satko, il capo seminole Manetola e il capo kiowa e ex-nemico Winter Snake.
Benché sembri frequentare soprattutto dei capi, per uno che recita il ruolo del semidio immortale, lo Spirito con la Scure dimostra insomma un carattere molto umano. Inoltre ciò che lo spinge, nella sua instancabile missione di pacificazione, non è un vago e generico senso di giustizia, ma l’esigenza di riscattarsi dalle stragi di indiani compiute dai bianchi come suo padre, che era stato un ufficiale dell’esercito, e anche da lui stesso.

Da Maxi Zagor n. 2 (SBE, 2001)


Tra l’altro anche la lunga marcia compiuta dai Cherokee per giungere in Oklahoma, da loro detta la Pista delle Lacrime, è stata raccontata in un’interessante storia, scritta da Moreno Burattini e disegnata da Alessandro Chiarolla per il Maxi Zagor n°2 del 2001. Qui l’eroe di Darkwood protesta contro la deportazione dei Cherokee fino a strattonare malamente il presidente Andrew Jackson, che tra parentesi si sarebbe meritato di peggio, visto che storicamente fu proprio lui ad avanzare la vergognosa proposta del forzato trasferimento a Ovest dei popoli indiani, durante il quale almeno un quarto dei Cherokee morì di stenti.

Falco Bianco si allea con gli Irochesi Mohawk (Dardo, anni '60)

Gli indiani dell’Est hanno un ruolo importante anche in altre due serie pubblicate a breve distanza l’una dall’altra da due autori italiani, ma in due diversi continenti, entrambe ambientate nel XVIII secolo, quello del ciclo dei Mohicani di Fenimore Cooper, che ne costituisce evidentemente l’iniziale fonte d’ispirazione.

Sequoia, da Falco Bianco (Dardo, anni '60)

La prima è Falco Bianco, il Robin Hood del Nord-Est, creata dal disegnatore Onofrio Bramante e pubblicata dalla Dardo dal 1961. Il protagonista, il barone di Saint Castin, comanda un gruppo irregolare di trapper che combatte dalla parte dei Francesi contro gli Inglesi, ma è anche il capo bianco della nazione indiana dei Penobscot, il ché mette a sua disposizione in difesa della causa francese un discreto spiegamento di forze.
Fratello di sangue di Falco Bianco è il grosso e forzuto indiano Sequoia, ma il nome dato a quest’ultimo per indicarne la forza e solidità è leggermente anacronistico, visto che l’albero detto Sequoia fu chiamato così solo un secolo dopo, in onore del famoso inventore dell’alfabeto cherokee, che si chiamava in realtà Sikwayi.
Falco Bianco è poi stato ripubblicato dalla Dardo anche in appendice agli albi del pirata Sandor dal 1966, raccolto in formato gigante negli anni ’90 e ristampato di recente in formato bonellide dalle Edizioni If.

Dotata di maggior fascino è però Wheeling di Hugo Pratt, storia nata nel 1962 sulla rivista argentina Misterix e ambientata durante gli scontri tra Inglesi e indiani che precedono la Guerra d’Indipendenza Americana. All’inizio del racconto il conflitto è innescato da una strage compiuta dai coloni bianchi contro gli Shawnee, che dopo aver sopportato molte ingiustizie da parte dei bianchi, questa volta non mancheranno di vendicarsi.


Fort Wheeling, Collana Metal n. 6 (Nuova Frontiera, 1982)


In Wheeling sono almeno due i bianchi considerati dei rinnegati. Simon Girty, che è stato allevato dagli indiani Wyandot, è un autoritratto di Pratt e funge un po’ da deus ex-machina, ma il vero protagonista è il virginiano Criss Kenton, un giovane soldato a cui gli indiani hanno massacrato la famiglia. Nonostante ciò Criss libera un indiano prigioniero, il giovane Tiny, per scambiarlo col proprio fratello catturato dagli Shawnee e Tiny ricambia il favore adottando Criss come fratello di sangue perché non sia fatto a sua volta prigioniero. Da quel momento il virginiano dovrà proteggere il suo fratello shawnee dagli altri americani.
Sia in Falco Bianco che in Wheeling, si accenna a come certe nazioni irochesi, alleate degli Inglesi, erano pronte a passare a combattere contro di loro. Su certi dettagli la storia di Pratt è molto più documentata e accurata e infatti è dopo la Guerra d’Indipendenza che fu in effetti stipulata dallo stesso George Washington la pace tra gli Americani e gli Irochesi, che in seguito combatteranno insieme contro gli Shawnee.

Il Capo degli Shawnee, da Fort Wheeling di Pratt (1962)

In Italia la prima parte di Wheeling fu edita in volume da Ivaldi nel 1972, nel formato orizzontale originale, e poi da Mondadori in formato verticale. La seconda parte della storia fu pubblicata da Pratt in Francia nel 1980 e raccolta in Italia nell’album Fort Wheeling, n°6 della Collana Metal edito dalla Nuova Frontiera nel 1982. Una terza parte fu completata dall’autore solo più tardi. Le ultime edizioni di Wheeling sono quelle della Rizzoli-Lizard e dei volumi allegati a Corriere della Sera e Gazzetta dello Sport nel 2010 e nel 2014.

Leggende indiane di Pratt, 1° volume (copertina tratta da Frontera Extra n. 33, 1961)


Wheeling fu l’ultima serie di Pratt pubblicata in Argentina e fu interrotta per il suo improvviso ritorno in Italia, nel 1962. Da quello stesso anno pubblicò, in appendice agli Albi di Pecos Bill dell’editore Angelo Fasani, una trentina di adattamenti a fumetti di Leggende Indiane tratte dal folclore di varie nazioni dei Nativi Americani e, come nelle fiabe, i protagonisti non sono solo adulti ma anche ragazzi indiani. Date le poche pagine a disposizione, Pratt in questa serie non si fa problemi a usare abbondanti didascalie fuse graficamente con le immagini, che oggi fanno apparire un po’ datate queste storie, ma costituiscono un interessante esempio di come letteratura e fumetto possano fondersi. In una leggenda degli indiani Fox, Pratt rappresenta anche il Grande Spirito, come una figura luminosa che interviene con un miracolo per nascondere la tribù ai nemici.

Manitù appare ai Fox, da Leggende Indiane di Pratt (anni '60)

Raccolte più tardi in due volumi dal Fumetto Club, le Leggende Indiane di Pratt sono state ripubblicate di recente dalla Rizzoli-Lizard in appendice alla saga di Wheeling, collocazione che hanno mantenuto anche nei due volumi di Wheeling della collana cartonata TuttoPratt, uscita nel 2014 allegata al Corriere della Sera.


Da Lo Sceriffo Kendall, supplemento a Il Corriere dei Piccoli n. 34 (1964)


Intanto in Inghilterra nel 1963 apparvero sulla rivista Ranger dell’editrice Fleetway le storie a fumetti dello sceriffo Ralph Kendall, scritte inizialmente dall’italiano Piero Dami e disegnate dal cileno Arturo del Castillo, il cui protagonista ogni volta che incontra degli indiani cerca di capirli e di avere dei buoni rapporti con loro.
Così nella sua prima avventura Kendall aiuta un vecchio apache che custodisce l’oro della sua tribù, non solo contro dei banditi ma anche contro un proprio ex-amico altrettanto avido. In seguito aiuta a mantenere la pace con gli Cheyenne, che avevano reagito alle solite invasioni non autorizzate dei bianchi nelle loro terre.
Kendall fu proseguito per quaranta episodi da Del Castillo con altri sceneggiatori come Héctor G. Oesterheld. In Italia esordì nel 1964 su un supplemento del Corriere dei Piccoli e dal 1967 uscì su Rin Tin Tin & Rusty della Cenisio. Le sue prime storie sono state raccolte, nel 2007, sul n°44 della collana Storia del West delle Edizioni If e oggi è proposto in modo più completo e organico in una serie di album di Allagalla Editore. 

Da Lo Sceriffo Slade (Oscar Mondadori, 1975)

 
Approcci comprensivi verso gli indiani sono tentati, ma con meno successo, anche dallo sceriffo Wess Slade, protagonista della serie The Wastelands (Le Terre Desolate) di George Stokes, uscita a strisce dal 1960 sul giornale inglese London Sunday Express. Anche qui si evidenzia come spesso siano le invasioni e violenze dei bianchi a provocare la vendetta degli indiani, per lo più degli Apaches riprodotti con precisione e correttezza.
Ma la serie di Slade è più realistica di quella di Kendall e gli indiani, pur rappresentati con rispetto, sono i duri guerrieri che erano nella realtà, coi quali non è facile raggiungere una pace accomodante una volta che il sangue dei loro figli e fratelli è stato versato. A volte gli Apache reagiscono al fatto per loro incomprensibile e inaccettabile che i bianchi li impicchino per dei semplici furti, cosa che innesca la solita spirale di vendette.
Lo Sceriffo Slade è uscito in Italia nel 1963 in una sua testata pubblicata dalle Edizioni La Freccia, nel 1968 sul Vittorioso e negli anni ’70 sui supplementi di Linus, su due Oscar Mondadori a lui dedicati, su Il Mago West e sulla Nuova Collana Hombre – I Valorosi dell’Editrice Stormo, dove il suo nome fu cambiato in Ringo.

Jerowa, da Collana Corral n. 4 (Editore Crespi, 1966)


Tra gli indiani protagonisti di fumetti, nei primi anni ’60 apparve Jerowa, di autori anonimi, che uscì sia in Francia che in Italia, dove fu pubblicato sulla Collana Corral dell’Editore Crespi nel 1966. In questo caso non ci sono riferimenti alla cultura indiana, a parte l’appartenenza etnica del protagonista. Questi, col suo fisico ben piazzato, armato di due colt che porta alla cintura e accompagnato da un anziano sudista baffuto chiamato Piede Rapido, se ne va per le città dei bianchi a raddrizzare torti a suon di sparatorie e sganassoni, in storie che, brevità a parte, fanno quasi sembrare il personaggio una specie di versione indiana di Tex.

Cuore d'Argento, da Albi dell'Intrepido n. 966 (Universo, 1964)


Il disegnatore Carlo Savi, che aveva collaborato agli albi di Aquila Bianca, realizzò invece un’altra serie sugli indiani di tono altrettanto irreale e romantico, Cuore d’Argento, su un giovane sakem accompagnato da una fedele aquila che fu il primo personaggio fisso degli Albi dell’Intrepido, dove uscì a puntate dal 1964.
Le avventure di Cuore d’Argento hanno tutte le caratteristiche dei romanzi d’appendice in cui si alternano di continuo dei colpi di scena piuttosto forzati, a cominciare dalla prima storia suddivisa in quaranta brevi puntate. Qui il protagonista, che si credeva figlio del capo dei Mohicani, scopre invece che il suo vero padre è il capo dei Nantas, il ché lo getta nella più completa costernazione perché di conseguenza pensa di essere fratello della figlia del capo, che voleva sposare. Ma a risolvere la situazione e toglierlo dall’imbarazzo giunge opportunamente la notizia che la ragazza era stata adottata e i due innamorati non sono consanguinei.
Per quanto qui nomi e costumi siano del tutto fantasiosi e la cultura indiana sia descritta in termini fin troppo idilliaci e ben poco realistici, l’autore non può comunque evitare di fare qualche cenno ai contrasti con la società dei bianchi, come quando un affarista senza scrupoli vuole far passare la sua ferrovia sul territorio dei Nantas e per riuscirci complotta per far uccidere il loro capo Cuore d’Argento che si oppone al progetto.


Il Grande Sentiero, poster italiano (1964)


In quel periodo però i romanzi e i film western si stavano ormai distaccando da certi stereotipi di maniera, per parlare maggiormente e in modo più accurato della vera vita di frontiera e degli indiani autentici.
Nel 1964 uscì infatti anche il film Cheyenne Autumn (Il Grande Sentiero), con cui il regista John Ford, al suo ultimo western, tentò di rimediare a una carriera passata a rappresentare gli indiani come selvaggi assassini. Per una volta descrisse dei nativi che combattono per delle buone ragioni, raccontando la lunga e difficile migrazione di un gruppo di Cheyenne che, per non morire di stenti, lasciano la malsana zona dell’Oklahoma in cui erano stati confinati dal governo. Ma nonostante le buone intenzioni e la presenza di un ufficiale che prende le difese degli indiani interpretato da Richard Widmark, il risultato non fu poi troppo memorabile, oscillando tra il patetico e l’umoristico senza trovare il registro ideale per narrare al meglio quella storia.


Dustin Hoffman è Jack Crabb nel film Il Piccolo Grande Uomo


Sempre nel 1964 gli Cheyenne furono descritti in modo più realistico e coinvolgente nel romanzo Little Big Man (Il Piccolo Grande Uomo) di Thomas Berger, da cui nel 1970 il regista Arthur Penn trasse l’omonimo film con Dustin Hoffman. Vi si narra la vita immaginaria di Jack Crabb, da piccolo adottato dagli Cheyenne dopo che questi hanno ucciso suo padre e gli altri uomini di una carovana. La strage era stata compiuta sotto l’influenza dell’alcool, che le stesse vittime avevano incautamente offerto agli indiani. Nell’esporre i contrasti tra i due modi di vivere, il libro è infatti pieno di ironia, giocando sui continui equivoci che sorgono tra due culture incapaci di comprendersi. Uno dei pochi a rendersi conto delle tragiche assurdità che si verificano è il protagonista, che conosce bene entrambi i mondi pur senza sentirsi del tutto parte di nessuno dei due.


Il Piccolo Grande Uomo di Thomas Berger, 1a edizione italiana (Rizzoli, 1972)


Come nei precedenti Alce Nero Parla e Un Uomo Chiamato Cavallo, anche ne Il Piccolo Grande Uomo il lettore può immedesimarsi nella vita di una tribù indiana vedendola dall’interno e scoprendo una cultura diversa dalla propria e di certo anche abbastanza dura, ma con una sua dignità e fierezza, in certe cose anche molto più tollerante di quella dei bianchi, come nel rispetto e la considerazione verso gli omosessuali.
Il film poi riproduce e accentua ancor di più l’ironia del romanzo, ma taglia gran parte delle oltre cinquecento pagine del libro e modifica molti dettagli per far fare una figura migliore sia all’eroe che agli indiani. Per esempio, nel film sembra che Jack sia allevato da una tribù diversa da quella che ha compiuto l’eccidio.

Il vero Piccolo Grande Uomo


Il nome Piccolo Grande Uomo dato dagli Cheyenne a Jack Crabb, per le gesta attribuite a un piccoletto come lui, non fu inventato dall’autore del romanzo. Era davvero quello di un valoroso guerriero indiano non molto alto, appartenente però alla nazione sioux. Il vero Piccolo Grande Uomo non fu poi molto leale verso i propri fratelli rossi, visto che si arruolò nella polizia indiana al servizio dei bianchi e fu coinvolto nell’omicidio del suo ex-capo Cavallo Pazzo. Analogamente Jack Crabb, dopo aver assistito al quasi completo massacro della sua famiglia cheyenne sul fiume Washita, si aggrega al reggimento del generale Custer, proprio il responsabile di quell’eccidio, anche se inizialmente lo fa soprattutto con la segreta intenzione di vendicarsi. Ma nel libro Crabb finisce suo malgrado per rispettare l’esaltato carisma di Custer e, dopo aver tentato invano prima di ucciderlo e poi di metterlo in guardia, combatte con lui a Little Big Horn contro gli indiani. Nel film invece lo spinge intenzionalmente alla disfatta e alla morte in battaglia, per vendicarsi a costo della propria stessa vita, un prezzo che comunque alla fine non pagherà visto che in entrambe le versioni verrà salvato in extremis.

Il Piccolo Grande Uomo, poster italiano (1970)

Verrà stordito e salvato in modo molto simile a Jack Crabb anche Tex, sul n°492 del 2001, in un episodio scritto da Claudio Nizzi e disegnato da Giovanni Ticci intitolato proprio Little Big Horn, che svolgendosi in parte sul teatro dell’omonima battaglia finisce per ricordare abbastanza il finale de Il Piccolo Grande Uomo.
Anche Tex infatti tenta di mettere in guardia e di salvare Custer, perché la sua morte non provochi una spietata guerra a oltranza contro Sioux e Cheyenne, cosa poi puntualmente avvenuta. Ma in quella storia, come in Little Big Man, sono molto importanti le visioni di un capo indiano, in questo caso quelle di Toro Seduto, che riteneva davvero gli fosse stata preannunciata in sogno la disfatta di Custer e la vittoria dei suoi.

Toro Seduto, da Tex n. 492 (SBE, 2001)

L’inizio e la fine de Il Piccolo Grande Uomo, con l’ultracentenario Crabb che rievoca la propria vita narrandola a uno scrittore, ha poi ispirato una cornice molto simile a Paolo Eleuteri Serpieri che, nell’album L’Eroe e la Leggenda pubblicato nel 2015, ha fatto raccontare una storia giovanile di Tex da un vecchissimo Carson, una storia in cui Aquila della Notte, nell’aspetto e nel modo di agire, appare più che mai simile a un vero indiano, anche nei tratti somatici e nei capelli lunghi. E se tale storia vede Tex combattere ferocemente tanto contro dei bianchi che contro degli indiani comanche, in entrambi i casi lo fa da appartenente alla nazione navajo, per vendicare la morte di uomini e donne di quello che considera a tutti gli effetti come il suo stesso popolo.


Lobo Kid su Collana Rodeo n. 6 (Araldo, 1967)

Un altro bianco adottato dagli indiani nei fumetti è Lobo Kid, apparso anch’esso nel 1964, in appendice agli albi di Furio, con testi di Gianluigi Bonelli e disegni di Loredano Ugolini. La sua storia è abbastanza semplice. 
Durante la Guerra di Secessione una ricca famiglia del Sud è massacrata da banditi vestiti da nordisti. Solo il piccolo Larry Clayton è salvato dal comanche Yagor e cresce tra gli indiani. Una volta adulto, preso il nome di Lobo Kid, si vendica del mandante della strage, che si scopre essere un suo parente avido dell’eredità. Nel finale scritto da Glauco Verozzi, che concluse la storia quando tre anni dopo fu ristampata in due albi su Collana Rodeo, Lobo Kid ritorna a vivere nella sua vecchia tenuta insieme a una ragazza comanche.
 
Mark tra gli Indiani, da Collana Araldo, 2a serie, n. 100

È cresciuto tra gli indiani anche il Comandante Mark, capo di un gruppo di insorti antibritannici negli anni della Rivoluzione Americana, creato dal gruppo EsseGEsse nel 1966. Al centesimo episodio, si scopre infatti che una imprecisata tribù lo ha raccolto neonato su una spiaggia, dopo che la nave francese su cui viaggiava la sua famiglia era stata affondata da una fregata inglese. Il vantaggio di Mark rispetto ad altri personaggi fu che insieme a lui era stato accolto tra gli indiani anche un anonimo uomo di lettere che, come suo padre adottivo, provvide a trasmettergli un’istruzione di prim’ordine basata su idee libertarie e progressiste.

L'incontro-scontro tra Mark e Gufo Triste, da Collana Araldo, 2a serie, n. 100

Nella stessa storia si scopre anche l’origine dell’amicizia tra Mark e Gufo Triste, l’ex-capo di una tribù dei Grandi Laghi che, dopo essersi scontrato con lui per sete di vendetta contro i bianchi, decise infine di combattere insieme ai ribelli americani perché i soldati Inglesi avevano massacrato tutta la sua gente.
Benché col suo fisico macilento Gufo Triste sia la caricatura di un indiano pessimista e menagramo, quando non interpreta dei siparietti comici, dimostra di essere capace di grande abnegazione, coraggio e lealtà verso i suoi amici patrioti, rimediando così almeno in parte all’immagine piuttosto stereotipata degli indiani selvaggi e crudeli che gli autori avevano spesso dato di molti Nativi Americani nelle loro serie precedenti.

Bufalo Bucolico e In Bocca Al Lupo, da Tumbleweeds di Tom K. Ryan


Anche in certe strisce americane degli anni ’60, l’umorismo degli autori tendeva a sdrammatizzare la tragedia del genocidio e la triste condizione degli ultimi Nativi Americani, ridendo di tutto e tutti senza troppe remore.
Dal 1965 apparvero le strisce di Tom K. Ryan intitolate al pigro cow-boy Tumbleweeds, un nome che indica i rotolacampi, le palle vegetali mosse dal vento nei deserti americani, e che fu cambiato in Colt sulla rivista italiana Eureka. In questa serie molto spazio è dedicato alla sgangherata tribù indiana dei Poohawks, composta da guerrieri ben poco audaci o saggi, ma al contrario pigri e infingardi né più né meno dei bianchi. 

Il capo dei Poohawks e Limpida Lucertola, da Eureka Pocket n. 11 (Ed. Corno, 1973)

 
Nella strip di Ryan infatti sia i nativi che i coloni sono per lo più piccoli uomini incapaci ben al di sotto della statura dei miti western, come l’inetto e sciocco guerriero Limpida Lucertola, incapace di ottenere in alcun modo la mano di Piccola Colomba, la figlia del capo per la quale spasima, o il suo iniziale rivale in amore appena un po’ più deciso di nome Bargigli Verdi. Ma tra gli indiani come tra i bianchi si aggirano anche speculatori cinici e furbi, come l’uomo medicina, lo stesso capotribù e il minuscolo indiano Buona Fortuna (o In Bocca al Lupo), che si prende sempre gioco del grosso e stupido guerriero Bufalo Bucolico. E benché i Poohawks siano tutto meno che pacifici, almeno finché non finiscono le munizioni, non mancano le battute sarcastiche sugli inganni e ladrocini ai danni degli indiani da parte delle altrettanto infide autorità americane.
In Italia Colt e i suoi buffi indiani sono apparsi, oltre che su Eureka, in dei volumi dell’Editoriale Corno, tra cui il primo della serie Comics-Box del 1969 e due della serie Eureka Pocket, e in un Oscar Mondadori del 1971.

Redeye di Gordon Bess


Redeye di Gordon Bess (1967)



A Tumbleweeds seguirono nel 1967 le più bonarie strisce di Redeye (Occhio Rosso) di Gordon Bess, dedicate interamente a una strampalata tribù indiana. Il nome del protagonista, capo della tribù dei Chickiepan, è un cinico ma leggero riferimento alla tragedia dell’alcoolismo di cui sono vittime ancora oggi molti indiani delle riserve. Nella prima traduzione italiana sulla rivista Off-Side, Redeye fu quindi ribattezzato Narice Rossa, poiché da noi è l’arrossamento del naso più che dell’occhio a essere ritenuto sintomo di ubriachezza. 

Occhio di Talpa e Pinta di Rum, da Il Corriere dei Ragazzi (1974)

 
Invece su Il Corriere dei Ragazzi, dove la strip di Bess fu pubblicata negli anni ’70, venne chiamata genericamente La Tribù Terribile, praticamente lo stesso titolo datole anche in Francia, mentre il nome del capo fu tradotto come Occhio di Talpa. Anche in queste strisce troviamo un indiano sciocco che cerca inutilmente di convincere il capo a concedergli la mano di sua figlia e il suo nome, Tanglefoot (Piede Ingarbugliato), sembrerebbe un altro riferimento all’alcolismo nelle riserve, infatti sul Corriere dei Ragazzi fu ribattezzato Pinta di Rum. Gordon Bess proseguì la serie fino al 1988, dopodichè fu costretto per motivi di salute a passarla ad altri due autori, Bill Yates e Mel Casson, che la realizzarono per altri vent’anni.
Ma con la fine degli anni ’60 del ‘900 si stava ormai per innescare un’epoca di radicali trasformazioni nel costume e nel pensiero occidentale, che non potevano che riflettersi anche in una completa rivalutazione delle culture sottomesse dalle invasioni coloniali, compresa quella dei Nativi Americani, sia nella letteratura che nel cinema e naturalmente anche nei fumetti. Gli eroi dei western disegnati dagli anni ‘70 in poi, non poterono più fare a meno di tenerne conto e anche per non apparire simpatizzanti delle politiche governative di esproprio delle terre dell’Ovest ai danni degli indiani, finirono spesso per essere ancora più legati in vari modi alla cultura indigena, come vedremo ampiamente nella terza parte di questo lunghissimo articolo.

Andrea Cantucci

N.B. Trovate i link alle altre parti dei bonellidi su Cronologie & Index!

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