HPL ritratto da Bela Manson, 2011 |
1921
EX
OBLIVIONE
(EX
OBLIVIONE, 1920-1921)
“Arrivato
ai miei ultimi giorni, e spinto verso la follia dalle atroci banalità
dell’esistenza che scavano come gocce d’acqua distillate dai
torturatori sul corpo della vittima, cercai la salvezza nel
meraviglioso rifugio del sonno. Nei sogni trovai un poco della
bellezza che avevo invano cercato nella vita e m’immersi in antichi
giardini e boschi incantati.”
Copertina per un audiolibro (2013) |
Il
sognatore di questo racconto tocca molte terre sconosciute nei suoi sogni, navigando mari dalle costellazioni ignote e fiumi sotterranei.
In una occasione, si trova a percorrere una valle dorata che lo
conduce a una serie di piccoli boschi ombrosi e a mucchi di rovine,
fino a quando non gli si para di fronte un muro possente ricoperto di
rampicanti con un piccolo cancello di bronzo. Molte altre volte torna
in questa valle, dove continua a recarsi davanti al cancello.
“La meta delle mie fantasie era sempre la stessa: la muraglia di rampicanti in cui si apriva il piccolo cancello di bronzo. Poco a poco i momenti di veglia si fecero più rari e insopportabili, soffocati nel grigiore di un’immobilità stagnante; sempre più spesso mi abbandonavo alla pace drogata che sola poteva ricondurmi alla valle degli alberi d’ombra, chiedendomi come avrei fatto a non lasciarla più: non volevo essere costretto a strisciare di nuovo nel mondo spento, privo d’interesse e di nuovi colori. E guardando il cancello nel muro coperto di verde sentivo che al di là si stendeva una terra dei sogni da cui, una volta entrati, non ci sarebbe stato ritorno. Per questo, nel sonno, lottavo per trovare il lucchetto del cancello, ma il sistema di apertura mi era tenuto nascosto con grande abilità. Sapevo, tuttavia, che il paese al di là del muro sarebbe stato più autentico, più dolce e luminoso.”
“La meta delle mie fantasie era sempre la stessa: la muraglia di rampicanti in cui si apriva il piccolo cancello di bronzo. Poco a poco i momenti di veglia si fecero più rari e insopportabili, soffocati nel grigiore di un’immobilità stagnante; sempre più spesso mi abbandonavo alla pace drogata che sola poteva ricondurmi alla valle degli alberi d’ombra, chiedendomi come avrei fatto a non lasciarla più: non volevo essere costretto a strisciare di nuovo nel mondo spento, privo d’interesse e di nuovi colori. E guardando il cancello nel muro coperto di verde sentivo che al di là si stendeva una terra dei sogni da cui, una volta entrati, non ci sarebbe stato ritorno. Per questo, nel sonno, lottavo per trovare il lucchetto del cancello, ma il sistema di apertura mi era tenuto nascosto con grande abilità. Sapevo, tuttavia, che il paese al di là del muro sarebbe stato più autentico, più dolce e luminoso.”
Ex Oblivione by Jason Eckhardt (1982) |
Fino
a quando una notte non giunge alla città di sogno di Zakarion, dove
trova un papiro ingiallito scritto dai Saggi Onirici - antichi
abitanti del luogo - che contiene molte informazioni sui luoghi della
terra dei sogni, tra cui la Valle d’Oro. I saggi però erano divisi
su ciò che si trovava al di là della porta; un gruppo optava per un
luogo di prodigi straordinari, un altro invece accennava a cose
orribili.
“Naturalmente non sapevo a chi prestar fede, ma il desiderio di penetrare nel regno sconosciuto era fortissimo. Del resto incertezza e mistero sono per noi le più grandi lusinghe, e mi dicevo che non poteva esistere orrore più grande della quotidiana tortura nel mondo grigio e banale della veglia.”
“Naturalmente non sapevo a chi prestar fede, ma il desiderio di penetrare nel regno sconosciuto era fortissimo. Del resto incertezza e mistero sono per noi le più grandi lusinghe, e mi dicevo che non poteva esistere orrore più grande della quotidiana tortura nel mondo grigio e banale della veglia.”
Venuto
a conoscenza di una droga in grado di fargli superare il cancello, il
sognatore non esita a farne uso. La misteriosa droga fa effetto e il
cancello di bronzo stavolta gli si presenta socchiuso.
FINALE:
“Dall’altra
parte pioveva un fascio di luce che rischiarava di bagliori magici i
grandi alberi contorti e la sommità dei templi sepolti. Mi sono
fatto avanti col cuore gonfio di canzoni, ansioso di imbattermi negli
splendori della terra da cui non sarei più tornato. Ma non appena il
cancello si è aperto del tutto e l’incantesimo della droga e del
sogno mi ha trasportato dall’altra parte, ho capito che visioni e
splendori erano arrivati, ormai, alla fine: in questo nuovo universo
non c’è né terra né mare, ma solo il vuoto luminoso dello spazio
disabitato, illimitato. Più felice di quanto avrei mai creduto di
poter essere, mi sono dissolto ancora una volta nell’oblio
infinito, trasparente, da cui il demone della vita mi aveva chiamato
per una breve e sconsolata ora.”
Ex Oblivione di Isabel Fernandez, artista 3D (2016) |
Un
nuovo prose
poem
e ancora un sognatore come protagonista. Soggetti ricorrenti in
questo periodo per lo scrittore di Providence, che subisce ancora il
fascino della prosa di Lord Dunsany. Il racconto tratta anche temi
affini alla personalità dell’autore, poiché anche qui il
protagonista trova nel regno di Morfeo l’unico scopo della sua
vita, lì dove la vita reale diventa poco più di una distrazione (i
momenti di veglia si fecero più rari e insopportabili, soffocati nel
grigiore di un’immobilità stagnante),
talvolta perfino un ostacolo verso obiettivi ritenuti più alti.
Ex Oblivione by Curtis Agnew (2016) |
Appare
qui anche la figura simbolica della soglia, del passaggio,
rappresentato dal cancello bronzeo. Scrive Giuseppe Lippi nella sua
introduzione al racconto in Tutti
i racconti 1897-1922
(Mondadori, 1989): “La
necessità di superare la soglia è un motivo chiave: lo abbiamo
trovato nella Tomba,
nel Tempio,
in L’illustrazione
nella casa.
Ritornerà nella Chiave
d’argento
e in altri testi del Lovecraft maturo, senza tuttavia essere
appesantito da considerazioni simboliche esplicite, ma rimanendo allo
stadio di immagine onirica. E per Lovecraft dev’essere stato
proprio così: vedere in sogno una porta socchiusa, provarne il
fascino e descriverla sono azioni che, con tutta probabilità, si
succedevano automaticamente nella sua psiche.”
Luoghi:
città di Zakarion.
IL CAOS STRISCIANTE
(THE
CRAWLING CHAOS, 1920-1921)
in
collaborazione con Winifred V. Jackson (r.p.)
“Sui
piaceri dell’oppio si è scritto parecchio. Le estasi e gli orrori
di De Quincey e i paradis
artificiels
di Baudelaire sono presentati con un’arte che li rende immortali e
il mondo conosce perfettamente la bellezza, il terrore e il mistero
degli oscuri regni nei quali viene proiettato il fervido sognatore.
Ma per quanto si sia detto, nessuno ha osato definire la natura
dei fantasmi così rivelati alla mente, o alludere alla direzione
delle strade inaudite lungo il cui ornato ed esotico percorso chi ha
preso la droga viene attratto in modo irresistibile. De Quincey
veniva trasportato in Asia, terra brulicante d’ombre la cui
antichità è così impressionante che la
vasta età della razza e della stirpe schiaccia nell’individuo ogni
senso di giovinezza,
ma non osava spingersi oltre. Quelli che l’hanno fatto raramente
sono tornati, e anche allora hanno taciuto o sono impazziti. Io ho
preso l’oppio una volta sola, nell’anno dell’epidemia, quando i
medici cercavano di soffocare i tormenti che non riuscivano a curare.
Me ne fu somministrata una dose eccessiva (il mio medico era logorato
dagli orrori e dallo sfibramento) e di conseguenza mi spinsi molto
lontano. È
vero, sono tornato e sono vivo, ma le mie notti fremono di ricordi
allucinanti e non ho mai più permesso a nessuno di darmi
dell’oppio.”
Thomas de Quincey (1785-1859) ritratto da James Archer |
L’eccessiva
somministrazione di oppio fa provare all’io narrante la sensazione
di precipitare “anche
se non aveva niente a che fare con i concetti di gravità e
direzione”,
fino a quando la sua caduta non si arresta, “dando
luogo a una sensazione di riposo disagevole e temporaneo.”
A
questo punto apre gli occhi e si ritrova in una stanza illuminata,
con molte finestre, arredata con “tappeti
multicolori e tendaggi, tavoli elaborati, sedie, ottomane, divani,
vasi delicati e ornamenti che davano un’idea di esotismo senza
essermi veramente estranei.” Poi,
senza una ragione apparente, comincia a provare la sensazione che un
grave pericolo lo minacci, un pericolo che giunge dall’esterno, ma
nonostante i suoi timori decide di vedere cosa c’è fuori.
“Avvicinatomi
alla finestra vidi un turbinio caotico di acque in distanza e guardai
su ogni lato, sconvolto dalla scena meravigliosa che mi si
presentava. Non avevo mai visto un panorama del genere e credo che
non sia mai capitato a nessun uomo, salvo nei deliri della febbre o
nell’inferno dell’oppio. L’edificio in cui mi trovavo sorgeva
su una stretta punta – o ciò che adesso era una stretta punta –
che si elevava di buoni cento metri su un vortice di acque impazzite.
Su un lato e l’altro della casa vedevo precipizi di terra rossa che
dovevano essersi formati nelle ultime ore, mentre davanti a me le
onde spaventose si alzavano ancora in tutta la loro furia, divorando
il terreno con paurosa monotonia e determinazione. A circa un
chilometro e mezzo dalla costa si alzavano cavalloni alti quindici
metri e all’orizzonte si accumulavano orrende nubi nere dai
contorni grotteschi che sembravano in attesa come avvoltoi. Le onde
erano scure e violette, quasi nere, e si aggrappavano al fango rosso
e cedevole della terraferma come mani avide e rozze. Non potei fare a
meno di pensare che un’orribile entità marina avesse dichiarato
guerra alla terra, aiutata forse dal cielo furioso.”
Charles Baudelaire (1821-1867) |
Il
protagonista, per evitare di essere inghiottito dall’inevitabile
cedimento del terreno, corre sul lato opposto della casa ed esce da
una porta chiudendola con una strana chiave, che conserva.
“La casa da cui ero appena uscito era molto piccola – poco più che una capanna – pur essendo fatta di marmo e avendo un’architettura mista e fantastica, ricavata da una fusione di elementi occidentali e orientali. Sugli angoli c’erano colonne corinzie, ma il tetto di tegole rosse era quello di una pagoda cinese. Dalla porta che dava sulla terraferma partiva un sentiero di sabbia misteriosamente bianca, largo circa un metro e mezzo e fiancheggiato da palme imponenti, vegetazione opulenta e fiori che non sapevo identificare. Il sentiero si snodava dalla parte dove il mare era azzurro e la sponda quasi bianca. Mi sentii spinto a percorrerlo di corsa, come se m’inseguisse uno spirito maligno dell’oceano che rombava.”
“La casa da cui ero appena uscito era molto piccola – poco più che una capanna – pur essendo fatta di marmo e avendo un’architettura mista e fantastica, ricavata da una fusione di elementi occidentali e orientali. Sugli angoli c’erano colonne corinzie, ma il tetto di tegole rosse era quello di una pagoda cinese. Dalla porta che dava sulla terraferma partiva un sentiero di sabbia misteriosamente bianca, largo circa un metro e mezzo e fiancheggiato da palme imponenti, vegetazione opulenta e fiori che non sapevo identificare. Il sentiero si snodava dalla parte dove il mare era azzurro e la sponda quasi bianca. Mi sentii spinto a percorrerlo di corsa, come se m’inseguisse uno spirito maligno dell’oceano che rombava.”
Lasciata
la casa dietro di lui, l’uomo abbandona il sentiero e comincia a
inoltrarsi in una valle completamente tappezzata da un’erba
lussureggiante e tropicale talmente alta da coprirlo, poi viene
attratto da una palma gigantesca. La sua mente rievoca una classica
storia di tigri scritta da Kipling, desiderandone il volume che la
conteneva.
“Il furioso ondeggiare dell’erba mi torturava come il pulsare dei cavalloni, ancora udibile nonostante la distanza. Spesso mi fermavo a coprirmi le orecchie con le mani per avere sollievo, ma non riuscivo a escludere l’eco terribile. Mi sembrò che passassero anni prima che riuscissi a trascinarmi sotto la palma invitante e a riposare sotto l’ombra protettiva dei suoi rami.”
“Il furioso ondeggiare dell’erba mi torturava come il pulsare dei cavalloni, ancora udibile nonostante la distanza. Spesso mi fermavo a coprirmi le orecchie con le mani per avere sollievo, ma non riuscivo a escludere l’eco terribile. Mi sembrò che passassero anni prima che riuscissi a trascinarmi sotto la palma invitante e a riposare sotto l’ombra protettiva dei suoi rami.”
Improvvisamente,
dall’alto dei rami cala un bimbo bellissimo ricoperto di polvere e
stracci che, munito di una curiosa aureola, gli sorride e gli tende
la mano; ma prima che l’uomo possa fare alcunché, uno strano canto
comincia a diffondersi nell’aria e il Sole scende all’orizzonte.
Poi il bimbo comincia a parlare.
Rudyard Kipling (1865-1936) in una foto del 1920 |
“-
È la fine, sono calati sui raggi delle stelle e ormai non possiamo
più niente. Ci ritireremo in pace a Teloe, oltre i fiumi di
Arinuria. Mentre il bambino parlava, notai che tra le foglie di palma
si diffondeva un debole chiarore, e salendo illuminò una coppia che
sapevo essere quella dei due principali cantori. Dovevano essere un
dio e una dea, perché una bellezza come la loro non appartiene al
regno dei mortali; prendendomi per mano dissero: - Vieni, figlio,
hai udito le voci ed è così per il meglio. A Teloe, oltre la Via
Lattea e i fiumi di Arinuria, ci sono città d’ambra e calcedonio
dove le immagini di strane e meravigliose stelle brillano sulle
cupole sfaccettate. Sotto i ponti d’avorio di Teloe scorrono fiumi
d’oro liquido che trasportano i battelli del piacere verso la
fiorita Cytharion dei Sette Soli. A Teloe e Cytharion vivono solo la
giovinezza, la bellezza e il piacere e non si sentono altri suoni che
quelli del riso, del canto e dei flauti. Solo gli dei vivono a Teloe
dei fiumi d’oro, ma tu sarai fra loro.”
Mentre
ascolta incantato le parole della coppia, l’uomo non si accorge di
alzarsi in volo verso l’alto. Con lui, oltre alle misteriose
creature, una “folla
crescente di ragazzi e ragazze luminosi e inghirlandati di foglie che
avevano un’espressione gioiosa e i capelli al vento.”
Mentre si eleva, il bambino gli sussurra di non volgersi mai verso la
terra che stanno abbandonando, bensì di guardare sempre in su, ma il
forte rumore dell’oceano proveniente dall’abisso spinge l’uomo
a dirigere lo sguardo verso il basso. La Terra è sconquassata da
terribili cataclismi, le città degli uomini completamente distrutte,
il Polo Nord invaso da vapori mefitici. “Poi
un mostruoso fragore devastò la notte e il deserto dei deserti fu
spaccato da una fossa fumante. L’oceano nero ribolliva ancora e
divorava il deserto ai lati, mentre al centro la spaccatura si
allargava sempre più.”
L’uomo,
continuando a salire verso il cielo, assiste impotente alle
devastazioni che si susseguono sulla superficie terrestre.
Foto di Winifred V. Jackson in un articolo del Boston Sunday Post (Gennaio 1921) |
FINALE:
“Poi
emersero guglie e monoliti coperti d’alghe ma nient’affatto
familiari, terribili monumenti di terre che gli uomini non avevano
mai conosciuto come terre. Non sentivo più alcun pulsare, ma solo il
boato ultraterreno dell’oceano che precipitava sibilando nella
spaccatura; i fumi che ne salivano si erano trasformati in vapore e
man mano che diventavano più densi nascondevano il mondo; mi
scottarono la faccia e le mani, e quando mi voltai per vedere se
avessero fatto del male ai miei compagni vidi che erano scomparsi.
Ben presto fu tutto finito e non seppi altro fino a quando mi
svegliai nel mio letto di convalescente. Quando la nube di vapori che
si alzava dall’abissale spaccatura ebbe nascosto la superficie,
tutto il firmamento urlò per la sofferenza provocata dal boato, come
un’eco che scuotesse lo spazio. Ci fu un lampo, un’esplosione, un
olocausto accecante e assordante di fuoco, fumo e tuono che cancellò
la luna nel suo corso. Quando il fumo sparì e io cercai di
individuare la terra, sullo sfondo di stelle fredde e beffarde non
vidi che il sole moribondo e i pallidi, sconsolati pianeti che
cercavano la loro sorella.”
La poetessa Winifred V. Jackson in un articolo del Boston Herald (Dicembre1921) |
Lovecraft
torna a collaborare con Winifred V. Jackson un anno dopo aver scritto
con lei Il
prato verde,
che era nato da un sogno fatto da entrambi. Anche in questo caso il
racconto – firmato dai due con i loro pseudonimi: Lewis Theobald ed
Elizabeth Neville Berkeley – nasce da un sogno, anche se stavolta
della sola Jackson. L’apparizione del bimbo con l’aureola e la
successiva ascensione in cielo ha poco a che fare con le fantasie del
Sognatore di Providence ed è probabilmente un’invenzione della
scrittrice. Eppure Lovecraft confessa di trovarsi a suo agio con
l’immaginazione della donna, con la quale condivide quelle visioni
colme di scenari naturali affascinanti destinati a epiloghi quasi
sempre apocalittici.
All’inizio
del racconto vengono citati gli scrittori e saggisti Thomas de
Quincey, autore de Le
confessioni di un mangiatore d’oppio
(1821) e Charles P. Baudelaire, entrambi legati dall’esperienza
oppiacea. Viene menzionato anche lo scrittore inglese Rudyard
Kipling, ancora in vita all’epoca del racconto.
Da
non confondere il titolo del racconto con l’appellativo attribuito
a Nyarlathotep, definito appunto “il Caos Strisciante”.
Luoghi:
Teloe,
la città dove vivono gli dei, situata oltre la Via Lattea;
Cytharion, detta “la città dei Sette Soli”; i fiumi di Arinuria.
Prima pubblicazione de Il Caos Strisciante (Aprile 1921) |
Dall’inizio
di questo anno Lovecraft comincia a far circolare i suoi racconti sia
negli Stati Uniti, sia in Canada e Inghilterra attraverso il
Transatlantic
Circulator,
un gruppo di letterati e giornalisti amatoriali di questi tre Paesi
che si scambia i propri lavori (racconti, poesie, saggi) su fogli
manoscritti e poi ne discute. In questa sede difende il suo racconto
Dagon
dalle critiche che gli sono mosse da molti lettori.
Effettivamente,
la pubblicazione di Dagon
suscita qualche polemica nel mondo amatoriale. La maggior parte dei
lettori non lo capisce, lo giudica inconsistente e incomprensibile.
Lovecraft risponde a ognuna delle loro lettere e in seguito raccoglie
tutte le critiche che gli sono state fatte in un documento,
intitolato In
Defense of Dagon,
nel quale rivendica la superiore dignità letteraria della narrativa
fantastica sulle vicende banali affrontate dalla stampa popolare
dell’epoca.
LA
CITTÀ
SENZA
NOME
(THE
NAMELESS CITY,
gennaio)
“Quando
mi avvicinai alla città senza nome capii che era maledetta.
Viaggiavo, sotto la luna, per una valle terribile e riarsa, e la vidi
affiorare sinistramente dalle sabbie, come i pezzi di un cadavere
potrebbero affiorare da un sepolcro inadeguato. Le pietre corrose di
quella veneranda superstite del diluvio, di quella bisnonna della più
vecchia piramide, parlavano di paura, e un’aura invisibile mi
respinse, mi ordinò di ritirarmi da quel luogo di segreti che nessun
uomo dovrebbe vedere, e nessuno infatti aveva visto.
La città senza nome by Alexander Joseba (2017) |
Remota
nel deserto d’Arabia giace la città senza nome, rovinosa e
caotica, le basse mura quasi sepolte dalle sabbie di età infinite.
Dev’essere stata già così prima che l’uomo ponesse le prime
pietre di Menfi, già prima che venissero cotti i mattoni di
Babilonia. Nessuna leggenda è così antica da risalire fino ad essa
per darle un nome, o per ricordare che fu mai viva un giorno; ma se
ne parla in sussurri attorno ai fuochi di campo, e le vecchie ne
mormorano nelle tende degli sceicchi, così che tutte le tribù la
evitano senza sapere perché. Di questo luogo sognò il poeta pazzo
Abdul Alhazred la notte prima di cantare il distico inesplicabile:
Non
è morto ciò che giace in eterno ad aspettare
E
dopo interminabili ere anche la morte può morire.
Avrei
dovuto sapere che gli arabi avevano buone ragioni per evitare la
città senza nome, la città di cui si parla in strani racconti ma
che nessun uomo vivo ha mai veduto, eppure non ne tenni conto e
proseguii col mio cammello per quella distesa inviolata. Solo io l’ho
vista, e questa è la ragione per cui nessun volto reca i segni
orribili della paura che porta il mio, e nessun altro uomo trema come
me quando il vento notturno batte sui vetri delle finestre. Quando la
trovai, nella spettrale immobilità del suo sonno infinito, essa mi
guardò, fredda sotto i raggi della luna in mezzo al calore del
deserto. E quando le restituii lo sguardo dimenticai il trionfo della
scoperta e fermai il mio cammello, deciso a non proseguire prima
dell’alba.”
La città senza nome by Alexander Joseba (2017) |
All’arrivo
del primo chiarore dell’aurora il viaggiatore entra nella città.
“Vagai
dentro e fuori le fondamenta informi di case e edifici, ma non trovai
un solo rilievo, una sola iscrizione che parlasse degli uomini (se di
uomini si trattava) che avevano costruito la città e ci avevano
vissuto in un tempo così remoto. L’antichità del luogo era
malsana, e io mi augurai d’incontrare un segno o uno strumento che
rivelassero l’umanità dei costruttori; ma c’erano proporzioni e
dimensioni, in quelle rovine, che non mi piacevano. Avevo con me
attrezzi d’ogni genere, e con essi scavai nei muri degli edifici
dimenticati, ma i progressi erano lenti e non scoprii nulla di
significativo. Quando venne la notte e tornò la luna si levò una
brezza fredda che mi riempì di paura, sicché non osai rimanere
nella città. E quando mi lasciai alle spalle le antiche mura per
andare a dormire, un piccolo vortice di sabbia si levò gemendo
dietro di me, soffiando sulle pietre grigie, sebbene la luna fosse
limpida e il resto del deserto immobile.”
Allo
spuntare del Sole, l’uomo si reca di nuovo nella città alla
ricerca di un segno dei suoi misteriosi costruttori. Nel pomeriggio
passa la maggior parte delle ore a disegnare una mappa delle mura,
delle strade e degli edifici semidistrutti dal tempo.
“Mi resi conto che la città era stata grande e mi chiesi quale fosse l’origine della sua grandezza. Mi figurai allora gli splendori di un’età così remota che la Caldea non poteva serbarne memoria, e ripensai a Sarnath colpita da una funesta sorte, la città che sorgeva nella terra di Mnar quando l’umanità era giovane, e a Ib, ricavata dalla pietra grigia prima che l’uomo comparisse sulla terra.”
“Mi resi conto che la città era stata grande e mi chiesi quale fosse l’origine della sua grandezza. Mi figurai allora gli splendori di un’età così remota che la Caldea non poteva serbarne memoria, e ripensai a Sarnath colpita da una funesta sorte, la città che sorgeva nella terra di Mnar quando l’umanità era giovane, e a Ib, ricavata dalla pietra grigia prima che l’uomo comparisse sulla terra.”
Sarnath immaginata da Nikolai Litvinenko (2015) |
Girovagando
tra le rovine della città, il protagonista giunge nei pressi di una
scarpata, sulla cui superficie nota una serie di aperture nella
roccia. Decide così di infilarsi in uno di questi numerosi cunicoli.
“Quando
fui dentro vidi che la caverna era effettivamente un tempio, e
conservava chiari segni della razza che era vissuta e aveva pregato
in quei luoghi prima che il deserto diventasse tale. Non erano
assenti altari primitivi, colonne e nicchie, tutti curiosamente
bassi, e sebbene non vedessi traccia di sculture o affreschi c’erano
tuttavia delle pietre singolari cui con mezzi artificiali si era data
una chiara forma simbolica. La bassezza della stanza ricavata nella
pietra era veramente fuori dal comune, perché a stento riuscivo a
stare in ginocchio, ma la spaziosità era tale che la mia torcia
poteva rivelarne solo una parte alla volta. Spintomi negli angoli più
remoti fui preso dai brividi, perché certi altari e certe pietre
suggerivano riti dimenticati di natura terribile, rivoltante o
inesplicabile; mi chiedevo che specie di uomini avessero eretto e
frequentato un tempio del genere, e quando ebbi visto tutto ciò che
il luogo conteneva strisciai all’esterno, avido di scoprire i
segreti che gli altri templi avrebbero voluto rivelarmi.”
Assetato
di conoscenza e spinto dalla voglia di svelare il segreto della Città
senza Nome, il curioso viaggiatore comincia a perlustrare altri
templi. Nemmeno la notte è più in grado di frenare la sua brama di
sapere; solo il suo cammello sembra spaventato da una misteriosa
corrente di aria fredda che crea vortici di sabbia. L’esploratore
scopre che non è il vento a provocarli, bensì una misteriosa
corrente che proviene da qualche regione sotterranea. In una di
queste perlustrazioni all’interno di un tempio, nota che la sua
torcia si muove a causa del flusso d’aria; decide quindi di
dirigersi verso il luogo dalla quale proviene quest’ultima. Poco
dopo trova una piccola porta ricavata dalla roccia.
La città senza nome by Alexander Joseba (2017) |
“Spinsi
la torcia dentro l’apertura e mi trovai all’imbocco di una buia
galleria, il cui basso soffitto ad arco copriva, dando un senso di
oppressione, una fuga di piccoli, ripidi gradini in discesa. Li
rivedrò sempre nei miei sogni, perché presto ne avrei scoperto il
segreto, ma allora non sapevo nemmeno se definirli scalini o semplici
appigli nella discesa precipitosa. La mia menta turbinava di folli
pensieri, e le parole e i moniti dei profeti arabi sembravano volare
sul deserto, spingendosi dalle terre che gli uomini conoscono alla
città senza nome, che mai oseranno guardare. Tuttavia ebbi solo un
attimo di esitazione prima di proseguire oltre il portale e
cominciare la cauta discesa, prima un piede e poi l’altro, come si
fa sulle scale di corda.”
Per
il ricercatore comincia una lunga e interminabile discesa nell’abisso
durante la quale perde la percezione del tempo; i suoi piedi toccano
superfici diverse ed è costretto a cambiare direzione più volte; in
alcune circostanze è obbligato perfino a strisciare a causa della
volta troppo bassa, per poi riprendere a scendere, fino a quando la
sua torcia non si spegne. Nonostante ciò, “procedevo
come invasato dal mio istinto per tutto ciò ch’è strano e ignoto
e che ha fatto di me un vagabondo, un cacciatore di luoghi remoti,
antichi e proibiti.”
Fino
a quando non giunge in un ambiente in cui è costretto a
inginocchiarsi per riuscire a procedere. “Presto
compresi di trovarmi in uno stretto corridoio lungo le cui pareti
stavano allineate delle casse di legno dal coperchio di vetro. Tremai
al pensiero di ciò che la presenza di legno e cristallo potevano
significare in un luogo di così remota antichità. I contenitori
sembravano allineati a intervalli regolari dall’una all’altra
parte, erano oblunghi e disposti orizzontalmente, e la forma e le
dimensioni erano quelle di una bara. Quando cercai di rimuoverne due
o tre per esaminarli più da vicino mi resi conto che erano
saldamente assicurati.”
La città senza nome by Alexander Joseba (2017) |
Gradualmente, l’esploratore riesce a distinguere le dimensioni dell’ambiente intorno a lui grazie a una curiosa luminescenza.
“La
cripta in cui mi trovavo non era una spoglia reliquia come i templi
di superficie, ma un monumento d’arte esotica e squisita. Motivi
ornamentali e pitture vivide, incredibilmente fantasiose, formavano
un affresco continuo dai colori indescrivibili. I contenitori erano
di uno strano legno dorato, e i coperchi di cristallo purissimo
proteggevano le forme mummificate di creature così grottesche da
andare oltre i più folli sogni dell’uomo. Tentare di descrivere in
qualunque modo quelle mostruosità è impossibile. Appartenevano
all’ordine dei rettili e le forme del corpo facevano pensare ora al
coccodrillo, ora all’otaria, ma più spesso a cose che né il
naturalista né il paleontologo hanno mai conosciuto. La taglia era
quella di un uomo piuttosto piccolo, e gli arti anteriori terminavano
in due piccole ma vistose zampette che somigliavano curiosamente alle
mani dell’uomo e avevano dita simili alle nostre. Ma la cosa più
strana era la testa, i cui contorni violavano tutti i princìpi
conosciuti della biologia. A nulla posso paragonarle: nello stesso
istante pensai a un gatto, un bulldog, a un satiro della mitologia e
all’uomo stesso. Nemmeno Giove poté vantare una fronte così vasta
e sporgente, e tuttavia le corna, la mancanza di naso e la mascella
da alligatore ponevano quegli esseri al di là di tutte le categorie
conosciute. Fui perfino tentato di mettere in dubbio la realtà delle
mummie, sospettando che si trattasse di idoli artificiali, ma poi
decisi che appartenevano invece a una specie antichissima che aveva
vissuto quando la città senza nome era stata viva. Per completare
l’effetto grottesco, la maggior parte delle creature era vestita
dei tessuti più raffinati e profusamente ornata di ori, gioielli e
altri metalli sconosciuti.”
Copertina di un Ebook del 2017 |
“Queste
creature striscianti dovevano aver occupato un posto importante nel
loro mondo, perché erano sempre in primo piano negli affreschi e nei
folli arabeschi che adornavano pareti e soffitto. Con grandissima
abilità l’artista le aveva ritratte nel mondo che era loro
appartenuto, dove sorgevano le loro città e fiorivano giardini
proporzionati alle loro dimensioni; e non potei fare a meno di
pensare che la storia dipinta sui muri fosse allegorica, e che in
realtà mostrasse il progresso della razza che aveva adorato
le creature. Le quali, mi dissi, erano state per gli uomini della
città senza nome ciò che la lupa fu per Roma, o quello che un
animale-totem è per le tribù indiane.”
Il
viaggiatore, osservando attentamente gli affreschi, ricostruisce la
storia della città, le sue guerre e i suoi trionfi, la sua lotta
contro il deserto che avanza implacabile minacciando la sua fertile
valle e la decisione finale dei suoi abitanti di vivere nel
sottosuolo, scavando grazie alle loro tecniche straordinarie.
“C’erano
cose strane che non riuscivo a capire: quella civiltà, che possedeva
perfino un proprio alfabeto, si era elevata a quanto pareva su un
gradino più alto delle sue lontanissime discendenti di Egitto e
della Caldea, eppure sotto un certo aspetto sembrava manchevole. Non
potei, per esempio, trovare alcun dipinto di soggetto funerario o che
riguardasse la morte; l’unica eccezione era costituita da quelli in
cui erano compendiate guerre, violenze e pestilenze. Quella sorta di
reticenza nei confronti della morte naturale mi lasciò perplesso.
Era come se gli abitanti della città avessero voluto coltivare un
illusorio ideale d’immortalità.”
Man mano che prosegue nello studio degli affreschi, l’uomo nota un cambiamento nella tecnica pittorica, una decadenza che condivide con le vicende dei misteriosi abitanti della città. “Sacerdoti-rettile emaciati, vestiti di tuniche preziose, maledicevano dai loro dipinti l’aria del mondo esterno e tutti coloro che la respiravano. E una terribile scena finale mostrava un uomo dall’aspetto primitivo (forse avventuratosi fin là dall’antica Irem, la Città delle Colonne) fatto a pezzi dai membri della razza mostruosa. Ricordai allora come gli arabi temessero la città senza nome, e fui contento che al di là di questa galleria le grigie mura e il soffitto fossero del tutto disadorni.”
Copertina della rivista amatoriale "The Wolverine" dove apparve per la prima volta La Città Senza Nome (novembre 1921) |
Seguendo
la storia raccontata dagli affreschi, il protagonista si trova di
fronte a una porta di bronzo dalla quale si riversa la strana
fosforescenza che rischiara l’ambiente, ma non riesce a distinguere
nulla attraverso questa specie di nebbia illuminata, se non l’inizio
di un’altra scala scavata nella roccia, fatta di piccoli gradini,
che continua a scendere nell’abisso senza fondo.
“Che
un mondo fantastico e del mistero giacesse in fondo a quel volo di
scalini non potevo dubitare, e sperai di trovare laggiù le tracce di
presenza umana che gli affreschi nella galleria mi avevano negato.
Poiché avevo già visto, nei dipinti, le immagini eccitanti di
incredibili città e vallate che popolavano quel regno sotterraneo,
la mia fantasia si appuntava sulle rovine splendide e colossali che
mi aspettavano. I miei timori, invece, concernevano il passato più
che il futuro. Nemmeno l’orrore fisico della mia posizione in quel
corridoio nano, fiancheggiato da rettili morti e affreschi
antidiluviani, miglia e miglia al di sotto del mondo che conoscevo,
dinanzi a un universo alieno di luce e nebbia soprannaturali, poteva
reggere il paragone col terrore mortale che provavo pensando
all’abissale antichità della scena e della sua natura.
Un’antichità così vasta che ogni misura diventa ridicola sembrava
guardarmi dalle pietre primordiali e dai templi scavati nella roccia
della città senza nome, mentre perfino le mappe più recenti
raffigurate negli affreschi ritraevano oceani e continenti che l’uomo
ha dimenticato, e che solo qua e là mostravano un contorno vagamente
familiare. Che cosa sia accaduto nelle ere geologiche trascorse dal
momento in cui i dipinti cessarono e la razza che aveva in odio la
morte dovette soccombere suo malgrado alla decomposizione, nessun
uomo può dirlo. Una volta queste caverne e il regno di luce che si
stendeva al di sotto avevano pulsato di vita, ma ora ero solo fra
quelle vivide reliquie, e tremavo al pensiero delle ere innumerevoli
durante le quali esse avevano silenziosamente vigilato.”
Improvvisamente,
si ode un suono basso e profondo, seguito da un vento freddo e
impetuoso, tanto da costringere l’uomo ad aggrapparsi alla porta
per non precipitare nell’abisso fosforescente.
Copertina di Weird Tales, di A. R. Tilburne, dove venne ristampato il racconto di HPL (novembre 1938) |
FINALE:
“Solo
i cupi dèi del deserto sanno ciò che avvenne poi, grazie a quali
sforzi, trascinandomi nel buio, io sopravvissi, o quale angelo
dell’abisso mi riportò al mondo dei vivi, dove sempre tremerò al
vento della sera, finché l’oblio – o qualcosa di peggio –
vorrà riprendermi. Mostruoso, innaturale, colossale fu l’evento…
troppo al di là di qualunque umana concezione per poter essere
accettato, se non nelle ore piccole del mattino, quando non si riesce
a dormire. Ho detto che la furia del vento era stata infernale,
demoniaca, e che la sua voce aveva risuonato orribilmente di una
malvagità repressa da secoli. Ma a un tratto mi sembrò che, se la
voce davanti a me era tuttora caotica e confusa, alle mie spalle
prendesse forma articolata; e infatti, in quella tomba che
racchiudeva il segreto di età infinitamente morte, chilometri e
chilometri sotto il mondo degli uomini illuminato dalla luce
dell’aurora, udii l’orrendo ringhio e le maledizioni di demoni
dalle gole inconcepibili. Mi girai e, profilata contro l’eterea
luminosità dell’abisso, vidi ciò che era stato invisibile nelle
tenebre del corridoio: una teoria d’incubo di diavoli in corsa,
stravolti dall’odio, grottescamente armati, mezzo trasparenti, e
appartenenti a una razza che non lasciava dubbi: i rettili
striscianti della città senza nome. E quando il vento si placò mi
ritrovai immerso nelle tenebrose viscere della terra popolate di
mostri; perché dietro l’ultima creatura la grande porta di bronzo
sbatté con un clangore metallico assordante, che certo giunse al
mondo di superficie come un inno in onore del sole nascente, simile a
quello che Memnone gli rivolge dalle sponde del Nilo.”
Disegno di A. R. Tilburne (1887-1965) del novembre 1938 |
In
una lettera datata 26 giugno 1921 inviata al suo amico Frank Belknap
Long, Lovecraft allega anche questo racconto presentandolo così:
“Sono
lieto che Nyarlathotep
ti piaccia, e a rischio d’annoiarti accludo il mio ultimo racconto,
appena finito e battuto a macchina, The
Nameless City.
La storia è basata su un sogno che a sua volta, probabilmente, è
stato provocato dalla particolare suggestione di una frase contenuta
nel Libro
delle meraviglie
di Lord Dunsany: ‘le
tenebre dell’abisso che non mandano riflesso’. Il personaggio di
Abdul Alhazred è uno pseudonimo che adottai quando avevo cinque anni
e andavo pazzo per Le
Mille e una notte.
Non so bene cosa pensare del racconto, tu sei il primo a vederlo, ma
è certo che ci ho lavorato parecchio. Ho strappato due diversi inizi
e credo di aver ottenuto la giusta atmosfera solo al terzo tentativo.
Io miro a una successione cumulativa di orrori… brivido su brivido
e ognuno peggiore!”
Questo
racconto è considerato dalla maggior parte dei critici la prima
storia del “Ciclo di Arkham”, per vari motivi. Innanzitutto,
viene citato per la prima volta il poeta pazzo Abdul Alhazred e il
suo celebre distico, alludendo anche alla sua opera più famosa -
senza ancora nominarla - ovvero il Necronomicon.
Compaiono per la prima volta anche le geometrie non euclidee e l’idea
che sia esistita, in un remotissimo passato, una razza che ha vissuto
sulla Terra molto prima dell’essere umano.
Vero
è che prima c’erano stati i racconti Dagon
e Nyarlathotep,
ma entrambi saranno utilizzati solo successivamente come divinità
del pantheon degli dèi alieni. Non è un caso che il primo sia
l’unica “divinità” non inventata dallo scrittore, mentre il
secondo nasce come prose
poem.
Disegno di Eliezer Mayor (2018) |
Semmai,
un legame c’è con la novella La
rovina di Sarnath
(1919), perché l’autore cita proprio tale antica città nel
racconto, in un passo riportato anche in questo riassunto: “Mi
figurai allora gli splendori di un’età così remota che la Caldea
non poteva serbarne memoria, e ripensai a Sarnath colpita da una
funesta sorte, la città che sorgeva nella terra di Mnar quando
l’umanità era giovane, e a Ib, ricavata dalla pietra grigia prima
che l’uomo comparisse sulla terra.” Per
Caldea si intende la terra di Babilonia, dove sorse una fra le più
antiche civiltà umane, quella sumera. Forse sia la città di Ib sia quella di Sarnath sono state antichissime comunità costruite sullo
stesso territorio che un giorno sarà occupato dai Sag-Gi, ovvero le Teste Nere, come si definivano i Sumeri nelle loro iscrizioni
cuneiformi. Ricordiamo che la prima, Ib, era stata edificata da
esseri non umani (prima
che l’uomo comparisse sulla terra)
e simili ai rettili, vista la descrizione che ne dà Lovecraft: di
colore verde, con occhi sporgenti, labbra grosse e flaccide, orecchie
strane e senza voce, che adoravano Bokrug, la grande lucertola
acquatica. Dalla descrizione somigliano molto ai rettili de La
città senza nome,
ma anche se così non fosse, almeno una certa parentela con loro
l’avranno avuta.
Mentre Sarnath venne costruita vicino a Ib dai rappresentanti di una
nuova razza, quella umana, e durò mille anni prima che l’oblio del
tempo non la cancellasse dalla memoria delle generazioni future.
Abdul Alhazred visto da Eric Gould |
In
un passo del racconto vengono nominati diversi personaggi. Afrasiab,
un leggendario sovrano di Turan, eroe dell’epica persiana, che
navigò insieme a un’orda di demoni lungo il fiume Oxus
(attualmente noto col nome di Amu Darya), il corso d’acqua più
lungo dell’Asia centrale. Personaggio citato anche da E. A. Poe
nella conclusione del suo racconto Le
esequie premature
(“La
lugubre regione dei sepolcrali terrori non può essere ritenuta del
tutto fantastica; ma al pari dei Demoni in compagnia dei quali
Afrasiab compì il suo viaggio lungo l’Oxus, essi debbono dormire,
altrimenti ci divoreranno; bisogna costringerli al silenzio,
altrimenti periremo.”).
Damascio,
filosofo bizantino vissuto tra la seconda metà del V secolo e la
prima del VI d. C. fu a capo dell’accademia di Atene intorno al 520
d. C. e fu uno degli ultimi esponenti del neoplatonismo. Lasciò
l’Impero Romano d’Oriente, ormai completamente cristianizzato e
ostile ai pagani, per andare in Persia, alla corte del re filosofo
Cosroe I.
Gauthier
de Metz, ecclesiastico e poeta del XIII secolo, è invece l’autore
dell’Image
du Monde
(1245), un’opera enciclopedica sulla Terra, la creazione e
l’universo in cui realtà e fantasia si mescolano. Scritta in
latino, in versi ottosillabici, è diviso in tre parti e in 45
capitoli.
La città senza nome by Angela Sprecher (2011) |
Di
Thomas Moore (1779-1852), poeta irlandese, Lovecraft usa alcuni versi
presi dall’Alciphron,
a Poem
(1840).
L’autore
cita anche Irem, la Città delle Colonne, mutuata da Iram delle Colonne (o dei Pilastri), un paese leggendario menzionato sia nel
Corano sia nelle Mille
e una notte.
Era un centro molto ricco, grazie ai traffici commerciali
carovanieri, sorto in prossimità di un’oasi, che fu abitato dal
3000 a. C. al 500 d. C. Soltanto nel 1992, grazie ad alcuni
rilevamenti satellitari, i resti di questa città sono stati
riportati alla luce.
Luoghi:
la Città senza nome, nel deserto d’Arabia. Vengono citate: Irem,
la città delle colonne, Sarnath e Ib.
Personaggi:
l’io narrante e l’arabo pazzo Abdul Alhazred, quest’ultimo
soltanto citato.
Afrasiab (in piedi) nello Shahnameh (il libro dei re), scritto dal poeta epico Ferdowsi (ca. 940- 1020) |
22
febbraio. Si reca a un congresso di giornalisti dilettanti a Boston e
passa la prima notte fuori di casa dal 1901. In questa occasione
legge in pubblico un suo manoscritto.
Entusiasmato
dall’esperienza, ne dà un puntiglioso resoconto a sua madre in una
lettera scritta due giorni dopo l’evento. Qui di seguito alcuni
estratti, che rivelano al contempo eccitazione e insicurezza.
La Terra sferica in una copia de L'image du Monde, di Gauthier de Metz, pubblicato nel 1246 |
“Carissima
mamma, mi ha fatto molto piacere ricevere la tua lettera e ti
ringrazio delle primule che ancora adornano la casa, della “Weekly
Review” e di quel bellissimo ritratto felino che avrà un posto
d’onore sulla parete. Il convegno dei giornalisti dilettanti che si
è svolto il 22 febbraio è stato un ottimo successo sotto ogni punto
di vista e mi ha dato l’occasione di trascorrere la giornata più
piacevole che ricordi dalla fine dell’infanzia. Il vestito nuovo,
che portavo per la prima volta, era un capolavoro e mi faceva
sembrare rispettabile quanto la mia faccia permette: ma persino la
faccia faceva del suo meglio. In breve, la perfezione
dell’abbigliamento mi ha consentito di non preoccuparmi più del
mio aspetto, anzi, di dimenticare di essere visibile: è questo il
segreto per stare veramente bene in società. […] Finalmente è
venuto il momento dei discorsi. Avevo preparato un intervento scritto
sul mio argomento, “Il miglior poeta”… ma alla fine non l’ho
letto, perché tutti i precedenti oratori avevano parlato a braccio.
Ho aspettato fino all’ultimo per decidermi e sono stato contento:
perché, con mio stupore, mi sono reso conto di poter fare un
discorso estemporaneo (costruito sulla falsariga del testo scritto,
ma arricchito da allusioni immediate) che ha suscitato un boato di
applausi. Altra sorpresa i complimenti che sono venuti poi: non meno
di cinque persone, compreso il maestro di cerimonie, mi hanno detto
che il mio discorso era stato il migliore della serata. Houtain mi ha
consigliato di non leggere più testi scritti, perché sono un
oratore nato! Tutto questo è stupefacente, dal momento che sono un
eremita e non mi era mai capitato prima di parlare ai partecipanti a
un banchetto. […]”
Thomas Moore (1779-1852) in un ritratto eseguito da Thomas Lawrence |
LA RICERCA DI IRANON
(THE QUEST OF IRANON, 28 febbraio)
“A
Teloth, città di granito, girava un giovane dai capelli gialli e
lucenti di mirra che egli ornava con una semplice corona di foglie;
addosso portava una tunica rossa e lacera, così ridotta dalle more
spinose del monte Sidrak che svetta oltre il ponte di pietra. Gli
uomini di Teloth sono bruni, severi e vivono in case quadrate, per
cui chiesero al giovane con impazienza chi fosse e di dove venisse.
Il ragazzo rispose: - Mi chiamo Iranon e vengo da Aira, una lontana
città di cui ho un vago ricordo e che voglio ritrovare. Canto le
canzoni che ho imparato laggiù, la mia missione è creare la
bellezza con le cose che ricordo dell’infanzia. La mia sola
ricchezza sono i sogni, i ricordi e le speranze di cui canto nei
giardini, quando la luna è dolce e il vento di occidente fa stormire
i boccioli di loto. A
sentire questa risposta gli uomini di Teloth bisbigliarono fra loro
perché, se nella città di granito non c’è posto per risate e
canzoni, in primavera i severi abitanti ammirano le colline di
Karthia e pensano ai liuti della lontana Oonai di cui parlano i
viaggiatori. Così dicendosi chiesero allo straniero di restare e di
cantare nella piazza davanti alla Torre di Mlin, anche se non
gradivano il colore della tunica lacerata e nemmeno la mirra nei
capelli, la corona di foglie e la giovinezza della sua voce. Quella
sera Iranon cantò e durante la canzone un vecchio si mise a pregare
e un cieco disse di vedere un’aureola sulla testa del cantore. Ma
la maggior parte degli abitanti sbadigliarono, qualcuno rise e
qualcuno se ne andò a letto. Perché Iranon non cantava di cose
utili ma solo di ricordi, sogni e speranze.”
Il
giorno dopo un notabile della città invita il giovane a recarsi
nella bottega del calzolaio, per diventare suo apprendista. Questo
perché la legge prevede che tutti, a Teloth, facciano un mestiere.
Al che Iranon risponde: “Perché
lavorate?
Non
potreste limitarvi a vivere ed essere contenti? E se vi affaticate
solo per potervi affaticare di più, quando troverete la felicità?
Voi dite di lavorare per vivere, ma la vita non è fatta di bellezza
e canzoni? E se non sopportate fra di voi un cantore, dove vanno i
frutti di tanto lavoro? Lavorare senza divertirsi è come fare un
viaggio interminabile senza meta. Non sarebbe meglio morire?”
Il
notaio non riesce a comprendere il significato delle parole di Iranon
e lo rimprovera. “Sei
un giovanotto strano e non mi piacciono né la tua faccia né la tua
voce. Le parole che hai detto sono blasfeme perché i nostri dei
hanno predicato le virtù del lavoro. Gli dei ci hanno promesso, dopo
la morte, un paradiso di luce dove riposeremo in eterno e una fredda
quiete di cristallo in cui nessuno dovrà arrovellarsi la mente con
il pensiero o sciuparsi gli occhi a rimirare la bellezza. Dunque vai
da Athok il ciabattino o preparati a lasciare la città al tramonto.”
Iranon
decide di abbandonare la città e si incammina sulla strada
principale; arrivato nei pressi di una banchina di pietra lungo il
fiume Zuro, nota un ragazzo con uno sguardo triste fisso sulla
corrente del fiume. Romnod, questo il suo nome, decide di seguire
Iranon nelle sue peregrinazioni, perché si è sempre sentito diverso
dalla sua gente. Il poeta accetta di buon grado, ma lo avverte che la
loro ricerca sarà lunga e difficile.
Illustrazione di Virgil Finlay (Marzo 1939) |
I
due passano molti anni insieme, fino a quando il bambino sembra
diventare più vecchio di Iranon che invece è rimasto lo stesso di
tanti anni prima. Durante il loro lungo viaggio, i due giungono
infine alla città di Oonai, dove il piacere per la gioia di vivere è
condiviso. Vengono accolti con felicità e apprezzati per le loro
canzoni; così i due decidono di fermarsi. Il re fa togliere a Iranon
la sua logora tunica rossa e lo veste di seta e oro, ricoprendolo di
attenzioni.
“Non
si sa quanto tempo durasse questa permanenza, ma un giorno il re
portò a palazzo un gruppo di sfrenati ballerini dal deserto di
Lirania e una banda di suonatori di flauto da Drinen, in oriente (e
infatti avevano la pelle scura); da allora in poi la popolazione
smise di gettare fiori a Iranon e li diede ai ballerini e ai
suonatori di flauto. E giorno per giorno Romnod, che a Teloth era
solo un ragazzino, si fece grosso e rozzo, sempre più rosso di vino
e meno disposto a sognare, finché il suo interesse per le canzoni di
Iranon scemò. Per quanto triste, il cantore non smise di cantare e
di sera raccontava ancora i suoi ricordi di Aira, la città di marmo
e berillio. Ma una notte il rosso e panciuto Romnod cominciò ad
ansimare faticosamente sul divano di seta dove banchettava e morì
tra i piaceri, mentre il pallido ed emaciato Iranon cantava per lui
in un angolo. Dopo aver pianto sulla tomba di Romnod e averla coperta
dei rametti verdi che l’amico amava, il cantore mise da parte la
veste di seta e gli ornamenti e, dimenticato da tutti, abbandonò
Oonai, la città dei liuti e delle danze; indossava di nuovo la
tunica rossa e lacera con cui era arrivato, e in testa portava una
ghirlanda di semplici foglie di montagna.”
Indice di Weird Tales (Marzo 1939) |
FINALE:
Iranon riprende così la sua lunga ricerca; tocca molte altre terre,
incontra altre città e altri popoli... mai però la sua amata Aira.
Una sera giunge nei pressi di una palude dove si trova la capanna di
un vecchio pastore e, come ha già fatto molte altre volte, gli
domanda se è in grado di aiutarlo a trovare la splendida Aira.
“Il
pastore, sentendolo, gli diede un’occhiata lunga e strana, come se
ricordasse qualcosa di molto lontano nel tempo; scrutò attentamente
i lineamenti dello straniero, i capelli biondi e la corona di foglie
che portava sul capo, ma era vecchio e quando rispose scosse la
testa: - O straniero, ho sentito sì il nome di Aira dai fiumi che
hai citato, ma sono passati troppi anni. Me ne parlava, da giovane,
un compagno di giochi, un ragazzo che faceva il mendicante e sognava
cose stranissime. Inventava racconti sulla luna, i fiori e il vento
d’occidente, e noi ridevamo perché lo conoscevamo dalla nascita
mentre lui immaginava di essere figlio di un re. Era bello proprio
come te, ma strambo e misterioso; scappò che era ancora un ragazzino
per trovare gente disposta a farsi incantare dai suoi sogni e dalle
sue canzoni. Quante volte mi cantava di terre che non esistono e cose
che non possono esistere! Di Aira parlava in continuazione, e anche
del fiume Nithra e delle cascate del minuscolo Kra. Diceva che una
volta ci aveva abitato ed era stato un principe, anche se noi lo
conoscevamo da quando era nato. Non c’è mai stata una città di
marmo di nome Aira, non sono mai esistiti gli uomini che godevano
delle sue bizzarre canzoni… mai, tranne che nei sogni del mio
vecchio amico Iranon. E ormai se n’è andato da tanto tempo.
Al crepuscolo, mentre le stelle spuntavano una ad una e la luna proiettava sulla palude un chiarore simile a quello che un bambino vede sul pavimento della stanza in cui lo cullano, un uomo vecchissimo e coperto di stracci rossi si immerse volontariamente nelle sabbie mobili della palude. In testa portava una corona di foglie e teneva lo sguardo fisso davanti a sé, come se avesse intravisto le cupole d’oro della città stupenda dove i sogni vengono compresi. Quella sera, un po’ di gioventù e bellezza sparirono per sempre dal vecchio mondo.”
Al crepuscolo, mentre le stelle spuntavano una ad una e la luna proiettava sulla palude un chiarore simile a quello che un bambino vede sul pavimento della stanza in cui lo cullano, un uomo vecchissimo e coperto di stracci rossi si immerse volontariamente nelle sabbie mobili della palude. In testa portava una corona di foglie e teneva lo sguardo fisso davanti a sé, come se avesse intravisto le cupole d’oro della città stupenda dove i sogni vengono compresi. Quella sera, un po’ di gioventù e bellezza sparirono per sempre dal vecchio mondo.”
Illustrazione di Sayu Suzuki (2018) |
Una
delle più famose frasi attribuite a Lovecraft è la seguente: “Non
ho possibilità d’inventiva se non nel regno dell’ignoto. La vita
non mi ha mai interessato quanto l’evasione lontano dalla vita.”
La
conferma a questa asserzione la si trova nel racconto di Iranon,
malinconico e poetico, sicuramente uno tra i più belli di quelli
d’ispirazione “dunsaniana”, dove l’arte, oltre che fantasia e
bellezza, porta con sé anche follia. L’infinita ricerca di una
destinazione utopistica da parte del suo protagonista, un bizzarro
poeta-messia, ci dice molto sull’arte come la intendeva Lovecraft:
capace di concedere l’eterna giovinezza a colui che la ama sopra
ogni cosa, ma pagando con la follia il completo distacco dalla
realtà.
Qui
il sognatore di turno non è combattuto fra l’appartenere al mondo
reale e al sogno (come Kuranes nel racconto Celephaïs,
il quale alla fine opta per il secondo, regnando sulla materia dei
suoi sogni), perché, preso dalle sue illusioni, non riesce a fare
una distinzione tra i due e per questo resta vittima del suo stesso
sognare.
Prima pagina del dattiloscritto del racconto (28 febbraio 1921) |
Ultima pagina del dattiloscritto |
La
ricerca di Iranon
è uno dei racconti più amati dall’autore, come testimonia
l’introduzione di Giuseppe Lippi al racconto, apparsa nella
raccolta da lui curata per Mondadori alla fine degli anni ’80, che
riporto fedelmente.
“The
Quest of Iranon è uno dei racconti che Lovecraft preferiva.
Scrivendone a Rheinhart
Kleiner il 23 aprile 1921, ecco come si esprime: ‘Negli
ultimi tempi ho sviluppato uno stile nuovo, attento al pathos oltre
che all’orrore. La cosa migliore che ho fatto in questo senso è
The
Quest of Iranon,
il cui inglese è stato definito da Loveman il più scorrevole e
musicale che io sia riuscito a ottenere finora. La trista vicenda ha
fatto piangere un celebre poeta…no, non per le sue eventuali
imperfezioni ma proprio per l’amarezza.’
In racconti come Iranon e Ex Oblivione Lovecraft tenta di ricavare il
massimo da alcune idee volutamente tristi, che non possono fare a
meno di colpire: in particolare, che la vita è sogno ma porta
inevitabilmente alla delusione, e che la culla definitiva del
fantasticare sia la morte (con tutto il corredo di idee “liberatorie”
sulla mancanza di corpo, mancanza di sensi, ecc.). L’affezione di
Lovecraft per la morte durò una vita e si manifestò sia sotto
queste spoglie romantiche, “poetiche”, che noi a volte troviamo
desuete, sia nel più vigoroso filone necrofilo.”
Illustrazione di Jacen Burrows per la serie a fumetti Providence |
La
storia appartiene al cosiddetto “Ciclo dei sogni”, costituito da
quelle opere dalla connotazione onirica e fantastica che sono
ambientate nel regno di Morfeo. A essere rigorosi però, il suddetto
ciclo si potrebbe dividere a sua volta in due sottogruppi: il primo
situato unicamente nel mondo del sogno, il secondo invece ambientato
in un’epoca così lontana nel tempo da essere ormai considerata
mitica, dunque parente stretta del sogno, ma legata alla storia
dimenticata della Terra. Potrebbe essere definito “Ciclo del tempo
remoto” o qualcosa del genere. A quest’ultimo gruppo
apparterrebbero i seguenti racconti: La
Stella Polare
(1918), La
rovina di Sarnath
(1919) e I
gatti di Ulthar
(1920). Ciò sembra essere avvalorato anche da alcuni riferimenti
alle città di Ib e Sarnath che si trovano ne La
città senza nome
(1920), avventura ambientata nella realtà, non nel sogno.
Seguendo
questo ragionamento, anche La
ricerca di Iranon
dovrebbe inserirsi in questo secondo gruppo, poiché fra le tappe
toccate dal folle poeta ci sono la palude dove un tempo sorgeva
Sarnath, seguita da Ilarnek, Kadatheron, Thara e Olathoe, tutte città
presenti nei racconti sopra menzionati.
The Galleon Vol. 1 n. 5, (Lug.-Ago. 1935) dove apparve per la prima volta il racconto La ricerca di Iranon |
Luoghi:
Aira, la città di marmo e berillio, nei pressi del fiume Nithra e le
cascate del minuscolo Kra; Teloth, la città di granito, con la sua
Torre di Mlin e il suo fiume Zuro; Oonai, città dei liuti e delle
danze; le colline di Karthia; Cydathria, altra città; la Valle di
Narthos, vicino al fiume
Xari,
luogo dove Iranon ha abitato da piccolo; Sinara e Jaren dalle mura
d’onice, altre due città bagnate dal fiume Xari; Stethelos, sotto
la grande cataratta; la palude dove sorgeva Sarnath; Thara e Ilarnek,
altre città visitate da Iranon; Kadatheron, sul tortuoso fiume Ai;
Olathoe, nella terra di Lomar; il deserto di Lirania, dal quale
giungono gli sfrenati ballerini chiamati dal re di Oonai; Drinen,
città d’oriente da dove provengono gli scuri suonatori di flauto,
anch’essi chiamati per allietare gli abitanti di Oonai; deserto di
Bnazi;
Personaggi:
Iranon, il poeta cantastorie; Romnod, il ragazzo di Teloth che decide
di seguire Iranon; Athok, ciabattino di Teloth;
un vecchio pastore.
Copertina di un disco ispirato ad alcuni racconti di Lovecraft (2017), di Vormithadreth |
LA
PALUDE DELLA LUNA
(THE
MOON-BOG, marzo)
“Denys
Barry è scomparso, non so in quale spaventosa e lontanissima
dimensione. Ero con lui l’ultima notte che trascorse fra gli uomini
e l’ho sentito urlare quando la cosa è avvenuta, ma né i
contadini né la polizia della contea di Meath sono riusciti a
trovarlo. Non c’è riuscito nessuno, per quanto si sia cercato.
Adesso tremo quando sento le rane che gracidano nelle paludi o quando
vedo la luna in luoghi isolati. Avevo conosciuto Barry in America,
dove aveva fatto fortuna; quando aveva deciso di ricomprare il
castello sulla palude, nella sonnolenta Kilderry, mi ero congratulato
con lui. Suo padre era partito da quelle terre e Barry voleva godersi
le sue fortune in un paesaggio che gli apparteneva. Un tempo la sua
famiglia aveva dominato Kilderry e costruito il castello per farne la
propria residenza, ma quei giorni erano lontani e da parecchie
generazioni il monumento era disabitato e all’abbandono.”
Copertina di un'edizione per Kindle |
Una
volta arrivato in Irlanda, Denys Barry scrive puntualmente al suo
amico, tenendolo aggiornato sul procedere della situazione.
Inizialmente il suo arrivo è accolto con favore dalla gente del
posto, ma dopo la ristrutturazione del castello l’uomo decide
anche di bonificare la palude, e questo fa irritare i contadini del
posto: se all’inizio lo avevano benedetto, ora hanno cominciato a
maledirlo. L’amico si fa convincere a raggiungerlo e, la sera del
suo arrivo, Barry gli spiega la ragione del loro atteggiamento. Tutto
è legato ad antiche leggende e superstizioni riguardanti la palude,
le quali finiscono con l’indurre i locali ad abbandonare il lavoro,
costringendo Barry a ingaggiare una squadra di operai del nord. A
questo punto l’amico è curioso di sapere di quale superstizione
si tratti, scoprendo che non è tanto la palude la causa delle
leggende quanto il rudere che sorge sull’isolotto al suo centro,
che si dice abitato da uno spirito malefico.
“Si parlava di luci che danzavano nelle notti illuni e di venti gelidi che s’alzavano all’improvviso anche nelle sere più calde, di figure ammantate di bianco che fluttuavano sull’acqua e di un’immaginaria città di pietra che si sarebbe trovata in fondo all’acquitrino. Ma tra tante fantasie il fatto su cui tutti concordavano era che una terribile maledizione attendeva colui che avesse osato toccare o prosciugare la vasta palude limacciosa. C’erano segreti, a detta dei contadini, che non andavano scoperti: segreti che erano rimasti tali da quando la pestilenza aveva decimato i figli di Partholan, in un’epoca favolosa che precede la storia. Nel Libro degli invasori si racconta che quei discendenti dei greci fossero tutti sepolti a Tallaght, ma a Kilderry sostenevano che una delle loro città fosse sopravvissuta grazie alla protezione della luna, e che il terriccio delle colline l’avesse sepolta solo quando dalla Scizia erano arrivati i nemediani sulle trenta navi.”
Durante la notte, forse suggestionato dalle parole di Denys, l’amico sente alcuni suoni in lontananza e una volta addormentato sogna un’antica città greca, con strade di marmo, statue, templi e ville. Al mattino scopre che anche gli operai – i quali appaiono infiacchiti - hanno fatto strani sogni che non ricordano, e che li hanno messi a disagio. Rammentano però una strana musica.
“Si parlava di luci che danzavano nelle notti illuni e di venti gelidi che s’alzavano all’improvviso anche nelle sere più calde, di figure ammantate di bianco che fluttuavano sull’acqua e di un’immaginaria città di pietra che si sarebbe trovata in fondo all’acquitrino. Ma tra tante fantasie il fatto su cui tutti concordavano era che una terribile maledizione attendeva colui che avesse osato toccare o prosciugare la vasta palude limacciosa. C’erano segreti, a detta dei contadini, che non andavano scoperti: segreti che erano rimasti tali da quando la pestilenza aveva decimato i figli di Partholan, in un’epoca favolosa che precede la storia. Nel Libro degli invasori si racconta che quei discendenti dei greci fossero tutti sepolti a Tallaght, ma a Kilderry sostenevano che una delle loro città fosse sopravvissuta grazie alla protezione della luna, e che il terriccio delle colline l’avesse sepolta solo quando dalla Scizia erano arrivati i nemediani sulle trenta navi.”
Castello di Trim (Contea di Meath, Irlanda) |
Durante la notte, forse suggestionato dalle parole di Denys, l’amico sente alcuni suoni in lontananza e una volta addormentato sogna un’antica città greca, con strade di marmo, statue, templi e ville. Al mattino scopre che anche gli operai – i quali appaiono infiacchiti - hanno fatto strani sogni che non ricordano, e che li hanno messi a disagio. Rammentano però una strana musica.
“Quella
notte i miei sogni di flauti e peristili di marmo culminarono in un
improvviso e inquietante finale, perché sulla città nella valle
vidi abbattersi una grave pestilenza e una valanga di alberi e
terriccio seppellì cadaveri ed edifici, lasciando allo scoperto solo
il tempio di Artemide sul picco più alto. Cleis, l’anziana
sacerdotessa della luna, giaceva immobile e fredda con una corona
d’avorio sulla testa bianca.”
Risvegliatosi
all’improvviso, l’ospite continua a sentire la musica dei flauti
e, incuriosito, si affaccia alla finestra che dà sulla palude.
“Alla luce della luna che inondava la pianura si presentava uno spettacolo che nessun mortale avrebbe potuto dimenticare. Al suono dei flauti di canna che risuonava dall’acquitrino, una fantasmagoria di figure danzanti procedeva silenziosa; era una folla mista e festosa e celebrava un baccanale degno dell’antica Sicilia, quando si ballava presso il Ciane, sotto la luna d’estate, in onore di Demetra. L’ampia pianura, la luna d’oro, le ombre che danzavano e soprattutto i monotoni flauti produssero un effetto che quasi mi paralizzò, ma nonostante la paura notai che metà degl’instancabili meccanici ballerini erano gli operai che avevo creduto addormentati, mentre l’altra metà erano strane ed eteree creature in bianco, piuttosto vaghe nell’insieme ma che facevano pensare a pallide e malinconiche naiadi delle fontane magiche sotto la palude. Non so per quanto tempo osservai la scena dalla torre solitaria prima di precipitare in un sonno senza sogni, ma mi svegliai al sole alto del mattino.”
L’ospite, turbato dal sogno, è tentato di abbandonare il castello in cui si trova, trovando una scusa per giustificarsi con l’amico Denys. Poi però la sua parte razionale lo convince a rimanere; ma quella stessa notte il sogno si ripete. Solo che stavolta le naiadi, con il loro influsso incantatore, si fanno seguire dagli operai - ma pure dai nuovi domestici e dal cuoco, ormai privi di volontà - nelle acque della palude.
FINALE: “Mi rendevo conto di aver assistito alla morte di un intero villaggio e sapevo di essere solo nel castello con Denys Barry, la cui hùbris aveva provocato la catastrofe. Pensavo a questo quando fui assalito da un fremito di terrore: caddi sul pavimento, non svenuto ma fisicamente provato. Dalla finestra a oriente, dov’era sorta la luna, venne una sferzata di vento gelido e nel castello cominciarono a echeggiare le urla. Presto arrivarono a un’acutezza e un’intensità che non si possono descrivere, e che ancora mi danno i brividi. Tutto ciò che posso dire è che venivano da qualcuno che avevo conosciuto come mio amico. A un certo punto il vento freddo e le urla devono avermi scosso dal torpore, perché ricordo di aver corso come un folle per stanze e corridoi bui come l’inchiostro, in cortile e nell’orribile notte. Mi trovarono all’alba che vagavo istupidito nei dintorni di Ballylough, ma quel che mi aveva fatto perdere il ben dell’intelletto non erano gli orrori cui avevo assistito. Ciò che borbottavo fra me, mentre uscivo dal buio della semi-incoscienza, era il vago ricordo di due assurdi incidenti capitati durante la mia fuga. Cose di nessuna importanza, e che pure mi perseguitano ancor oggi quando mi trovo nei pressi di una palude o al chiaro di luna.
Mentre fuggivo dal castello maledetto e costeggiavo il bordo della palude avevo sentito un suono diverso: un suono comune, eppure dissimile da quelli che avevo udito a Kilderry. L’acqua della palude, stagnante e pressoché priva di vita animale, brulicava adesso si enormi e viscidi rospi che gracidavano senza posa e in toni acuti che contrastavano con la loro mole. Luccicavano verdi e gonfi ai raggi di luna e sembravano fissare l’astro notturno. Seguii lo sguardo di un esemplare particolarmente grosso e repellente e vidi la seconda cosa che mi fece perdere la lucidità. Dai ruderi dell’isolotto bagnato dalla luna si sprigionava un debole chiarore che non si rifletteva nell’acqua della palude. Verso l’alto, lungo la tenue radiazione, credetti di vedere un’ombra sottile che si contorceva lentamente; un profilo vago, elusivo, che lottava contro l’attrazione di demoni invisibili. Fuori di me com’ero, mi parve di riconoscere in quell’ombra spaventosa una terribile rassomiglianza, un’incredibile e sconvolgente caricatura, un’effige blasfema di colui che era stato Denys Barry.”
Non è uno dei migliori racconti del Maestro di Providence, ma bisogna tenere conto delle ragioni che lo hanno spinto a realizzarlo. Si tratta infatti di un lavoro eseguito in breve tempo, per di più su commissione, richiestogli da un’associazione di autori dilettanti per l’occasione di un incontro a Boston che si tiene il 17 marzo, giorno di San Patrizio, patrono d’Irlanda. Proprio la scelta di questa data fa venire in mente agli organizzatori il tema da sottoporre ai propri membri partecipanti: un racconto o una lirica d’argomento irlandese.
La Rocca di Cashel, conosciuta anche come Rocca di San Patrizio, nel Tipperary (Irlanda) |
Lovecraft è stato a Boston appena un mese prima, ma decide di presenziare anche a questo incontro, pernottando così fuori casa per la seconda volta. Anche in questa occasione legge il suo scritto davanti all’uditorio che, a quanto pare, sembra apprezzarlo.
Per imbastire la trama della sua storia si affida al classico castello con maledizione annessa tanto caro al genere gotico, aggiungendovi però il suo amore per la Storia e il folklore. Lovecraft prende spunto dalle antiche leggende irlandesi, le quali affermano che la loro isola è stata colonizzata più volte in tempi diversi. Nella Historia Brittonum, risalente al IX secolo, vi è scritto che l’Irlanda è stata occupata tre volte. Partholan, nominato nel racconto, fu il leader del secondo gruppo, formato da circa un migliaio di individui, i quali raggiunsero il numero di quattromila prima di morire tutti di peste nel giro di una settimana (“segreti che erano rimasti tali da quando la pestilenza aveva decimato i figli di Partholan, in un’epoca favolosa che precede la storia”). Da notare che il nome del condottiero talvolta si presenta con grafie diverse: Partholon, Parthalan o Parthalon (oltre a Partholan, come appare nell'opera di HPL).
Nel
Lebor
Gabála
Érenn
(Libro delle invasioni dell’Irlanda),
dell’XI secolo, il numero delle colonizzazioni aumenta a sei e vi
si afferma che Partholan era partito dalla Grecia, passando per la
Sicilia e l’Iberia, arrivando sull’isola trecento anni dopo il
Diluvio biblico. Viene confermato che morirono tutti di peste nel
luogo dell’odierna Tallaght (“Nel
Libro
degli invasori
si racconta che quei discendenti dei greci fossero tutti sepolti a
Tallaght, …).Partholan (o Parthalon) in una illustrazione tratta dal sito bardmythologies.com |
Sempre
secondo la mitologia locale, a capo del terzo gruppo che arrivò
sulle coste irlandesi fu Nemed, giunto dalla lontana Scizia, trenta
anni dopo l’ultimo sopravvissuto del gruppo di Partholan. Anche
costoro, nove anni dopo, morirono tutti di peste, lasciando l’Irlanda
di nuovo vuota per circa duecento anni (“…
ma a Kilderry sostenevano che una delle loro città fosse
sopravvissuta grazie alla protezione della luna, e che il terriccio
delle colline l’avesse sepolta solo quando dalla Scizia erano
arrivati i nemediani sulle trenta navi”).
Nemed in una illustrazione tratta dal sito bardmythologies.com |
Lovecraft
cita anche la Sicilia e il fiume Ciane, che prende il nome dalla
naiade (le naiadi sono le ninfe delle acque dolci) che tentò di
fermare Ade dal tentativo di rapire Persefone (figlia di Demetra) e
che per questo venne trasformata dal dio degli inferi in una sorgente
(“Al
suono dei flauti di canna che risuonava dall’acquitrino, una
fantasmagoria di figure danzanti procedeva silenziosa; era una folla
mista e festosa e celebrava un baccanale degno dell’antica Sicilia,
quando si ballava presso il Ciane, sotto la luna d’estate, in onore
di Demetra”).
Una
curiosità: il pretesto che dà l’avvio al racconto verrà ripreso
dall’autore due anni dopo per scrivere una delle sue storie più
riuscite: I ratti nei muri.
Luoghi:
villaggio di Kilderry, nella contea di Meath (Irlanda); Ballylough,
altro villaggio; Tallaght, centro abitato.
Personaggi:
l’io narrante e Denys Barry, americano di origine irlandese.
Ciane tenta di fermare Ade che rapisce Persefone (dipinto di Nicolas Mingard, XVII sec.) |
L’ESTRANEO
(THE
OUTSIDER)
“Infelice
colui che ha tristi ricordi d’infanzia. Infelice chi guarda
indietro e non vede che ore solitarie trascorse in stanze buie, tra
opprimenti tendaggi e file assillanti di vecchi volumi, o in desolata
veglia nei boschi, al riparo di alberi grotteschi e coperti di
malerbe che agitano rami silenziosi a un’altezza irraggiungibile. A
me gli dei hanno assegnato una sorte del genere: a me deluso e
stupefatto, amareggiato e senza speranza. Eppure sono contento, mi
aggrappo a quei tristi ricordi tutte le volte che la memoria minaccia
di spingersi pericolosamente oltre.
Non so dove sono nato, ma il castello era infinitamente vecchio e
orribile. Gremito di corridoi neri, culminava in soffitti così alti
che l’occhio doveva fermarsi alle ombre e alle ragnatele. Le pietre
dei camminamenti in rovina erano sempre umide e su tutto gravava un
odore disgustoso, come di cadaveri ammucchiati da molte generazioni.
Non c’era mai luce, al punto che avevo l’abitudine di accendere
candele per avere sollievo; fuori non c’era sole perché i tremendi
alberi erano più alti delle torri accessibili. Una sola torre, nera,
superava il fogliame e si affacciava al cielo sconosciuto, ma era in
rovina e non vi si poteva accedere se non arrischiando una scalata
quasi impossibile sulla parete, pietra dopo pietra.
Immagine usata per una lettura di Otis Jiry su youtube |
Devo
aver vissuto per anni in un luogo simile, ma non ne sono sicuro.
Qualcuno deve aver badato alle mie necessità, ma non ricordo esseri
umani tranne me stesso, e niente di vivo a parte topi, ragni e
pipistrelli. Credo che chi mi ha svezzato dovesse essere vecchissimo,
perché la mia prima concezione dell’”altro” è quella di una
grottesca caricatura di me stesso, ma contorta e disfatta come il
castello. Quanto alle ossa e agli scheletri che affollavano una parte
delle cripte, nei sotterranei, non ci trovavo niente di anormale:
associavo quegli oggetti, nella fantasia, agli eventi di ogni giorno
e li ritenevo più familiari delle illustrazioni a colori che avevo
trovato nei libri, e che raffiguravano esseri viventi.
Dai libri ho imparato tutto quello che so: nessun insegnante mi ha spronato o guidato, e in tutti quegli anni non ricordo di aver mai sentito una voce umana, nemmeno la mia: pur avendo appreso l’esistenza del linguaggio non avevo mai cercato di parlare ad alta voce. Il mio aspetto era un’incognita, perché al castello non c’erano specchi, e per istinto mi consideravo simile alle giovani figure che vedevo disegnate o dipinte nei libri. Ritenermi giovane era facile, visto che i miei ricordi erano tanto scarsi.
Dai libri ho imparato tutto quello che so: nessun insegnante mi ha spronato o guidato, e in tutti quegli anni non ricordo di aver mai sentito una voce umana, nemmeno la mia: pur avendo appreso l’esistenza del linguaggio non avevo mai cercato di parlare ad alta voce. Il mio aspetto era un’incognita, perché al castello non c’erano specchi, e per istinto mi consideravo simile alle giovani figure che vedevo disegnate o dipinte nei libri. Ritenermi giovane era facile, visto che i miei ricordi erano tanto scarsi.
Fuori,
al di là del muschio putrido e sotto i neri alberi muti, mi sdraiavo
spesso a fantasticare su ciò che avevo letto nei libri e rimanevo
per ore a immaginarmi in mezzo a una folla multicolore, nel mondo di
sole che si stendeva oltre l’interminabile foresta. Una volta
cercai di scappare dalla foresta, ma più mi allontanavo dal castello
più il buio diventava fitto e terrorizzante, sicché tornai a casa
per non smarrirmi in un labirinto di silenzi notturni.”
Dopo
aver trascorso interminabili giorni, il desiderio di luce provato
dallo sconosciuto protagonista si fa così forte da spingerlo a
decidere di raggiungere l’unica torre che si erge sulla fitta
foresta, anche se ciò comporta il serio rischio di precipitare, ma
meglio
vedere il cielo e morire che vivere senza aver conosciuto la luce del
giorno.
Così, una volta salita una scala di pietra interrotta, comincia a
inerpicarsi per un altissimo precipizio aggrappandosi ai pochi
appigli che lo strapiombo gli concede. La sua scalata è lenta e
difficoltosa, ma infine arriva a una specie di tetto munito di una
pesante lastra di pietra, la quale si rivela essere una sorta di
botola che lo conduce sul pavimento di una vasta sala munita di
nicchie
di marmo nelle quali erano sistemate lunghe casse esagonali dalle
inquietanti dimensioni.
Copertina di un audiolibro (2018) |
Convinto
di aver raggiunto una considerevole altezza, l’io narrante alza la
testa e rimane deluso nello scoprire che sopra di lui non ci sono né
stelle né luce del giorno. La grande sala non ha finestre, ma
avanzando nel buio più totale trova un portale ornato di misteriosi
fregi. Riesce ad aprirlo tirandolo a sé, rivelandogli un lungo
corridoio al termine del quale, incorniciata da una grata di ferro,
risplende la luna piena.
“Immaginando
di aver raggiunto il punto più alto del castello, salii i pochi
gradini che si trovavano al di là del portale; la luna si velò
all’improvviso e inciampai, per cui dovetti avanzare nel buio e con
più cautela. Era ancora molto scuro quando arrivai alla grata, che
tentai di spingere con prudenza trovandola aperta, ma che non spinsi
per paura di cadere dall’altezza vertiginosa cui ero arrivato. Poi
la luna apparve di nuovo. Lo shock più tremendo è quello che
combina l’effetto dell’imprevisto con quello dell’incredibile.
Niente di ciò che avevo patito fino ad allora poteva reggere il
confronto col terrore che si impossessò di me in quel momento, con
lo spettacolo che si offrì ai miei occhi e le assurde conseguenze di
ciò che implicava. La scena in sé stessa era semplice quanto
stupefacente, perché si riduceva a questo: invece delle cime degli
alberi viste da un’altezza vertiginosa, attraverso la grata apparve
il suolo al
mio stesso livello.
Si trattava di uno spiazzo disseminato di colonne e lastre di marmo;
sullo sfondo, un’antica chiesa di granito col campanile in rovina
scintillava al chiaro di luna.”
Prima pubblicazione della Arkham House e prima raccolta di racconti di HPL (1939) |
Lasciatasi
la chiesa alle spalle, il protagonista avanza tra boschi, ruderi,
strade, campagne, torrenti, ponti, fino ad arrivare a un
vecchio castello coperto d’edera in un parco fitto d’alberi.
Alcune
voci provenienti dalle finestre aperte attirano la sua attenzione.
All’interno
delle sale,
una compagnia vestita in modo bizzarro si divertiva e scambiava
battute a profusione. Ero convinto di non aver mai sentito prima il
suono della voce umana e riuscivo a stento a capire quello che veniva
detto. L’espressione di alcune facce risvegliava in me lontanissimi
ricordi, altre erano del tutto sconosciute.
Illustrazione di Wyldraven (2010) |
FINALE: Attratto da questa allegria il protagonista scavalca la bassa finestra ed entra. Poco dopo, gli astanti vengono presi dal panico: scappano, urlano, rovesciano oggetti, si coprono il volto atterriti o travolgono alcuni compagni caduti, alla ricerca di una via di fuga.
“A
una prima occhiata la stanza sembrava deserta, ma dirigendomi verso
una nicchia mi sembrò di scorgere una presenza, un movimento furtivo
dietro l’arco dai fregi d’oro che immetteva in una stanza simile
alla prima. Mi avvicinai e l’essere si manifestò con più
chiarezza: allora emisi il primo e ultimo suono della mia vita, un
verso tremendo che stava tra l’urlo e l’ululato di una bestia, e
che mi atterrì quanto atterriva la ripugnante apparizione.”
Lo
sconosciuto prova a descrivere l’orrore che gli si para davanti, ma
non riesce a trovare le parole. “Dio
sa che non apparteneva a questo mondo, o meglio, non vi apparteneva
più; ma con orrore constatai che i lineamenti smangiati e da cui
occhieggiavano le ossa contenevano una disgustosa caricatura delle
sembianze umane, e nell’insieme del corpo corrotto e sul punto di
disintegrarsi c’era qualcosa d’inspiegabile, che mi atterriva in
modo supremo.”
Seppur
paralizzato dal terrore, il narratore prova a tentare una fuga
muovendo qualche passo incerto.
The Outsider by Lucas Culshaw (2018) |
“Cercai
di alzare una mano per escludere del tutto l’orribile vista, ma i
miei nervi erano così scossi che il braccio non obbedì. Il
tentativo, comunque, bastò a farmi perdere l’equilibrio e dovetti
fare qualche passo avanti per non cadere. Nel far questo mi resi
conto della terribile vicinanza dell’essere-carogna, di cui mi
sembrava di poter sentire l’alito pestifero. Quasi impazzito,
riuscii ad allungare una mano per tenere a bada la creatura che si
era fatta tanto vicina, e per un’infernale circostanza, in un
attimo di terrore supremo, le
mie dita toccarono quelle del mostro sotto l’arco d’oro.
Non urlai, ma tutti i demoni della notte che cavalcavano i venti
della follia urlarono per me: e in quell’attimo mi piombarono
addosso i ricordi, non più confusi ma anzi così vividi da
schiantare l’anima. In un attimo seppi ciò che ero, o ero stato;
ricordai cose avvenute prima del mio trasferimento nel castello
pauroso, sotto gli alberi, e riconobbi l’abominio che ghignava
davanti a me, mentre allontanavo le dita dalle sue.”
Lo
sconosciuto fugge dal castello e prova a rifugiarsi nei sotterranei
che l’hanno protetto fino a quel momento, ma purtroppo la botola,
inamovibile, gliene preclude l’accesso. Ma non ne è dispiaciuto,
perché ora vive un’altra vita, correndo nel vento della notte in
compagnia di beffardi ghoul e trastullandosi fra antiche catacombe
egizie, ma
in questa nuova libertà da ogni freno accetto quasi con gioia
l’amarezza dell’alienazione.
“Perché,
sebbene l’oblio abbia lenito le mie ferite, so che rimarrò sempre
un estraneo, un intruso in questo secolo fra coloro che sono ancora
uomini. L’ho capito nel momento in cui ho allungato le dita verso
l’abominio nella cornice dorata: ho allungato le dita e ho sfiorato
la
fredda e dura superficie di uno specchio.”
Festa settecentesca a Palazzo San Teodoro (Napoli) |
In
questo racconto vi è un’evidente tentativo di rifarsi alla prosa
di E. A. Poe, come conferma anche una sua lettera del giugno 1931
(dieci anni dopo la stesura del racconto) inviata a J. Vernon Shea
(1912-1981), tardo corrispondente dello scrittore (dal 1931 al 1937,
anno della morte di HPL) e in seguito autore anch’egli del
fantastico.
“Poe mi ha probabilmente influenzato più di ogni altra persona. Se mai mi è capitato di avvicinarmi al suo genere di brivido letterario è stato soltanto perché lui stesso ha aperto la via, creando un metodo e un’atmosfera che altri – minori di lui – possono ancora seguire con relativa facilità. Non pretendo certo di essere un autore gotico di prima fila - posizione che compete a Poe fra gli scomparsi e ad Arthur Machen, Algernon Blackwood, Walter de la Mare, Lord Dunsany e Montague Rhodes James fra i viventi. Mi basta fare buona figura fra gli autori di secondo piano, quelli pubblicati dalle riviste popolari… Quanto a ‘The Outsider’, so che a molti, compreso Farnsworth Wright [direttore della rivista Weird Tales dal novembre 1924 al marzo 1940, anno della sua morte], il racconto è piaciuto, ma non posso dire di condividere il giudizio. È troppo meccanico nei suoi effetti, e quasi comico nella gonfia pomposità del linguaggio… Rappresenta al massimo grado la mia imitazione letterale, ancorché inconscia, di Poe.”
“Poe mi ha probabilmente influenzato più di ogni altra persona. Se mai mi è capitato di avvicinarmi al suo genere di brivido letterario è stato soltanto perché lui stesso ha aperto la via, creando un metodo e un’atmosfera che altri – minori di lui – possono ancora seguire con relativa facilità. Non pretendo certo di essere un autore gotico di prima fila - posizione che compete a Poe fra gli scomparsi e ad Arthur Machen, Algernon Blackwood, Walter de la Mare, Lord Dunsany e Montague Rhodes James fra i viventi. Mi basta fare buona figura fra gli autori di secondo piano, quelli pubblicati dalle riviste popolari… Quanto a ‘The Outsider’, so che a molti, compreso Farnsworth Wright [direttore della rivista Weird Tales dal novembre 1924 al marzo 1940, anno della sua morte], il racconto è piaciuto, ma non posso dire di condividere il giudizio. È troppo meccanico nei suoi effetti, e quasi comico nella gonfia pomposità del linguaggio… Rappresenta al massimo grado la mia imitazione letterale, ancorché inconscia, di Poe.”
Nonostante
la critica che Lovecraft si rivolge qualche anno dopo - niente
affatto campata in aria e probabilmente motivata sia da un certo
distacco dovuto al tempo trascorso sia dall’evoluzione della sua
scrittura - il racconto mantiene ancora oggi la sua efficacia, oltre
a presentare alcuni interessanti elementi autobiografici, come
conferma anche lo psicologo Dirk Mosig nel suo lungo articolo The
Four Faces of the Outsider
(1976), seppure quest’ultimo sia più interessato all’aspetto
psicanalitico del racconto. “The
Outsider è senza dubbio uno dei più bei racconti usciti dalla penna
di Lovecraft. Si presta facilmente a un’interpretazione
psicanalitica, ma appare non meno denso di significati quando venga
visto attraverso una griglia di riferimenti ‘metafisici’. Molti
si sono soffermati sul suo aspetto autobiografico, ma è anche
possibile tradurlo in termini di Weltanschauung lovecraftiana.”
The Outsider by Michel Mandurino (2012) |
Effettivamente
la storia sembra una
vera e propria confessione dell’autore. Anche lui, come il
protagonista, si sente un outsider:
“so che rimarrò sempre un estraneo, un intruso in questo secolo
fra coloro che sono ancora uomini.”
Il castello in cui l’io narrante ha abitato fino a quel momento
potrebbe essere una metafora di ciò che lo ho tenuto prigioniero, ma
anche protetto, e questo sarebbe un chiaro riferimento alla casa di
famiglia di Lovecraft, oltre che e ai suoi parenti più stretti. Però
l’outsider, rispetto a Lovecraft, riesce ad affrancarsi dal luogo
natio e a trovare una nuova vita altrove, cosa che lo scrittore
invece non riuscirà mai a fare.
Scrive
Giuseppe Lippi (in H.P.
Lovecraft, Tutti i racconti 1897-1922,
Mondadori, 1989) nella sua introduzione al racconto:
“L’Outsider è forse il più cosciente tentativo di imitazione di Poe, l’idolo letterario di Lovecraft per quanto riguarda i racconti dell’orrore, ma la sua originalità è riscattata da due fattori: a) che finisce per essere una delle confessioni più sincere uscite dalla penna di un mistificatore professionista e b) che il forte motivo necrofilo sfocia in una sorta di meraviglioso ‘rovesciato’ tipico di HPL, in cui festini di morti e orge sataniche, demoni che volano sui venti della notte e tombe scoperchiate sostituiscono i tappeti volanti e le anfore col genio. The Outsider è un racconto chiave per capire quali fossero le radici profonde di tutta una serie di atteggiamenti lovecraftiani, a cominciare da quel complesso d’estraneità al suo tempo e al suo mondo (nel senso di mondo dei vivi) che tanto spesso ricorre nella narrativa e nell’epistolario, ma che si riflette nella globalità dei suoi rapporti con il reale. Uno dei grandi motivi di fascino, per una fetta del suo pubblico, è che Lovecraft si presenta come un pervert letterario il quale descrive e teorizza tutta una serie di trasgressioni immaginarie che fanno capo a un concetto rovesciato del rapporto morte-vita: la morte è vita per il personaggio demoniaco lovecraftiano. Certo quella contenuta nell’Estraneo è la più potente delle confessioni letterarie che HPL potesse farci, e le sue implicazioni si ripercuoteranno in tutta l’opera del sognatore di Providence.”
“L’Outsider è forse il più cosciente tentativo di imitazione di Poe, l’idolo letterario di Lovecraft per quanto riguarda i racconti dell’orrore, ma la sua originalità è riscattata da due fattori: a) che finisce per essere una delle confessioni più sincere uscite dalla penna di un mistificatore professionista e b) che il forte motivo necrofilo sfocia in una sorta di meraviglioso ‘rovesciato’ tipico di HPL, in cui festini di morti e orge sataniche, demoni che volano sui venti della notte e tombe scoperchiate sostituiscono i tappeti volanti e le anfore col genio. The Outsider è un racconto chiave per capire quali fossero le radici profonde di tutta una serie di atteggiamenti lovecraftiani, a cominciare da quel complesso d’estraneità al suo tempo e al suo mondo (nel senso di mondo dei vivi) che tanto spesso ricorre nella narrativa e nell’epistolario, ma che si riflette nella globalità dei suoi rapporti con il reale. Uno dei grandi motivi di fascino, per una fetta del suo pubblico, è che Lovecraft si presenta come un pervert letterario il quale descrive e teorizza tutta una serie di trasgressioni immaginarie che fanno capo a un concetto rovesciato del rapporto morte-vita: la morte è vita per il personaggio demoniaco lovecraftiano. Certo quella contenuta nell’Estraneo è la più potente delle confessioni letterarie che HPL potesse farci, e le sue implicazioni si ripercuoteranno in tutta l’opera del sognatore di Providence.”
Da sinistra, J. Vernon Shea, Donald Burleson, Dirk Mosig e S.T. Joshi alla 36a Convention Mondiale della Fantascienza (1978) |
Ci
sarebbe da fare anche un’altra considerazione. L’Outsider non
sembra essere tanto un mostro, quanto piuttosto ciò che rimane di
quello che un tempo è stato un uomo. Lo possiamo capire da alcune
frasi: “non
ricordo esseri umani tranne me stesso” oppure
“L’espressione di alcune facce risvegliava in me lontanissimi
ricordi”
e anche “i
lineamenti smangiati e da cui occhieggiavano le ossa contenevano una
disgustosa caricatura delle sembianze umane”.
Ce lo confermerebbe anche una frase presente verso la fine del
racconto (“In
un attimo seppi ciò che ero, o ero stato; ricordai cose avvenute
prima del mio trasferimento nel castello pauroso, sotto gli
alberi…”),
che pare un chiaro riferimento alla sepoltura. Così, il lento
risalire dalle profondità della terra al mondo in superficie non è
per l’Outsider solo un percorso fisico in cui attraversa diversi
luoghi, diventa anche un tentativo di viaggio all’indietro nel
tempo, un viaggio impossibile, dalla morte alla vita. Quello che lo
aspetta dunque non è - non può essere - ciò che da tempo
fantasticava, ossia una vita serena all’interno del consorzio
umano, bensì solo un brusco risveglio che gli rivela la sua corrotta
condizione fisica, la conferma che di quel mondo non potrà mai fare
parte.
Una
curiosità: viene citata Nicotris (…so
che non mi è concesso altro divertimento all’infuori dei festini
esecrandi di Nicotris sotto la Grande Piramide…),
una presunta regina appartenente alla VI dinastia (2350-2190 a.C.),
la quale tornerà in un racconto futuro dell’autore, scritto per il
famoso illusionista Harry Houdini, Sotto
le piramidi
(1924).
Luoghi:
le catacombe di Nephren-Ka; la valle di Hadoth, presso il Nilo; le
tombe di Neb.
Il titolo del racconto di Lovecraft nell'ultima fatica del Re del Terrore (2018) |
24
maggio. La madre di Lovecraft, in cura da due anni in un ospedale
psichiatrico, muore in seguito a un’operazione alla cistifellea. Lo
scrittore lascia una testimonianza del luttuoso evento in una lettera
a una sua corrispondente, Anne Tillery Renshaw, datata 1° giugno 1921.
Anche la Renshaw, come HPL, appartiene al circolo dei giornalisti
dilettanti dell’UAPA. Insegnante di lettere, sia al liceo che
all’università, e attivista politica (era un’esponente del
National
Woman’s Party),
diventa anche una cliente dello scrittore, al quale chiede di
revisionarle alcuni testi, soprattutto per manuali didattici.
“Cara signora Renshaw, in questi ultimi giorni riesco a rispondere per tempo alle missive perché sono del tutto privo della volontà e dell’energia necessarie a fare qualsiasi altra cosa. La morte di mia madre, il 24 maggio, mi ha provocato uno shock nervoso notevole, e mi risulta pressoché impossibile concentrarmi o compiere qualsiasi sforzo. Io non sono, assolutamente, un emotivo; e non sono solito piangere o indulgere in nessuna delle espressioni di cordoglio del volgo, ma l’effetto psicologico di un disastro così vasto e inaspettato è, in ogni modo, considerevole, e non riesco a dormire né a lavorare con gusto o in maniera proficua. […] Mia madre, forse con la sola eccezione di Alfred Galpin, era l’unica persona che mi capisse perfettamente. Era una persona di una forza di carattere e di un fascino rari e inusuali, esperta di letteratura come di belle arti; una studiosa di formazione francese, una musicista e una pittrice a olio. Con tutta probabilità, non incontrerò mai più una mente altrettanto ammirabile sotto ogni punto di vista.” (Lovecraft. L’età adulta è un inferno. Lettere di un orribile romantico, a cura di Marco Peano, L’orma editore, 2018)
“Cara signora Renshaw, in questi ultimi giorni riesco a rispondere per tempo alle missive perché sono del tutto privo della volontà e dell’energia necessarie a fare qualsiasi altra cosa. La morte di mia madre, il 24 maggio, mi ha provocato uno shock nervoso notevole, e mi risulta pressoché impossibile concentrarmi o compiere qualsiasi sforzo. Io non sono, assolutamente, un emotivo; e non sono solito piangere o indulgere in nessuna delle espressioni di cordoglio del volgo, ma l’effetto psicologico di un disastro così vasto e inaspettato è, in ogni modo, considerevole, e non riesco a dormire né a lavorare con gusto o in maniera proficua. […] Mia madre, forse con la sola eccezione di Alfred Galpin, era l’unica persona che mi capisse perfettamente. Era una persona di una forza di carattere e di un fascino rari e inusuali, esperta di letteratura come di belle arti; una studiosa di formazione francese, una musicista e una pittrice a olio. Con tutta probabilità, non incontrerò mai più una mente altrettanto ammirabile sotto ogni punto di vista.” (Lovecraft. L’età adulta è un inferno. Lettere di un orribile romantico, a cura di Marco Peano, L’orma editore, 2018)
Sarah Susan Phillips (1857-1921) |
Giugno.
HPL si reca ad Haverhill (Massachusetts) per incontrare Charles W.
Smith (1852-1948), un altro dei suoi numerosi amici di penna,
fondatore della rivista amatoriale “Tryout” (pubblicata dal 1914
al 1946), sulla quale vengono pubblicati alcuni racconti dello
scrittore: I
gatti di Ulthar
(1920), Il
terribile vecchio
(1921), L’albero
(1921) e Nella
cripta
(1925).
4
Luglio. Lovecraft va ancora una volta a Boston, in occasione di un
congresso dell’UAPA, dove rivede molti dei suoi amici e
corrispondenti, e dove conosce Sonia Haft Greene (1883-1972). La
donna è una vedova ebrea di origine ucraina che vive a New York, di
sette anni più anziana di lui e con una figlia diciannovenne avuta
dal precedente matrimonio. Con Sonia HPL intreccia dapprima una
relazione intellettuale (riscriverà anche alcuni racconti da lei
ideati) e in seguito sentimentale.
Lovecraft con Charles W. Heins e Paul Cook (Boston, 5 luglio 1921) |
Lovecraft con William J. Dowdell davanti all'hotel Brunswick (Boston, 5 luglio 1921) |
L’autore
ne parla a Rheinhart Kleiner in alcune lettere.
“Ho
sentito Mrs Greene qualche tempo fa, e sta per iscriversi alla
United, come tutte le persone d’ingegno dovrebbero fare. (A
proposito, hai già pagato la tua quota?) Ha ammesso di aver letto
Nyarlathotep
e Polaris,
ma di averli trovati incomprensibili: il misticismo teutone è troppo
sottile per gli slavi.”
(30 luglio 1921)
Poi,
dopo aver saputo di una sua cospicua donazione alla United:
“E
anche senza il cinquantone, Madame Greene rappresenterebbe comunque
un notevole acquisto per la United. Sotto quelle false apparenze
romantiche e quelle stravaganze retoriche è dotata di
un’intelligenza singolarmente vasta e vivace, e la sua cultura
europea le garantisce una preparazione eccezionale.”
(11 agosto 1921)
Sonia Greene (1883-1972) |
GLI
ALTRI DEI
(THE
OTHER GODS, 14 agosto)
“Gli
dei della terra vivono sulle montagne più alte e non sopportano di
essere guardati dall’uomo. Una volta abitavano le vette minori, ma
gli uomini hanno scalato le pareti di roccia e di neve e hanno spinto
gli dei sempre più lontano, finché non sono rimasti che i rifugi
inaccessibili. Nell’abbandonare le vecchie dimore gli dei hanno
cancellato tutti i segni della loro esistenza; solo una volta
un’immagine scolpita è rimasta sul monte Ngranek, o così si
racconta.
Ora
si sono trasferiti sullo sconosciuto Kadath, che sorge in una terra
gelida dove gli uomini non osano spingersi, e sono diventati più severi, non essendo rimasta alcuna vetta su cui rifugiarsi di fronte all'avanzata dell'uomo. Si sono fatti intransigenti, e se una volta tolleravano che gli
esseri umani li costringessero a trasferirsi ora proibiscono a chiunque di
avvicinarsi, o in ogni caso di tornare vivo. È
meglio che gli uomini ignorino dove sorge Kadath, altrimenti
cercherebbero di scalarlo.”
A
volte gli dei, presi da nostalgia, tornano in velieri di nuvola alle
montagne dove abitavano un tempo, danzando al chiaro di luna, ma è
bene che gli uomini si tengano lontani da loro, perché non sono più
pazienti come una volta.
Sedicesimo volume di una serie di libri illustrati dei racconti di HPL (2017) |
“A
Ulthar, la città oltre il fiume Skai, viveva una volta un vecchio
che voleva vedere a tutti i costi gli dei della terra; costui
conosceva profondamente i sette libri criptici di Hsan e aveva
familiarità con i Manoscritti Pnakotici della lontanissima e gelida
Lomar. Si chiamava Barzai il Saggio e gli abitanti del borgo
raccontano che la sera della strana eclisse salisse sul picco di una
montagna. Barzai era così versato nella conoscenza degli dei che era
in grado di predire i loro spostamenti, e aveva una così profonda
intuizione dei loro segreti che si riteneva un semidio. Fu lui a
consigliare ai notabili di Ulthar quando promulgarono la celebre
legge che vieta di uccidere i gatti; fu lui a rivelare ad Atal, un
giovane sacerdote, dove vanno i gatti neri alla mezzanotte della
vigilia di San Giovanni. Barzai era eruditissimo nelle cose degli dei
e provava il desiderio di guardarli in faccia. Credeva che la sua
grande e segreta conoscenza fosse in grado di proteggerlo dalla loro
collera e decise di partire per la vetta dell’Hatheg-Kla, monte
altissimo e roccioso, una notte in cui sapeva che ve li avrebbe
trovati.”
Gli
abitanti di Hatheg sconsigliano chiunque dallo scalare la cima del
monte, ma Barzai non se ne cura e, accompagnato dal giovane Atal,
decide di affrontare la salita. I due cominciano a scalare il monte,
avanzando faticosamente tra ripide pareti, massi, precipizi, ghiaccio
e neve. La notte del quinto giorno, man mano che i due si avvicinano
alla meta, Barzai si lascia alle spalle un sempre più riluttante
Atal, precedendolo di misura.
Numero del The Fantasy Fan (nov. 1933) dove venne pubblicato per la prima volta Gli Altri Dei |
“Probabilmente
il posto del raduno degli dei era vicino, e quindi la vetta libera
dai vapori. Mentre si avviava verso la parete sporgente e il cielo
illuminato dalla luna, Atal provò una paura che non aveva mai
conosciuto. Poi sentì la voce di Barzai dalle nebbie, assolutamente
compiaciuta. - Ho sentito gli dei! Ho sentito gli dei della terra
cantare le loro canzoni sull’Hatheg-Kla! Barzai il Profeta conosce
le voci degli dei! Le nebbie sono tenui e la luna è chiara: vedrò
gli dei danzare sul monte come facevano in gioventù! La sapienza di
Barzai lo ha reso più grande degli dei della terra, e contro la sua
volontà i loro incantesimi e barriere non sono niente; Barzai vedrà
gli dei orgogliosi e furtivi, gli dei della terra che sfuggono lo
sguardo dell’uomo!”
Atal
non sente le voci di cui parla il vecchio Barzai, poi la luna viene
oscurata da un’eclissi imprevista.
FINALE:
“Intanto
Atal, che in preda alle vertigini avanzava su pareti ripidissime,
sentì nel buio una risata spaventosa mescolata a tali urla che
nessuno ne ha udito di uguali al di qua del Flegetonte o degl’incubi
più spaventosi; urla che riflettevano l’orrore e l’angoscia di
una vita ossessiva riassunta in un unico e atroce momento: - Gli
altri
dei, gli altri
dei! Gli dei degli inferi esterni che governano le deboli divinità
della terra! Non guardare, vai via, non guardare…! La vendetta
degli abissi infiniti… Quel baratro maledetto, senza fondo…
Misericordiosi gli dei della terra, sto
precipitando nel cielo!
Manoscritti Pnakotici by Maxence Dunand (2017) |
Atal
chiuse gli occhi, si tappò le orecchie e cercò di sottrarsi alla
tremenda attrazione delle altitudini sconosciute, balzando verso il
basso; poi sull’Hatheg-Kla scoppiò un terribile tuono e i buoni
contadini delle pianure si svegliarono insieme con gli abitanti di
Hatheg, Nir e Ulthar: guardarono verso il cielo e videro la strana
eclissi di luna che gli almanacchi non prevedevano. Quando la luna
ricomparve Atal era salvo sulle pendici più basse del monte, senza
aver visto né gli dei della terra né gli altri.
Gli
antichissimi Manoscritti Pnakotici raccontano che quando Sansu scalò
l’Hatheg-Kla, nei primi giorni del mondo, non trovò altro che
sassi e ghiaccio. Ma quando gli uomini di Ulthar, Nir e Hatheg
vinsero le loro paure e in pieno giorno scalarono la montagna
infestata in cerca di Barzai il Saggio, trovarono impresso nella
pietra della vetta un simbolo misterioso, ciclopico, del diametro di
trenta metri: pareva che lo scalpello di un gigante avesse scolpito
la montagna. Il simbolo era uguale a quello che gli eruditi hanno
visto nei capitoli più spaventosi dei Manoscritti Pnakotici, quelli
troppo antichi per essere letti.
Questo
scoprirono, ma di Barzai il Saggio non venne trovata traccia e il
sacerdote Atal non si lasciò convincere a pregare per la sua anima.
Ancora oggi le popolazioni di Ulthar, Nir e Hatheg temono le eclissi,
e nelle notti in cui la luna e la cima della montagna vengono
nascoste dai vapori si raccolgono in preghiera. Sulle nebbie
dell’Hatheg-Kla gli dei della terra vanno ancora a danzare e a
rivivere i vecchi tempi: ora sanno di essere al sicuro e tornano
volentieri allo sconosciuto Kadath sui velieri di nuvola. Giocano
alla maniera antica, come facevano quando il mondo era giovane e gli
uomini non osavano avventurarsi nei luoghi inaccessibili.”
L’idea
che dietro agli dèi terrestri se ne celino altri misteriosi e
inaccessibili agli uomini si manifesta proprio con questo racconto.
Già se ne intuiva qualcosa ne La
città senza nome
ma qui si materializza, e in seguito si svilupperà meglio in storie
successive appartenenti al “Ciclo di Arkham”, nelle quali
prenderà forma il pantheon di divinità di stampo siderale per il
quale è famoso Lovecraft.
Tornano,
anche se talvolta solo citati, luoghi che abbiamo incontrato in
alcune storie precedenti. Le città di Hatheg, Nir e Ulthar; in
quest’ultima vivono il saggio Barzai e il giovane Atal. I
“Manoscritti Pnakotici”, già incontrati in La
Stella Polare,
originari della gelida Lomar e risalenti a un tempo antichissimo del
nostro pianeta. Sono invece nominati per la prima volta i sette libri
criptici di Hsan, altri misteriosi testi consultati da Barzai.
Anche
questo racconto andrebbe a inserirsi nel sottogruppo del “Ciclo dei
Sogni” dedicato alla storia dimenticata del nostro pianeta,
comprendente i racconti La
Stella Polare
(1918), La
rovina di Sarnath
(1919), I
gatti di Ulthar
(1920), La
ricerca di Iranon (1921)
e, appunto, Gli
altri Dei (1921).
Gli Altri Dei by MrZarono (2014) |
Luoghi:
i monti Ngranek, Lerion e il bianco Thurai, alcune delle vecchie
dimore degli antichi dèi; Kadath, alta vetta dove hanno trovato
rifugio gli dèi e dove gli uomini non osano arrivare; Ulthar, la
città oltre il fiume Skai; Hatheg-Kla, cima elevata nel deserto di
pietra dove un tempo vivevano gli dei; Hatheg, città che ha dato il
nome alla famosa vetta; Nir, altra città.
Personaggi:
Barzai, un vecchio saggio di Ulthar; Atal, giovane sacerdote; Sansu,
di lui si parla con terrore nei Manoscritti Pnakotici, secondo le
leggende fu l’unico uomo a scalare l’Hatheg-Kla.
Tavola da un adattamento a fumetti a opera di Tim Carpenter (2012) |
Il
4 e 5 settembre Sonia Greene si reca a Providence per fare una visita
a Lovecraft, dove conosce anche le sue zie, Anne e Lillian, con le
quali lo scrittore vive dopo la morte della madre. Di questo incontro
ne accenna in una lettera ad Anne T. Renshaw datata 3 ottobre:
“… quella riserva aurea dell’umanità di Mrs Sonia H. Greene, figlia dell’Ucraina, della Moscova e di Brooklyn, ha soggiornato a Providence il 4 e il 5 settembre, e ha mostrato un esplosivo interesse per la United. Fatte salve le stravaganze emotive dovute al temperamento slavonico, Mrs. G. è una persona estremamente raffinata e di rara intelligenza, e mia zia ne ha tessuto le lodi con grande lirismo. Con tutta probabilità hai visto la pubblicazione di Mrs. G., ‘The Rainbow’: perciò… Mrs. G. è agnostica e anticlericale, come si può dedurre da ‘The Rainbow’; ma è troppo russa ed emotiva per poter condividere il mordace cinismo mio e di Galpin. Tra i dilettanti si dimostrerà una valida combattente in favore della vera letteratura contro il pallido woodbeeismo di certe riviste. Sta pianificando di convocare una sorta di conferenza di artisti, pagani e filosofi a New York per l’ultima settimana di dicembre e la prima di gennaio; ha invitato a presenziare Galpin, Loveman e il sottoscritto. La vista di Galpin è uno spettacolo da non perdere, e se quel bambinone vi parteciperà davvero farò in modo di esserci anch’io, dovessi arrivarci a piedi e tornarne in ambulanza! Diversamente, bisogna vedere se la mia tradizionale ritrosia prevarrà sulla mia più recente tendenza a compiere brevi esplorazioni del mondo circostante. Mia zia, comunque, mi spinge ad andare.” (Lovecraft. L’età adulta è un inferno. Lettere di un orribile romantico, a cura di Marco Peano, L’orma editore, 2018)
“… quella riserva aurea dell’umanità di Mrs Sonia H. Greene, figlia dell’Ucraina, della Moscova e di Brooklyn, ha soggiornato a Providence il 4 e il 5 settembre, e ha mostrato un esplosivo interesse per la United. Fatte salve le stravaganze emotive dovute al temperamento slavonico, Mrs. G. è una persona estremamente raffinata e di rara intelligenza, e mia zia ne ha tessuto le lodi con grande lirismo. Con tutta probabilità hai visto la pubblicazione di Mrs. G., ‘The Rainbow’: perciò… Mrs. G. è agnostica e anticlericale, come si può dedurre da ‘The Rainbow’; ma è troppo russa ed emotiva per poter condividere il mordace cinismo mio e di Galpin. Tra i dilettanti si dimostrerà una valida combattente in favore della vera letteratura contro il pallido woodbeeismo di certe riviste. Sta pianificando di convocare una sorta di conferenza di artisti, pagani e filosofi a New York per l’ultima settimana di dicembre e la prima di gennaio; ha invitato a presenziare Galpin, Loveman e il sottoscritto. La vista di Galpin è uno spettacolo da non perdere, e se quel bambinone vi parteciperà davvero farò in modo di esserci anch’io, dovessi arrivarci a piedi e tornarne in ambulanza! Diversamente, bisogna vedere se la mia tradizionale ritrosia prevarrà sulla mia più recente tendenza a compiere brevi esplorazioni del mondo circostante. Mia zia, comunque, mi spinge ad andare.” (Lovecraft. L’età adulta è un inferno. Lettere di un orribile romantico, a cura di Marco Peano, L’orma editore, 2018)
Rheinhart Kleiner, Sonia Greene e Lovecraft (Boston, 5 luglio 1921) |
Lovecraft e Sonia Greene (Boston, 5 luglio 1921) |
Marco
Peano fa notare, nell’introduzione alla lettera, sia
l’intraprendenza di Sonia (di presentarsi a Providence e poi di
invitare l’autore a New York), sia il fatto che Lovecraft - anche
solo per prendere un treno - ha bisogno dell’approvazione di una
persona di fiducia, in questo caso della zia.
The
Rainbow,
citata nella lettera, è una rivista amatoriale pubblicata da Sonia.
LA
MUSICA DI ERICH ZANN
(THE
MUSIC OF ERICH ZANN, dicembre)
“Ho
esaminato le carte della città con la massima cura, ma non ho
ritrovato la Rue d’Auseil. Aggiungerò che non mi sono limitato ai
documenti moderni perché è un fatto che i nomi delle strade
cambiano; anzi, mi sono tuffato nelle antichità topografiche della
zona e credo d’aver esplorato personalmente tutte le vie, a
prescindere dal nome, che avrebbero potuto corrispondere a quella che
cercavo. Ma nonostante i miei sforzi, rimane l’umiliante realtà
che non sono riuscito a individuare né la casa né il quartiere
dove, durante gli ultimi mesi della mia povera vita di studente
universitario in metafisica, ho ascoltato la musica di Erich Zann.”
Pur
trovandosi ad appena mezz’ora a piedi dall’università, la via
sembra scomparsa nel nulla, sebbene avesse delle caratteristiche
peculiari che il protagonista ricorda molto bene.
Illustrazione di Andrew Brosnatch per la ristampa del racconto su Weird Tales (Maggio 1925) |
“Si
trovava al di là di un fiume scuro, fiancheggiato da magazzini di
mattoni con piccole finestre cieche e attraversato da un vistoso
ponte di pietra nera. Lungo il fiume c’era sempre ombra, come se il
fiume delle vicine fabbriche cancellasse il sole per sempre. Dal
fiume usciva un miscuglio di odori sgradevoli che non ho mai sentito
altrove e che un giorno potrebbe aiutarmi a identificarlo, perché lo
riconoscerei senz’altro. Oltre il ponte c’erano una serie di
stradine con l’acciottolato in porfido e piccoli parapetti: poi
cominciava la salita, prima graduale ma incredibilmente ripida quando
si arrivava alla Rue d’Auseil. Non ho mai visto una strada stretta
e ripida come quella; quasi un’erta, chiusa a tutti i veicoli,
consisteva di una serie di gradinate che si succedevano a breve
intervallo e terminava con un alto muro coperto d'edera. La
pavimentazione era irregolare, a volte lastre di pietra, a volte
cubetti di porfido e in certi tratti pura e semplice terra su cui
stentava una vegetazione verde-grigiastra. Le case erano alte, con i
tetti a spiovente, vecchissime; alcune pendevano indietro, altre
avanti o di lato, e a volte due dirimpettaie che avevano la stessa
inclinazione si incontravano sulla strada formando un arco. Di sicuro
toglievano luce al quartiere e alcune erano unite da ponticelli che
sovrastavano la strada.”
L’ex
studente rammenta anche lo strano vicinato della strada, per il suo
silenzio e la singolare reticenza, ma soprattutto perché costituito
da persone molto vecchie. Nella palazzina quasi vuota dove alloggiava
- di proprietà del paralitico Blandot – occupava il quinto piano,
mentre un misterioso musicista si trovava al piano sopra di lui,
l’ultimo, e ogni notte suonava la sua viola. Si chiamava Erich
Zann, era un vecchio tedesco muto che di sera lavorava in
un’orchestrina teatrale.
Rue d'Auseil vista da Mihail Bila (2015) |
“Dopo
aver finito il lavoro gli piaceva suonare qualcosa alla notte, ed era
questa la ragione per cui aveva scelto l’alta e solitaria mansarda,
la cui finestra d’abbaino era il solo punto del quartiere che
guardasse oltre il muro d’edera e da cui si vedesse il panorama che
si stendeva oltre. Da allora sentii ogni sera le sonate di Zann, e
sebbene mi tenessero sveglio ero ossessionato dalla loro singolarità.
Conoscevo ben poco la sua arte, ma ero certo che gli accordi che
creava non avessero il minimo rapporto con la musica normale. Ne
conclusi che era un compositore di genio: più lo ascoltavo più ne
ero affascinato, finché, dopo una settimana, decisi di fare la sua
conoscenza.
Una
notte, tornava dal lavoro, intercettai il vecchio in corridoio e gli
dissi che mi sarebbe piaciuto frequentarlo ed essere con lui quando
suonava. Era un individuo piccolo, magro, curvo, vestito poveramente
e con due occhi azzurri che brillavano in una faccia grottesca da
satiro; aveva una testa quasi calva e alle mie parole reagì con
irritazione e un po’ di spavento.”
Dopo
un’iniziale diffidenza da parte del musicista, quest’ultimo
acconsente al giovane di entrare nella sua mansarda per ascoltarlo
suonare.
Rue d'Auseil by Adam Kaňovský (2017) |
“Era
una stanza grande e lo sembrava di più per la sua eccezionale nudità
e trascuratezza: l’arredamento si limitava a un piccolo letto di
ferro, un lavabo sgangherato, un tavolino, una libreria di una certa
ampiezza, un leggio per musica e tre vecchie sedie. Sul pavimento
erano disseminati spartiti. Le pareti erano di assi nude e
probabilmente non avevano mai conosciuto l’intonaco, mentre
l’abbondanza di polvere e ragnatele lo faceva sembrare un luogo
abbandonato più che abitato. Era evidente che il mondo dell’armonia,
per Erich Zann, risiedeva in un lontano universo dell’immaginazione.”
Il
musicista fa accomodare il suo ammiratore su una delle sedie e
comincia a suonare; però il giovane non riscontra in quella musica
la stessa che lo aveva affascinato nelle notti precedenti, così,
quando Zann posa l’arco della sua viola, gli chiede di eseguire
quegli accordi così originali.
Richard Corben, 2008 |
“La
faccia rugosa, da satiro, perse l’espressione di noia e
tranquillità che aveva avuto durante il concerto e tornò a
esprimere il miscuglio di rabbia e di paura che avevo notato al
momento dell’approccio. Pensai che sarei riuscito a convincerlo,
vincendo le resistenze senili, e per risvegliare la sua vena
fantastica accennai a uno dei motivi che avevo sentito la notte
prima; seguii questa tattica per pochi secondi, perché quando il
muto riconobbe l’aria che fischiavo la sua faccia subì
un’alterazione incomprensibile e la mano destra, fredda e ossuta,
balzò verso la mia bocca per bloccare la cruda imitazione. Questo
strano atteggiamento fu accompagnato da un’occhiata di terrore
verso la solitaria finestra nascosta dalle tende, come se Zann
temesse l’ingresso di un estraneo. La cosa era doppiamente assurda
perché la mansarda dominava dall’alto i tetti circostanti ed era
irraggiungibile: come aveva detto l’affittacamere, la finestra era
l’unico punto di tutta la strada da cui si vedesse oltre il muro
d’edera.”
La
curiosità del giovane lo spinge ad avvicinarsi verso la finestra
perché quello è l’unico punto di tutta Rue d’Auseil dal quale
si può ammirare il panorama della città. Mentre si avvicina però,
viene bloccato
dall’anziano,
che poi prova a spingere lo studente in direzione della porta.
L’indignazione e lo stupore del giovane, insieme alla promessa che
se ne sarebbe andato, calmano il musicista, il quale si tranquillizza
e lascia la presa.
La musica di Erich Zann by Cyril Van der Haegen (2014) |
“Mi
strinse il braccio, stavolta cordialmente, e mi fece sedere; poi, con
aria triste, si mise dall’altra parte del tavolo e cominciò a
scrivere un lungo messaggio a matita, nel francese stentato di uno
straniero. Il biglietto che alla fine mi consegnò era un appello
alla tolleranza e un’offerta di scuse. Zann diceva di essere
vecchio, solo e afflitto da strane paure, disordini che avevano a che
fare con la sua musica e altre cose. Gli aveva fatto piacere avermi
come ascoltatore e sperava che sarei tornato, a prescindere dalle sue
eccentricità. Doveva mettere in chiaro, però, che non poteva
suonare ad altri le sue creazioni fantastiche e non sopportava di
sentirle ripetere. Non tollerava, inoltre, che si toccassero gli
oggetti della sua stanza. Fino al nostro incontro non aveva
immaginato che io potessi sentire la sua musica e ora mi chiedeva di
accordarmi con Blandot perché mi desse un’altra camera, magari a
un piano inferiore. In questo modo avrei avuto notti più tranquille
e lui avrebbe pagato l’eventuale differenza di prezzo. Mentre
decifravo quel francese orribile, cominciai a sentirmi più
tollerante nei confronti del vecchio. Era vittima di sofferenze
fisiche e nervose simile alle mie, e gli studi metafisici mi avevano
insegnato la comprensione. Nel silenzio echeggiò un piccolo rumore
che veniva dalla finestra: le imposte dovevano aver sbattuto al vento
della notte, ma per qualche motivo sussultai con la stessa violenza
di Erich Zann. Quando ebbi finito di leggere strinsi la mano al mio
ospite e me ne andai da amico.”
La musica di Erich Zann by Rüdiger Neick (2017) |
Dopo
questo episodio però, il vecchio musicista si guarda bene
dall’invitare di nuovo il giovane nel suo appartamento. Così
quest’ultimo continua ad ascoltare la sua musica anche dopo il
cambio di camera, dapprima avvicinandosi al quinto piano, poi salendo
le scale che portano alla mansarda e infine ad accostarsi
silenziosamente alla sua porta.
“Nel
corridoio stretto, davanti alla porta chiusa e con il buco della
serratura mascherato, udivo cose che a volte mi riempivano di
terrore: un terrore vago e indefinibile, quello che va con il
meraviglioso e il senso del mistero. Non perché la musica fosse
terribile, tutt’altro, ma perché le vibrazioni non facevano
pensare a cose di questa terra. In certi momenti avevano una
risonanza sinfonica che stentavo a credere prodotta da un unico
suonatore: Erich Zann era un genio dal talento sfrenato.”
Una
sera, mentre origlia, dopo una
babele di suoni incontrollati
prodotti dalla viola di Zann, sente un
urlo spaventoso, inarticolato, come solo un muto può emettere nei
momenti di paura e angoscia terribile.
Il giovane comincia a battere contro la porta per farsi sentire e
pronuncia il suo nome. Al che l’anziano musicista gli apre e lo
accoglie con sollievo. Dopo qualche momento di silenzio in cui il
musicista sembra voler ascoltare con timore qualcosa proveniente
dalla finestra, d’improvviso comincia frettolosamente a scrivere in
tedesco su alcuni foglietti che porge al giovane. Si tratta della
rivelazione di ciò che lo terrorizza. Dopo un’ora in cui i fogli
si sono ammucchiati sul tavolo, si sente una nota musicale bassa, che
sembra provenire da lontano, dietro le tende. Zann lascia subito la
matita con la quale sta scrivendo e prende frettolosamente la sua
viola, ricominciando a suonare forsennatamente.
Copertina del numero di Weird Tales dove venne ristampata La musica di Erich Zann (Maggio 1925) |
“Sarebbe
inutile descrivere la musica di Erich Zann in quell’orribile notte.
Fu la cosa più spaventosa che avessi mai sentito, perché adesso lo
vedevo in faccia e sapevo che la sua ispirazione era la paura.
Cercava di far rumore: di tenere a bada, o di soffocare, qualcosa che
stava fuori… che cosa non riuscivo a immaginare, ma doveva essere
mostruoso. Il concerto diventò fantastico, delirante, isterico, ma
conservò fino in fondo le qualità geniali che lo strano vecchio
possedeva. Riconobbi il motivo: era una svelta danza ungherese molto
popolare nei teatri, e riflettei che per la prima volta Zann eseguiva
la musica di un altro. Sempre più forte, sempre più febbrile
suonava l’arco sulla viola disperata. Il musicista era inzuppato di
sudore e si contorceva come un animale, senza perdere d’occhio la
finestra nascosta. Quegli ultimi passaggi mi suggerirono l’immagine
di satiri e baccanti che ballavano impazziti su abissi di nuvole,
fumo e fulmini. Poi credetti di sentire una nota più acuta e più
decisa che non veniva dalla viola: una nota calma, implacabile, piena
di significato, che si beffava di tutto e proveniva lontana da
occidente.”
FINALE:
A questo punto le imposte cominciano a sbattere con violenza, la
finestra si rompe e il vento invade l’appartamento. “Diedi
un’occhiata al vecchio e mi accorsi che aveva superato la soglia
della coscienza. Gli occhi azzurri erano vitrei, sporgenti e ciechi;
la folle esecuzione era diventata un’orgia di suoni meccanici e
irriconoscibili che nessuna penna potrebbe descrivere.”
Il vento gelido spazza via tutti i fogli dal tavolo. Il giovane cerca
di afferrarli prima che volino fuori ma senza riuscirci.
Disegno di Alex Scibilia (2010) |
“All’improvviso
ricordai il mio vecchio desiderio di guardare dalla finestra, la sola
in Rue d’Auseil da cui si vedesse il fianco della collina e la
distesa della città sottostante. Era molto buio, ma le luci di una
metropoli sono sempre accese e mi aspettavo di vederle anche
attraverso la pioggia e il vento. Invece quando guardai da
quell’altissima finestra d’abbaino, con la luce delle candele
alle spalle e la viola impazzita che faceva a gara con l’ululato
del vento, non vidi nessuna città. Non c’erano luci amichevoli né
strade familiari, ma solo la tenebra dello spazio illimitato, spazio
inaudito vivo di musica e movimento, senza alcuna affinità con ciò
che è terrestre. E mentre il buio m’inchiodava, il vento spense le
candele nella vecchia mansarda, lasciandomi nel buio fantastico e
impenetrabile.”
Lo
studente, spaventato, indietreggia di qualche passo; ha intenzione di
arrivare a Erich Zann e scappare via con lui. Viene sfiorato da una
cosa fredda che lo fa urlare, ma il suo grido non riesce a superare
il suono della viola. “Poi
l’arco impazzito mi colpì nel buio e capii di essere arrivato
accanto al musicista. Tastai il buio, toccai lo schienale della sedia
di Zann e gli diedi uno strattone alla spalla per cercare di
riportarlo in sé.
Non
reagì e la viola continuò a suonare senza posa. Spostai la mano
verso la sua testa e riuscii a fermare i cenni meccanici che faceva
nel buio; gli gridai all’orecchio che dovevamo fuggire dalla
minaccia sconosciuta della notte. Non mi badò e continuò a suonare
con una frenesia impossibile, mentre misteriose correnti d’aria
sembravano danzare nel buio e nel pandemonio. Quando gli sfiorai un
orecchio con la mano rabbrividii, senza sapere perché; poi gli
tastai la faccia fredda e immobile, la faccia rigida e senza respiro
i cui occhi sporgevano inutilmente nel vuoto. Allora capii, per
miracolo trovai la porta e liberai il lucchetto di legno. Mi
precipitai fuori, lontano dal cadavere con gli occhi spalancati e
dalla macabra sonata della viola, la cui furia aumentava mentre
fuggivo.
Un'altra illustrazione di Adam Kaňovský (2017) |
Corsi,
volai per le scale buie, mi gettai a precipizio nell’antica
stradina fiancheggiata dalle case pericolanti; scesi i gradini di
pietra e divorai l’acciottolato che portava alle strade più basse
e al fiume putrescente, incassato fra gli argini. Poi, senza fiato,
attraversai il ponte di pietra e sfociai nei più larghi e salutari
boulevard che tutti conosciamo. Sono gli ultimi ricordi che ho
dell’avventura; notai che non c’era vento, che splendeva la luna
e le luci della città brillavano come al solito. Nonostante le
ricerche e le indagini più scrupolose, non sono mai riuscito a
rintracciare la Rue d’Auseil. Non mi dispiace troppo, come non mi
dispiace che sia andata persa in abissi inimmaginabili la confessione
che, sola, avrebbe potuto spiegare la musica di Erich Zann.”
Si
tratta senza dubbio di uno dei racconti più riusciti del Sognatore
di Providence. Il mistero insoluto e insondabile della folle musica
di Erich Zann, capace di aprire finestre su altri mondi e dimensioni,
ha un fascino e un pathos del tutto particolari. E questo grazie
soprattutto alla capacità dell’autore di suggerire, più che
mostrare, riuscendo a tenerci in sospeso da un invisibile mai
svelato.
In una lettera di Lovecraft, datata 8 febbraio 1922 e indirizzata a Frank Belknap Long, l’autore acclude due racconti, Randolph Carter ed Erich Zann, commentandoli in questo modo:
“Secondo l’opinione quasi unanime dei nostri colleghi dilettanti, Randolph Carter è il mio miglior racconto. Certo si basa su una suspense terrificante e un progredire dell’orrore superiori a quelli di qualunque altra storia che abbia scritto. Erich Zann è una cosa recente. L’orrore non manca – intendo orrore del tipo grottesco e visionario – ma non ‘prende’ come Randolph Carter. Non si può dire che il racconto come tale sia tratto da un sogno, ma a volte ho sognato stradine ripide che ricordano la Rue d’Auseil.”
In una lettera di Lovecraft, datata 8 febbraio 1922 e indirizzata a Frank Belknap Long, l’autore acclude due racconti, Randolph Carter ed Erich Zann, commentandoli in questo modo:
“Secondo l’opinione quasi unanime dei nostri colleghi dilettanti, Randolph Carter è il mio miglior racconto. Certo si basa su una suspense terrificante e un progredire dell’orrore superiori a quelli di qualunque altra storia che abbia scritto. Erich Zann è una cosa recente. L’orrore non manca – intendo orrore del tipo grottesco e visionario – ma non ‘prende’ come Randolph Carter. Non si può dire che il racconto come tale sia tratto da un sogno, ma a volte ho sognato stradine ripide che ricordano la Rue d’Auseil.”
L'Erich Zann di Matthew Thomas, artista digitale (2014) |
Nell’introduzione
al racconto dell’antologia da lui curata, Giuseppe Lippi scrive a
tal proposito:
“Una volta tanto, il giudizio dell’autore non è equanime: per Lovecraft l’opera più riuscita è quella che meglio corrisponde alla sua estetica progettuale, vale a dire un crescendo di suspense che genera un accumulo di orrori ‘sempre più nefandi’. Questo culto del climax e della costruzione elaborata della tensione, in realtà, sono l’aspetto stilisticamente meno moderno della prosa di HPL. La musica di Erich Zann, un piccolo capolavoro, è in anticipo sui tempi ed evita accuratamente tali espedienti. Il suo fascino è quello del mistero, un mistero assoluto e insondabile, e c’è qualcosa di elegante, di grafico addirittura nella descrizione della catastrofe finale. Due immagini ricorrenti nei sogni di Lovecraft vengono qui sfruttate con la giusta dose di ambiguità: il muro coperto d’edera che guarda sull’altrove e il vuoto dello spazio in cui non è più riconoscibile alcuna forma della vita terrena. Il tema della musica infernale, già avanzato in La palude della luna, riceve qui il suo trattamento più maturo: Lovecraft si considerava negato per ogni forma di espressione musicale e Alfred Galpin affermava che per quanta buona volontà ci mettesse, alla fine era sempre sconcertato dall’ascolto di dischi e incisioni.”
“Una volta tanto, il giudizio dell’autore non è equanime: per Lovecraft l’opera più riuscita è quella che meglio corrisponde alla sua estetica progettuale, vale a dire un crescendo di suspense che genera un accumulo di orrori ‘sempre più nefandi’. Questo culto del climax e della costruzione elaborata della tensione, in realtà, sono l’aspetto stilisticamente meno moderno della prosa di HPL. La musica di Erich Zann, un piccolo capolavoro, è in anticipo sui tempi ed evita accuratamente tali espedienti. Il suo fascino è quello del mistero, un mistero assoluto e insondabile, e c’è qualcosa di elegante, di grafico addirittura nella descrizione della catastrofe finale. Due immagini ricorrenti nei sogni di Lovecraft vengono qui sfruttate con la giusta dose di ambiguità: il muro coperto d’edera che guarda sull’altrove e il vuoto dello spazio in cui non è più riconoscibile alcuna forma della vita terrena. Il tema della musica infernale, già avanzato in La palude della luna, riceve qui il suo trattamento più maturo: Lovecraft si considerava negato per ogni forma di espressione musicale e Alfred Galpin affermava che per quanta buona volontà ci mettesse, alla fine era sempre sconcertato dall’ascolto di dischi e incisioni.”
Sappiamo,
da alcune lettere di qualche anno dopo, che Lovecraft rivalutò,
giustamente, questo suo riuscito racconto. In una di queste, datata
1931, ritiene La
musica di Erich Zann
il suo secondo racconto preferito fra quelli scritti fino a quel
momento. Per la cronaca, il primo era Il
colore venuto dallo spazio
(1927).
Erich Zann visto da Dino Battaglia (1974) |
Ma
perché il Sognatore di Providence ha ambientato questa vicenda in
Francia e non nel suo amato New England?
C’è
un aneddoto raccontato da Jacques Bergier (1912-1978), il quale
afferma che un giorno, trovandosi a passare nel quartiere del mercato
delle pelli di Parigi, gli parve di ricordare di aver già vissuto
una situazione analoga, caratterizzata da quel forte odore di pelle
conciata e con quelle strade così strette da far passare a stento la
luce. Rimase talmente sorpreso dal fatto che lo scrittore americano
Lovecraft ne avesse parlato così dettagliatamente in un suo racconto
che decise di inviargli una lettera, nel 1932, nella quale gli
chiedeva se era mai stato a Parigi. La risposta lo lasciò di stucco:
“Certo
che l’ho visitata. Con Poe, in sogno.”
Per
quanto la testimonianza del saggista francese riservi qualche dubbio,
non si può certo negare che non sia suggestiva. Le perplessità
derivano dal fatto che il suo vantato carteggio decennale con lo
scrittore (ma qualcuno afferma che possano essere stati non più di
cinque gli anni della corrispondenza tra i due) finora non è stato
visionato da nessuno studioso. Si può immaginare che queste lettere
siano finite agli eredi, ma molti pensano che si tratti di una pura
invenzione di Bergier. Noi possiamo solo contare su un paio di
lettere pubblicate alla fine degli anni ‘30 su Weird
Tales.
Jacques
Bergier fu ingegnere chimico, fisico, membro della resistenza
francese durante la Seconda Guerra Mondiale – fu anche internato
nel campo di concentramento di Mauthausen - spia, giornalista,
scrittore, appassionato di occultismo e di alchimia. Noto soprattutto
per essere stato il coautore, insieme a Louis Pauwels (1920-1997),
del famoso testo Il
Mattino dei Maghi
(1960), considerato il manifesto del “realismo magico”, o
“razionalismo fantastico”, un pensiero che intende il fantastico
non al di fuori della realtà, bensì compenetrante la realtà
stessa.
Jacques Bergier (1912-1978) |
Jacques Bergier, amico di Hergé, appare anche in un episodio di Tintin, Volo 714 destinazione Sidney del 1968, sotto le mentite spoglie di Mik Ezdanitoff. |
Scrive
Pauwels nell’introduzione del libro:
“È per difetto di fantasia che letterati e artisti cercano il fantastico fuori della realtà, nelle nuvole. Non ne ricavano che un sottoprodotto. Il fantastico, come le altre materie preziose, deve essere estratto dalle viscere della terra, dal reale. E la fantasia autentica è ben altra cosa che una fuga verso l'irreale. ‘Nessuna facoltà dello spirito si immerge e scava più della fantasia: essa è il grande palombaro.’ Generalmente il fantastico viene definito come una violazione delle leggi naturali, come l'apparizione dell'impossibile. Per noi non è affatto questo. Il fantastico è come una manifestazione delle leggi naturali, un effetto del contatto con la realtà quando essa viene percepita direttamente e non filtrata attraverso il velo del sonno intellettuale, attraverso le abitudini, i pregiudizi, i conformismi. La scienza moderna ci insegna che dietro il visibile semplice c'è dell'invisibile complicato.”
“È per difetto di fantasia che letterati e artisti cercano il fantastico fuori della realtà, nelle nuvole. Non ne ricavano che un sottoprodotto. Il fantastico, come le altre materie preziose, deve essere estratto dalle viscere della terra, dal reale. E la fantasia autentica è ben altra cosa che una fuga verso l'irreale. ‘Nessuna facoltà dello spirito si immerge e scava più della fantasia: essa è il grande palombaro.’ Generalmente il fantastico viene definito come una violazione delle leggi naturali, come l'apparizione dell'impossibile. Per noi non è affatto questo. Il fantastico è come una manifestazione delle leggi naturali, un effetto del contatto con la realtà quando essa viene percepita direttamente e non filtrata attraverso il velo del sonno intellettuale, attraverso le abitudini, i pregiudizi, i conformismi. La scienza moderna ci insegna che dietro il visibile semplice c'è dell'invisibile complicato.”
Per
la cronaca, fu Bergier a definire lo scrittore di Providence il Poe
cosmico.
Un
altro collegamento con Parigi si trova nell’interessante saggio a
firma di Renzo Giorgetti dal titolo “La
musica di Erik S. Ovvero… Chi fu il vero ispiratore di The Music of
Erich Zann?”
apparso su “Studi Lovecraftiani 12” (Dagon Press, Estate 2010).
Qui
si ipotizza che la fonte d’ispirazione per il vecchio musicista
possa essere stata la figura di Erik Satie (1866-1925), celebre
compositore e pianista francese contemporaneo di Lovecraft, famoso
per i suoi brani dal carattere così onirico da dare l’illusione di
essere trasportati in mondi fantastici. Non a caso fu il primo a
ideare e coniare il termine di musique
d’ameublement,
ovvero quella musica d’ambiente (ambient
music)
di cui noi consideriamo padre il geniale Brian Eno, a tutti gli
effetti continuatore del pensiero di Satie.
Louis Pauwels (1920-1997) |
Si
tratta di un tipo di musica che, al contrario di tutti gli altri
generi musicali, compresa la musica classica (i quali si basano su
melodie ripetitive o ritornelli) libera i pensieri e le emozioni, e
può essere ascoltata con attenzione come ignorata con una certa
facilità, a seconda della scelta dell’ascoltatore.
Satie
un giorno, seduto a un caffè con un amico, espresse con queste
parole la sua idea: “Bisognerebbe
creare della musica d'arredamento, cioè una musica che facesse parte
dei rumori dell'ambiente in cui viene diffusa, che ne tenesse conto.
Dovrebbe essere melodiosa, in modo da coprire il suono metallico dei
coltelli e delle forchette senza però cancellarlo completamente,
senza imporsi troppo. Riempirebbe i silenzi, a volte imbarazzanti,
dei commensali. Risparmierebbe il solito scambio di banalità.
Inoltre, neutralizzerebbe i rumori della strada che penetrano
indiscretamente dall'esterno.”
(Il
silenzio non esiste,
di Kyle Gann, 2010).
Il Mattino dei Maghi nell'edizione italiana del 1974 |
Il
saggio di Giorgetti evidenzia le somiglianze tra Erich Zann ed Erik
Satie partendo dalle curiosità legate alla vita di quest’ultimo,
il quale era un appassionato di occultismo, tanto da essere
soprannominato Esotérik
Satie.
Per fare un esempio, una delle sue più famose composizioni si
intitola Gnossiennes,
dalla parola "gnosi". A un certo punto della sua vita si trasferisce in
un appartamento in cui non fa entrare nessuno. Solo dopo la sua morte
gli amici possono accedere ai suoi locali, trovandovi un gran
disordine, ragnatele dappertutto e “quattromila
biglietti, elegantemente calligrafati, con descrizioni di contrade e
continenti favolosi, paesaggi immaginari, insegne di diaboliche
botteghe, nomenclature riferite a ordini religiosi inesistenti,
pubblicità di strumenti ultrasonici, disegni filiformi di castelli,
cattedrali e bozzetti di armature e tonache monacali.”
Da
notare che questa sua fantasia nel creare mondi immaginari è un
tratto in comune con lo stesso Lovecraft, col quale condivide anche
la passione per la forma epistolare, viste le numerose lettere che
spediva ai suoi numerosi corrispondenti.
Brian Eno |
Anche
il suo aspetto fisico ricorda quello immaginato da Lovecraft per
Erich Zann: “Era
un individuo piccolo, magro, curvo, vestito poveramente e con due
occhi azzurri che brillavano in una faccia grottesca da satiro; aveva
una testa quasi calva…”
In
ultimo, due curiosità: il nome della via immaginata dallo scrittore
(Rue d’Auseil) si rifà alle parole in francese au
seuil,
che significano “alla soglia”, mentre spesso Zann viene
rappresentato il più delle volte con un violino, quando lo strumento
che suona è una viola da gamba, o al più un violoncello.
Luoghi:
Francia, in una città senza nome, probabilmente Parigi: Rue
d’Auseil.
Personaggi:
Erich Zann, un vecchio musicista suonatore di viola; Blandot,
proprietario dell’immobile dove alloggia lo studente.
Éric Alfred Leslie Satie (1866-1925) |
(fine 4a parte)
Sergio Climinti
Note.
Per stilare la seguente biobibliografia ho fatto riferimento ai quattro volumi editati dalla Mondadori tra la fine degli anni ’80 e gli inizi dei ’90, "Tutti i racconti" (più volte ristampati) e il volume "Lettere dall’altrove" (1993) una selezione di lettere estratte dal vasto epistolario dell’autore, tutti curati da Giuseppe Lippi. Più il poderoso mammut dedicato a Lovecraft dalla Newton Compton, "Lovecraft Tutti i romanzi e i racconti" (2011, quarta edizione) a cura di Gianni Pilo e Sebastiano Fusco. Oltre naturalmente a una serie di siti sul web, su tutti "The H. P. Lovecraft Archive", consultato per una più precisa cronologia delle sue opere.
- La sottolineatura che appare nei titoli dei racconti originali (tra parentesi), sta ad indicare il filo comune che li lega al famoso “Ciclo di Arkham”, o “Miti di Cthulhu”.
- I titoli dei racconti non in grassetto sono quelli giovanili, quelli scritti in collaborazione e quelli che destinava ai suoi corrispondenti, che non era interessato a pubblicare.
- La data che compare, a volte, dopo il titolo in lingua originale (che si trova tra parentesi) si riferisce a quella di stesura.
- I racconti scritti in collaborazione sono divisi fra “revisioni primarie” (r. p.) per quei lavori scritti per la maggior parte dall’autore, e “revisioni secondarie” (r. s.) fatte di interventi tesi per lo più a migliorarli. Tali sigle sono riportate tra parentesi, dopo il nome dell’autore che ha lavorato con Lovecraft.
- Il corsivo usato all’interno dei racconti ne individua il testo originale, nella traduzione (la maggior parte dei quali di Giuseppe Lippi) offerta dai quattro volumi della Mondadori sopra indicati.
- Al termine alcuni racconti la parola FINALE avverte il lettore che nelle prossime righe viene svelato il finale della storia.
- La sottolineatura che appare nei titoli dei racconti originali (tra parentesi), sta ad indicare il filo comune che li lega al famoso “Ciclo di Arkham”, o “Miti di Cthulhu”.
- I titoli dei racconti non in grassetto sono quelli giovanili, quelli scritti in collaborazione e quelli che destinava ai suoi corrispondenti, che non era interessato a pubblicare.
- La data che compare, a volte, dopo il titolo in lingua originale (che si trova tra parentesi) si riferisce a quella di stesura.
- I racconti scritti in collaborazione sono divisi fra “revisioni primarie” (r. p.) per quei lavori scritti per la maggior parte dall’autore, e “revisioni secondarie” (r. s.) fatte di interventi tesi per lo più a migliorarli. Tali sigle sono riportate tra parentesi, dopo il nome dell’autore che ha lavorato con Lovecraft.
- Il corsivo usato all’interno dei racconti ne individua il testo originale, nella traduzione (la maggior parte dei quali di Giuseppe Lippi) offerta dai quattro volumi della Mondadori sopra indicati.
- Al termine alcuni racconti la parola FINALE avverte il lettore che nelle prossime righe viene svelato il finale della storia.
N.B. Trovate i link a tutte le puntate della bibliografia lovecraftiana in Lovecraftiana & kinghiana; trovate tutti i link letterari nella Biblioteca di Altrove.
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