di Francesco Manetti
Una personale
lettura...
Agli
albori delle raccolte sistematiche, rigorosamente catalogate e
metodicamente esposte al pubblico dei moderni musei, ci sono le
Wunderkammer
- quei
“gabinetti delle meraviglie” allestiti un po' in tutta Europa da
nobili, studiosi e personaggi facoltosi, che conobbero il loro
periodo d'oro tra il Cinquecento e il Settecento. All'interno di
saloni opportunamente arredati con bacheche, mensole e armadi a
vetrine, erano accatastati oggetti, perlopiù curiosi e stravaganti,
provenienti da ogni angolo del globo - che proprio in quei secoli, in
virtù delle continue scoperte geografiche, si stava facendo sempre
più piccolo.
Il "Gabinetto delle Curiosità" di Domenico Remps (1690 ca.) |
Scheletri e mummie di animali esotici, semi giganti,
coralli, insetti essiccati, miniature, modellini, parti anatomiche,
calcoli renali, aborti in soluzioni alcooliche, mostruosità
biologiche, strumenti scientifici, fossili, uccelli impagliati,
conchiglie, carte geografiche, rane laccate e modellate in foggia di
ballerine, amuleti, feticci, idoli... Nelle Wunderkammer
erano ospitate in ordine caotico (o in cogitato disordine) tutti gli
ammennicoli che avevano in qualche modo colpito l'immaginazione del
facoltoso padrone e collezionista, cose stupefacenti che potevano
lasciare a bocca aperta l'occasionale visitatore e il prestigioso
ospite, suscitando in loeo l'invidia; le maggiori di queste “camere
delle curiosità” - come quella del Collegio Romano di Athanasius
Kircher - furono successivamente smembrate, disperse, sminuzzate...
andando infine a costituire il cuore delle più “leggibili”
gallerie contemporanee. Quella di trovarmi di fronte a una
Wunderkammer
letteraria è stata la prima sensazione che ho avuto iniziando la
lettura del saggio di Marco Barsacchi, uscito nel novembre 2014 per i
tipi di Marsilio (collana Saggi), intitolato Il
Mito di Demogorgone – origine e metamorfosi di una divinità
“oscura”.
La Wunderkammer seicentesca del fisico e antiquario danese Ole Worm |
In
realtà era una sensazione fallace, anche se positiva, dettata dalla
fretta di esprimere un giudizio, per forza di cose rivelatosi
prematuro. Delle Wunderkammer
rimaneva però intatto nel volume l'animo, il “senso del
meraviglioso” suscitato dall'argomento principe lì trattato, con
tutti i suoi rimandi e le sue diramazioni (nella prosa, nella poesia,
nell'arte, nell'alchimia, nella religione, nella filosofia, nelle
feste popolari... fino al romanzo fantastico, al fumetto e ai giochi
di ruolo, come vedremo) – solo quello, essendo invece il lavoro del
Barsacchi portato a termine (a differenza di quei vetusti ammassi di
cose stupefacenti) in maniera esatta, con raffinato cesello da grande
ricercatore: storico, medievalista, glottologo, linguista,
antropologo... Il tutto unito a una chiarezza espositiva degna di
nota e a un “piglio” nel narrare tale da incatenare alla pagina
anche il lettore meno addentro in tali questioni. Il Barsacchi ha
inoltre il merito di affrontare argomenti inerenti alla tradizione
spirituale più antica - alla tradizione politeista e pagana –
senza giudicare dall'alto di chissà quale sacro scranno, senza
confonderla, come altri avrebbero fatto, con la favolistica.
Va
addirittura oltre, il nostro autore, il Boccaccio stesso – al quale
si deve non l'invenzione, ma la prima grande riscoperta di
Demogorgone come Padre degli Dèi, diventandone quasi il nuovo
“profeta”, nel suo trattato in latino Genealogie
Deorum Gentilium
– spiegando che il poeta trecentesco, nel porsi la questione delle
fonti antiche e non, ha
l'atteggiamento enciclopedico del raccoglitore, non quello vigile del
filologo; il suo scopo è di esporre i miti con la maggior
completezza possibile, ordinarli, cercare di intenderne il senso, non
analizzarli o discuterli criticamente.
E il filologico libro di Barsacchi non è un manuale di filosofia o
di spiritualismo: è un saggio di ricerca letteraria vergato da un
Odisseo delle biblioteche, le cui tappe del nostos
(lo scioglimento dell'intreccio) sono i momenti nei quali, nel corso
dei secoli, riappare nelle più disparate pagine manoscritte e
stampate la misteriosa figura di Demogorgone - mutando aspetto, forma
e significato... fino a secolarizzarsi.
Giovanni Boccaccio, in un dipinto di anonimo francese del '600 |
Una
figura che è stata capace di affascinare e sedurre in special modo
scrittori italiani, francesi, inglesi e spagnoli; una raffigurazione,
un'idea così potente da essere riuscita a gettare il primo seme di
quello che è il contemporaneo “romanzo dell'immaginario”. Sarà
appunto soprattutto quello del “meraviglioso” e del “fantastico”
il binario che seguirò in questa mia molto personale e opinabile
lettura del Barsacchi. Neanche il mio sarà un discorso nel merito,
una riflessione sui culti, ma vedrò (seguendo Barsacchi) come
l'oggetto del culto, vero o presunto – nella fattispecie
Demogorgone – diventi protagonista di narrazioni, di dotti
ragionamenti e di speculazioni lontane dalle sensibilità religiose e
spirituali. È il
gusto per i mirabilia.
D'altra parte, come spiega la nota biografica pubblicata in quarta di
copertina del volume edito da Marsilio, è anche questo nelle corde
dello scrittore. Dopo
aver studiato filosofia a Firenze,
si dice, alla
severa scuola di Eugenio Garin, Marco Barsacchi ha svolto attività
culturale all'estero per molti anni, frequentando con piacere le più
diverse biblioteche, specialmente in Finlandia dove ha vissuto a
lungo. Ha viaggiato e anche abitato per qualche anno in Africa
settentrionale. Conduce adesso vita ritirata, dedito interamente ai
suoi studi: ama dimenticare il tempo presente, seguendo le tracce di
miti e storie lontane.
Che Barsacchi sia legato al fantastico in letteratura lo testimonia
pure la sua collaborazione a “Minas Tirith”, la rivista
semestrale della Società Tolkieniana Italiana.
Demogorgone
in un'incisione del 1497 per una delle prime edizioni a stampa delle
Genealogie
del Boccaccio
|
Struttura e sinossi
del libro
Il
volume di Marco Barsacchi si divide in dodici parti. La prima –
intitolata Genealogie
Deorum Gentilium
– è una sorta di introduzione dedicata all'omonimo trattato di
Giovanni Boccaccio (1313 – 1375), l'erudito certaldese
universalmente noto per il suo Decamerone.
Boccaccio è uno degli autori le cui opere – insieme a quelle di
Dante, di Cervantes, di Shakespeare e di pochi altri – compongono
il cosiddetto “canone occidentale”. L'importanza e l'influenza
del Boccaccio è stata enorme, sul piano letterario, anche (e forse
soprattutto) fuori dai confini nazionali italiani. Come ben spiega
Barsacchi, l'amore per la classicità e la volontà di redigere una
sorta di compilazione
mitologica
portò Boccaccio, nel 1360, a far venire
a Firenze il greco-calabro Leonzio Pilato, per il quale riesce a
istituire, nello Studio fiorentino, una cattedra di lingua greca: la
prima in Europa. Egli lo ospita in casa e si accinge con entusiasmo
allo studio di questa lingua della cui conoscenza, scrivendo le opere
di erudizione cui si è dedicato negli ultimi anni, deve aver sentito
particolarmente la mancanza.
Le Genealogie,
alle quali Giovanni lavorò negli ultimi venti anni di vita, non
furono mai del tutto portate a termine, tanto che la prima edizione
veneziana a stampa, del 1472 (sulla quale poi si sarebbero rifatte
tutte le successive) si basa su una “copia napoletana” del
manoscritto certaldese ancora in
fieri che
cominciò a circolare senza l'autorizzazione dell'autore, ancora
insoddisfatto del suo lavoro. Fra le tante fonti - classiche e
medievali, romane e greche – alle quali Boccaccio si “abbeverò”
risalta in particolare, subito dopo Ovidio, un certo Teodonzio
Campano, definito dal Barsacchi tardo
e oscuro...
Il gran trecentista vi ricorre ben 241 volte nei quindici libri delle
Genealogie
– secondo l'ultimo computo, fatto nel 2011 da Maria Paola Funaioli
in un articolo per la rivista “Intersezioni” del Mulino.
Una
trascrizione quattrocentesca su pergamena delle Genealogie
|
Le
fonti di Demogorgone
è appunto il titolo della seconda parte del saggio barsacchiano. I
punti in questione sono due: Teodonzio e Demogorgone stesso.
Demogorgone viene posto da Boccaccio sul trono di “Padre di tutti
gli Dèi” in virtù della lezione di Teodonzio, tramandatagli
durante il soggiorno napoletano dagli insegnamenti di Paolo Bontempio
di Perugia, bibliotecario alla corte di Roberto d'Angiò e noto
“mitografo” con le sue Collectiones.
Paolo Perugino, a sua volta, desume il nome di Teodonzio dall'opera
del saggio Barlaam – matematico, filosofo e studioso bizantino che
visse a cavallo fra il XIII e il XIV secolo. Teodonzio, secondo lo
storico Attilio Hortis (nei suoi Studj
sulle opere latine del Boccaccio)
fu un personaggio realmente esistito e, nel '900, Carlo Landi lo
collocò tra il IX e l'XI secolo, in un Ducato di Napoli in cui
fiorivano studi latini e greci. Che
non possa spingersi più indietro di tale età,
dice Barsacchi, lo
fanno pensare anche altre cose: il senso di distanza con cui questo
scrittore parla dell'antichità pagana, l'idea stessa di Demogorgone
come padre degli dèi, estranea alla classicità, e infine il fatto
che Boccaccio lo definisca homo
novus
menzionandolo, nel Proemio
dopo tutti gli altri.
Altra cose sono i suoi (presunti o pretesi) scritti. In un gioco di
rimandi e di passaggi da un erudito all'altro
(Barlaam-Perugino-Boccaccio), spiega Barsacchi, non
è necessario credere che una grande opera mitografica attribuita a
Teodonzio esistesse e fosse allora (o fosse stata) accessibile a
Paolo Perugino: ma è del tutto plausibile che sotto quel nome si
tramandasse un insieme di antiche idee, fabulae
o dottrine, sopravvissute in area greco bizantina e giunte, tramite
gli insegnamenti del dotto Barlaam, fino ai nostri due mitografi. Del
resto, è difficile pensare che Boccaccio si appellasse così
frequentemente e con tanta sicurezza, non solo nelle Genealogie
ma anche nel Comento
a Dante, a una fonte inventata, o della quale non avesse conoscenza,
se non diretta, almeno recepita attraverso una mediazione degna di
fiducia.
Giuseppe Betussi: frontespizio della traduzione in volgare delle Genealogie del Boccaccio |
Secondo
il pensiero di Teodonzio, riportato dal Boccaccio, furono gli antichi
Arcadi a venerare per primi la figura di Demogorgone, come mente
sotterranea generatrice di tutte le cose e di tutti gli accadimenti
naturali; e questo gli Arcadi credettero, come si legge nella
classica traduzione secentesca in italiano di Giuseppe Betussi,
veggendo la Terra da sé
stessa produrre le selve, & tutti gli arboscelli, mandar fuori i
fiori, i frutti, & le sementi, nodrir tutti gli animali, &
poi finalmente ritorre in sé tutte le cose, che muoiono; appresso i
monti vomitar fiamme, dalle dure pietre trarsi i fuochi, dai cavi
luoghi, & valli spirare i venti, sentendo quella alle volte
moversi, & mandar fuori muggiti, & dalle sue viscere
spargersi i fonti, i laghi, & i fiumi, quasi, che da lei fosse
nato il foco celeste, & il lucente aere, & havendo ben bevuto
havesse mandato fuori quel gran mare Oceano, & degli adunati
incendij volando in alto le faville havessero formato i globi del
Sole, & della Luna, & intricatesi nell'alto Cielo si fossero
cangiate in sempiterne stelle. E
Teodonzio, su cui tanti dubbi si sono accumulati, rimanda – per le
sue tesi sull'origine di Demogorgone – al Protocosmo,
opera perduta di Pronapide, precettore di Omero.
Nella terza
parte (Storia di un nome),
si indaga sull'etimologia dell'appellativo di Demogorgone. Nel corso
dei secoli le interpretazioni sono state molteplici, ma si riducono
fondamentalmente a due. La prima fa riferimento al termine greco
δημιουργός
(demiourgós)
che, come scrive Barsacchi, è un
nome comune, indicante un'attività del dio superiore, che dà
origine al mondo plasmando la materia, la ύλη
(hyle)
che ha di fronte a sé.
“Demogorgone”, secondo alcune ipotesi, deriverebbe dunque dalla
deformazione o addirittura dalla errata traslitterazione di
“demiurgo”. La seconda interpretazione spiegherebbe la
derivazione del nome da deus
(o demon) terribilis,
ovvero “dio della terra” o “sapienza della terra”, se si
assume che -gorgone,
più che dalla figura – comunque terribile! - della Gorgone, derivi
da γεώργιον
(georgion). In realtà, secondo il Barsacchi le due spiegazioni sono,
in qualche modo, complementari. La prima interpretazione è
plausibile per l'affinità fra i due nomi; la seconda corrisponde
meglio all'immagine stessa della divinità, tenebroso
dio primordiale celato nelle viscere della terra.
Demiurgo e
Demogorgone: un dio sotterraneo e terribile che plasma le forme.
Il demiurgo, nell'onirica interpretazione di William Blake |
Dopo
le tre prime parti necessarie a introdurre degnamente la densità e
il fascino dell'argomento, Marco Barsacchi esplora la letteratura
universale per individuare il riapparire nei secoli, sull'onda di
Boccaccio, del nome e degli attributi di Demogorgone. Tra
umanisti e mitografi
è il titolo della quarta parte. Demogorgone torna così in Giovanni
Dominici (nella Locula
o Lucula Noctis
del 1405, studio sul paganesimo); in Marsilio Ficino (nel commento al
Fedro
di Platone, intorno al 1474); nell'olandese Paul del Middelburg,
vissuto a lungo nell'urbinate (in un trattato sulle celebrazioni
pasquali del 1513); in Giovan Battista Cipelli (in uno studio delle
Metamorfosi
di Ovidio del 1528); in Aulo Giano Parrasio (1470 – 1522, in una
lettera su Apuleio); in Lorenzo Griffoli (senese, che parlò di un
“tempio di Demogorgone” che sorgeva laddove ora vi è il Duomo di
Montepulciano); nel francese Ravisius Textor (nella sua Officina
del 1503); nel belga Jean Lemaire (in una sua opera degli inizia del
XVI secolo, tesa a dimostrare le origini troiane della nobiltà
franco-tedesca); nel francese Jean Bouchet (con il suo viaggio
nell'Oltretomba pubblicato a Parigi nel 1517); in Pictorius di
Anversa (che nel 1532 redasse il primo, grande trattato di mitologia
dopo quello di Boccaccio); nel tedesco Jacobus Mycillus (in
un'edizione della Pharsalia
di Lucano datata 1551); in Lilio Gregorio Giraldi (nel De
deis,
genealogia del 1548); in Natale Conti (nelle sue fondamentali
Mythologiae
del 1551); in Vincenzo Cartari (con Le imagini del 1556); in Charles
Estienne (nel suo Dictionarum
historicum
del 1553); nell'inglese Abraham Fraunce (in un lavoro mitografico del
1592); in Daniel de Ivigné Broissinière (nel suo secentesco
Dictionaire);
nello spagnolo Juan de Mena (nel Laberinto
de Fortuna,
poema allegorico del 1444); in Juan Pérez de Moya (con la
Philosophia secreta
del 1585); in Antoine Banier (con un trattato storico sulle fables
del 1711); in Diderot e d'Alembert (nella loro settecentesca e
celeberrima Encyclopédie);
in Antoine-Joseph Pernety (nel suo “dizionario ermetico” del
1758); in Étienne Libois (con
un'interpretazione “alchemica” del 1773); l'americano William
Darlington (nel suo Catechism of
Mythology del 1832);
e così via.
Matteo Maria Boiardo, in un'incisione ottocentesca |
La cultura
dell'età umanista, dunque,
spiega Barsacchi, conobbe bene
il “padre degli dèi”, anche se non poté dargli credito in
termini filologici. Demogorgone in qualche modo rimase, pur se dietro
le quinte o in secondo piano: come una specie di fantasma dell'Opera,
non poteva comparire alla luce della ribalta intellettuale: rimaneva
nell'ombra, eppure talvolta si scopre che c'era, nonostante tutto.
Demogorgone
trova ospitalità anche nelle opere “di finzione”. Nella
poesia cavalleresca
è il titolo della quinta parte del volume di Barsacchi. Parleremo
anche più avanti di questo “filone”, nato con Matteo Maria
Boiardo che, con il suo Orlando
Innamorato
del 1483, grazie anche al modo in cui raffigura l'antico Dio come
“signore delle Fate”, getta le prime, diafane basi per un futuro
e contemporaneo sviluppo di una ben precisa branca della narrativa
fantastica (il fantasy).
Ludovico Ariosto seguì il solco tracciato dal Boiardo, con i Cinque
Canti
(che, in fase di revisione, l'autore decise di non far rientrare
nell'Orlando furioso
del 1532): anche qui Demogorgone è guida suprema delle Fate. Ecco
poi Teofilo Folengo, che accoglie Demogorgone in due suoi poemi, il
Baldus
(1517) e l'Orlandino
(1526); Giovanbattista Pescatore (con Morte
di Ruggiero
del 1556, seguito dei Cinque
canti
ariosteschi); Bernardo Tasso, padre di Torquato (con il suo Amadigi
del 1560); Erasmo da Valvasone (La
caccia
del 1592); Jorge de Montemayor (con Diana
del 1561); Alonso de Ercilla (La
Aracuana
del 1590); Luis Barahoma de Soto, stimato da Cervantes e continuatore
dell'Orlando furioso
(con Las lágrimas de Angélica
del 1586); Bernardo de Balbuena (nel suo Bernardo
del 1624); etc.
Frontespizio dei Dialoghi d'amore di Leone Ebreo, in un'edizone aldina del 1541 |
Nella sesta parte del
saggio, Tra alchimisti e filosofi,
il nostro Barsacchi si occupa dell'ingresso
di Demogorgone nel campo speculativo,
partendo dai Dialoghi d'amore
di Leone Ebreo, pubblicati nel 1535: qui, addirittura, come
sottolinea Barsacchi, Demogorgone
assume le vesti di Jahvè, l'unico onnipotente Dio del monoteismo
ebraico. Considerando
anche l'apparire del Padre degli Dèi in Cornelio Agrippa (in
un'opera del 1530) e in Francesco Giorgio Veneto (nel suo De
harmonia mundi
del 1525), i Dialoghi
di Leone, sintesi
di platonismo e di filosofia ebraica,
prosegue il nostro saggista, furono
ben conosciuti negli ambienti cabalistici, ed è probabile che gli
uni e gli altri siano stati il tramite per cui Demogorgone è entrato
anche nell'alchimia.
Questo soprattutto a partire da altri Dialoghi,
quelli vergati da Giovanni Bracesco de Iorci Novi, pubblicati nel
1542/1544, dove Demogorgone viene associato al ferro,
vero cuore della realtà da cui tutti i metalli (gli dèi), in ultima
analisi derivano
– scrive Barsacchi. Giovanni Bracesco, continua Barsacchi, è il
primo a dare una lettura
allegorica del mito primordiale narrato dal Boccaccio, secondo la
quale Demogorgone rappresenta in termini favolosi e figurativi un
fattore determinante della trasmutazione alchemica o, addirittura, la
sua meta.
Troviamo – fra gli altri - così il parigino Robert Duval (con il
suo De veritate
del 1561); il londinese Thomas Vaughan (con The
River of Pearl
del 1651); Vincenzo Percolla (con Auriloquio
del 1560 ca.); Gerald Dorn (nel Colloquium
del 1568); Cesare della Riviera (con Il
mondo magico
del 1603); Jean Brouant e Clovis Hesteau (con i Trois
livres
del 1621); Robert Fludd (nelle sue opere della prima metà del
Seicento); Pierre-Jean Fabre (con L'Abregé
del 1636 e Alchimista
christianus
del 1632); e via dicendo. Tra i filosofi del Cinquecento Giordano
Bruno nomina più volte Demogorgone. Ma è quella del 1756
l'apparizione che più ci interessa ai fini di questa nostra
personale recensione: l'antico Dio compare infatti nel Songe
de Platon
di Voltaire, solitamente inserito dalla critica specializzata
(insieme a Micromégas)
fra quelle opere che costituiscono il corpus
della cosiddetta “protofantascienza” francese, intesa come
antecedente alla produzione di Jules Verne. Ritorneremo più avanti
sull'argomento.
Gargantua e Pantagruele, nella straordinaria interpretazione fumettistica di Dino Battaglia |
Barsacchi
dedica la settima parte del suo libro – Dai
Mystères a Corambé
– all'ambito francese, tradizionalmente molto attento alle
Genealogie
del Boccaccio e dunque, di riflesso, alla figura di Demogorgone. I
Mystères
furono un sorta di rappresentazione teatrale a sfondo religioso
sviluppatasi a partire dal XV secolo: Demogorgone, nell'ottica
cristiana, vi appare come personaggio demoniaco, diabolico nel senso
più popolaresco del termine. E così nella Passion
di Arnoul Gréban (metà '400); nel Mystère
des Actes des Apôtres di Simon
Gréban (terminato nel 1473 e rivisto da Jean Chaponneau nel 1536); e
in altre opere anonime del periodo. Interessatissimo ai “misteri”
sacri fu François Rabelais, che conobbe sia gli scritti di Folengo
(il Baldus
di cui abbiamo parlato), sia le Genealogie del Boccaccio. Ecco perciò
Demogorgone venir menzionato – in un paio d'occasioni - anche
nell'opera satirica in cinque volumi (uscita fra il 1534 e il 1564)
Gargantua e Pantagruel,
capolavoro del Rabelais. Il Padre degli Dèi verrà menzionato
nell'Ottocento dalla scrittrice parigina George Sand, nella sua
autobiografia (dove ricorda di aver creato, in gioventù, la fantasia
di Corambé, una sorta di divinità “sincretista”),
qualificandolo come lo spirito delle
profondità della terra, che
andrebbe testé liberato.
Ai festeggiamenti popolari è
riservata l'ottava parte del libro, Demogorgone
rappresentato. Fu nel 1566 che sfilò
per le vie di Firenze la Mascherata
della Genealogia degli Dèi, un corteo di ventuno carri allegorici,
le cui reminiscenze troviamo oggi nelle varie manifestazioni
carnascialesche (a Viareggio, a Fano, etc.), allestiti per celebrare
le nozze fra Giovanna d'Austria e Francesco de' Medici: partecipò al
comitato organizzatore anche il Vasari. Ritroviamo il personaggio
divino nell'intermezzo Demogorgone in
dialogo con l'Eternità di Giacomo
Peri scritto nel 1583 come preludio alla commedia Le
due Persilie di Giovanni Fedini.
Demogorgone torna protagonista delle feste in onore dei Granduchi di
Toscana anche nel Seicento. E poi in altre rappresentazioni: a Parigi
(con César de Gran-Pré nel 1633), a Londra (con Thomas Carew nel
1634), a Ferrara (durante la Festa de' Cavalieri per il carnevale del
1672), a Versailles (con Quinault e Lulli nel 1685)...
La Regina delle Fate: illustrazione degli anni '30 ispirata al capolavoro di Spenser |
Il principe delle tenebre
è la nona parte del libro, capitolo che si occupa della
“penetrazione” dell'idea di Demogorgone in terra d'Albione.
Azzeccatissimo titolo, in quanto, a partire dall'età elisabettiana
fu soprattutto colto della divinità quello che Barsacchi chiama il
potenziale fantastico,
aspetto su cui torneremo più avanti. Sfilano così il già citato
Abraham Fraunce, Samuel Rowlands (in Martin
mark all del 1610), Walter Raleigh
(in The History of the World
del 1614) e Richard Barnfield (con Cassandra
del 1595). Nel contesto della
grande letteratura inglese, scrive il nostro saggista, la
figura di Demogorgone assume stabilmente un duplice volto: a) come
oscura, tenebrosa potenza infernale; b) come divinità primordiale
emersa da un abisso di tenebre, che non è facile distinguere dal
Caos.
Così, alla fine del '500, troviamo Demogorgone associato alla Notte
(sua nipote, del resto, figlia della Terra) e definito come Prince
of Darknesse nel
The Faerie Queene
di Edmund Spenser; diventa Prince
of Hell
nel 1590, nel Tamburlane the
Great
di Christopher Marlowe; viene invocato da Faust, nel Doctor
Faustus
(Marlowe, fine '500), insieme a Belzebù e Mefistofele; diventa il
“Nero Demogorgone, progenitore della Notte” nel Selimus,
tragedia del 1594 attribuita a Robert Greene; e lo stesso Greene, in
altri lavori, evoca ancora Demogorgone come “padrone dei destini”
(nel Bacon
del 1594) e come “signore dei destini” (in una commedia tratta
dall'Orlando Furioso,
sempre del 1594); anche John Milton scrive “lo spaventoso nome di
Demogorgone” nel suo Paradise
Lost
del 1667; e infine John Dryden, con il suo Demogorgone dal “volto
terribile” (in Spanish Friar
del 1681) oppure nelle vesti di fustigatore di fate (in The
Flower and the Leaf).
Moby
Dick – la grande balena bianca associata da Melville a Demogorgone
– nell'interpretazione di Dino Battaglia
|
La
decima parte del volume indaga su quanto accadde Nella
poesia romantica,
in un periodo affascinato dagli aspetti tenebrosi e fantastici che
potevano nascere da un rilettura dei classici del passato. Samuel
Taylor Coleridge richiama Demogorgone nel suo Limbo
del 1834, come entità capace di “polverizzare gli spiriti”
tramite un potere sovrannaturale; potere che nel 1818 appare
associato a Demogorgone anche nel poema di argomento mitologico
Rhododaphne
di Thomas Love Peacock. Fu soprattutto Percy Bysshe Shelley, gran
soggiornatore sul suolo italico (dove morì) e profondo conoscitore
dell'opera di Boccaccio, mettendolo in scena come la personificazione
dell'Oscurità nel suo Prometheus
Unbound,
“dramma lirico” pubblicato nel 1820.
Demogorgone
nel paesaggio laziale, secondo Di Nardo, in una foto scattata dal
satellite
|
L'undicesima
e penultima parte (...E oltre,
fino a oggi)
del saggio del Barsacchi si occupa del periodo letterario che segue
il Romanticismo. In Moby Dick
del 1852, Demogorgone viene equiparato da Herman Melville, tramite
parole pronunciate dal personaggio di Starbuck, alla mostruosa Balena
Bianca; Giosuè Carducci conia per il “padre degli Dèi”
l'appellativo di “informe eterno”, nella sua poesia La
moglie del gigante
(da Rime e ritmi
del 1898); Gabriele D'Annunzio, in Anniversario
Orfico
(lirica facente parte di Alcyone, 1903), canta Demogorgone come
“originario mostro”; e poi Charles Florentin-Lariot, Matteo
Darzi, Fernando Pessoa (con la sua poesia intitolata Demogorgone)...
Nel 1934 Guido Di Nardo, nei suoi scritti archeologici degli anni
Trenta e Quaranta, identifica Demogorgone con un'antichissima
divinità tellurica
– riporta Barsacchi – oggetto
di culto nel Lazio preromano, e percepito dagli antichi nella stessa
conformazione topografica e geologica del paesaggio: la sua facies
era colta nei rilievi del “vulcano” laziale, con i due laghi di
Albano e Nemi come azzurri “occhi” giganteschi. (…) Questa
divinità sarebbe poi entrata nel pantheon romano col nome di Saturno
(Kronos), di cui si narrava appunto che fosse venuto a celarsi nel
Lazio, dopo essere stato detronizzato da Giove (Zeus).
Il
"Demogorgone laziale" nell'interpretazione di Di Nardo (1942)
|
Come
nei secoli i vari artisti abbiano immaginato l'aspetto del Padre
degli Dèi è l'oggetto dell'ultima parte del saggio, Per
un'iconografia di Demogorgone.
Nel Codice Wormald
del 1374, con testo di Paolo Perugino, Demogorgone è raffigurato,
insieme a Tellus, come un sovrano su trono assiso, sottoposto però a
Lucifero. Nelle prime edizioni a stampa delle Genealogie
del Boccaccio, come l'incunabolo veneziano del 1497, Demogorgone ha
un aspetto “pantocratore” - con corona, bastone del comando e
globo in mano; irradia energia e luce, sullo sfondo del mondo. Nel
1565, come abbiamo già visto, Demogorgone appare a Firenze come
protagonista sul carro allegorico della Mascherata della genelaogia
degli Dèi: venne raffigurato come un vecchio dalla lunga barba
bianca, nudo e ancora possente, seduto sopra un caverna, avvolto da
fumi infernali. Dieci anni dopo, vediamo Demogorgone che “trae
Litigio dal ventre di Caos” in un affresco (realizzato da Jacopo
Zucchi) del palazzo mediceo di Campo di Marte a Roma. Lo ritroviamo
nel fregio della Villa Medicea di Poggio a Caiano (vi torniamo più
avanti) e in un affresco del Giordano nel fiorentino Palazzo Medici
Ricciardi. In incisioni secentesche, poi, scopriamo Demogorgone
(“compagno dell'Eternità”) associato all'uroboro, il serpente
che si morde la coda e che rappresenta l'eterno ritorno.
Demogorgone trae Litigio dal ventre di Caos nell'affresco dello Zucchi |
L'eco di Demogorgone
nel fantastico
Come
avevamo all'inizio accennato, prima di affrontare da vicino la
struttura del saggio, le più moderne incarnazioni di Demogorgone –
che qualcuno potrebbe addirittura considerare “eretiche”, se non
“blasfeme”, e che Barsacchi, essendo queste “fuori tema
letterario”, giustamente cita rapido nel suo testo - sono da
rintracciarsi nei fumetti e negli intrattenimenti ludici. Nel
fortunato gioco di ruolo “Dungeons & Dragons”, Demogorgone
ottiene il titolo di Principe dei Demoni e di Signore di Tutto Ciò
che si Cela nelle Tenebre; è dunque un essere sotterraneo e si
presenta sotto l'aspetto di un umanoide anfibio/rettiliano con due
teste di mandrillo e braccia serpentine.
Un
Demogorgone bicefalo in un disegno ispirato al gioco di ruolo
Dungeons & Dragons
|
Demogorgone viene associato
al rettile e al serpente fin dalle sue origini e come tale si è
conservato nelle rappresentazioni iconografiche più moderne. In una di queste, il fregio in terracotta invetriata della villa
medicea di Poggio a Caiano, si è voluto ravvisare l'immagine
demogorgoniana. Nel primo pannello a sinistra, scrive Barsacchi, ciò
che vi è raffigurato sembra costituire un'allegoria dal duplice
significato, perché allude sia all'origine (nell'eternità) sia alla
dinamica (nel tempo) del mondo e delle anime. Di queste, uscite o
nutrite dalla grande Madre (la Natura? La Terra?), alcune si dirigono
verso destra, dove una figura maschile eretta, slanciata, nuda, con
un corpo perfetto, da statuaria greca, è rivolta al cielo per
determinarne l'ordine e i moti (tiene in una mano uno strumento di
misurazione, e nell'altra un globo con segni astrologici), fissando
così forme e durata di ciò che vive nel tempo. La posizione del
braccio sembra anche indicare la volta celeste, orientarvi le anime
che si volgono a lui. Altre invece si dirigono a sinistra, verso un
personaggio ben lontano dai canoni estetici greci: appare tozzo,
contorto, con una veste ampia che sembra volerne nascondere il corpo
forse deforme; lo sguardo è declinato, e con le mani tiene serpi
guizzanti; non si volge alle anime, ma piuttosto a un'uscita terrena,
rocciosa e bassa, dalla caverna, verso cui le conduce e le orienta.
Insomma una figura demoniaca, ctonia, che appare l'antitesi
dell'altra, dal carattere celeste e demiurgico.
Nel fregio mediceo, l'unico e solo personaggio presente in altre
iconografie demogorgoniane, si scinde in due figure distinte, ognuna
con i suoi aspetti peculiari: artefice
celeste
– continua Barsacchi - che
regola gli astri e determina i destini di ciò che vive nel tempo, e
divinità primordiale celata nelle profondità della terra – di cui
la caverna è un'allegoria – che fatalmente, rispetto all'altro
significato e all'altra funzione, assume caratteri oscuri, demoniaci.
In breve: il Demiurgo e Demogorgone. La “demonicità” di questo
secondo personaggio è segnalata anche dai serpenti che tiene stretti
nelle mani; se Lucano scriveva, di questo terribile e misterioso di
al quale poi è stato dato quel nome, che poteva guardare la Gorgone
impunemente, cioè senza restarne pietrificato è perché era un po'
“gorgonico” lui stesso, e le serpi sono simboli del suo potere.
Demogorgone appare (forse) stringendo serpenti, all'estrema sinistra del fregio in terracotta della Villa Medicea di Poggio a Caiano (PO) |
Oltre
agli attributi “rettiliani” vi è dunque un potere non solo
soprannaturale, bensì anche fisico. Un potere di invulnerabilità.
Quei poteri di intervento sulla realtà – molto spesso “azioni a
distanza” - che ritroviamo spesso nella letteratura fantastica,
nella fantascienza e, soprattutto, nel fumetto supereroistico.
Demogorgone resiste allo sguardo pietrificante di Medusa, come,
millenni più tardi, nella narrativa popolare e per immagini, il
petto di super-umani resisterà alle sventagliate di mitra! Il
riferimento di Barsacchi a Lucano si deve al fatto che Boccaccio, nel
suo trattato sugli Dei, citò tra le fonti un brano tratto dalla
Pharsalia
(o Guerra
civile).
Singolarmente Lucano non nomina – rispettosamente – il nome del
Padre di tutti gli Dei, ma lo fa uno dei suoi traduttori classici,
Gaspare Cassola, alla fine del '700 (Il
gran Demogorgone, al cui solo nome / trema la terra, che il gorgoneo
scudo / illeso mira, e con terribil sferza / castiga Erinni).
Una
filiazione di Demogorgone la troviamo nel fumetto Marvel classico
(nell'epopea di Thor) con il negativo Demogorge, “il divoratore di
Dèi”, legato - in una sorta di alternanza alla Jekyll/Hyde – al
personaggio positivo di Atum, ovvero il Padre degli Dèi dell'antico
culto egizio.
Demogorgone nel fumetto Marvel |
Demogorgone,
come avevamo prima accennato, è il protagonista del Sogno
di Platone,
brevissimo racconto filosofico scritto nel 1748 da Voltaire. La
narrazione inizia con il grande pensatore che sogna il Demiurgo,
artefice supremo dell'Universo, nell'atto di affidare ai suoi
“sottoposti” (“geni” o “demoni”) alcuni mondi da
plasmare. A Demogorgone tocca la Terra e, nonostante si sia dato un
gran daffare, deve subire le critiche dei suoi “colleghi” perché
sul pianeta c'erano tante cose belle da vedere e buone da mangiare,
tanti luoghi confortevoli, tanti animali meravigliosi - ma anche
parecchie brutture e posti non adatti alla vita. Grazie a questo
racconto (ma soprattutto a Micromega,
che profetizza un esopianeta in orbita attorno a Sirio), Voltaire
viene – forse “tirandolo un po' per la giacchetta” - arruolato
fra i precursori del genere letterario fantascientifico. Demogorgone
viene infatti visto – in quest'ottica profana – impegnato in
un'opera titanica di “terraformazione”, tanto per usare una
terminologia piuttosto nota anche ai non appassionati. Non crea
infatti un mondo dal nulla, ma modifica, plasma la “palla di
fango” già creata che gli aveva affidato il Demiurgo – proprio
come avviene in certi romanzi e film di fantascienza. In queste
storie si immagina un domani talmente lontano, che il progresso
tecnologico giunge quasi a sconfinare nella magia. Uno dei mezzi che
questi ipotetici uomini del futuro avranno per abitare su remoti e
inospitali pianeti sarà quello di “terraformare” questi mondi,
trasformando aspri habitat (oceani di metano, atmosfere di acido
solforico e simili facezie) in nuove Terre, grazie a fantasiosi
processi e macchinari che riescono a purificare l'aria e i mari e a
creare il ciclo evaporazione / pioggia. Ecco dunque Demogorgone, con
le sue potenzialità sovrannaturali, far capolino nella fantascienza!
Il
Sogno
di Platone
di Voltaire in un'incisione settecentesca, dove appare anche
Demogorgone
|
Ma
non è tutto. Nelle Genealogie
del Boccaccio Demogorgone è il Padre di tutti gli Dèi; suoi
compagni sono l'Eternità e il Caos. E poi ci sono i suoi nove figli:
Litigio, Pan, le Tre Parche (Cloto, Lachesi e Atropo), Polo (o Polus
o Pollux), Fitone (o Phyton o Phaneta o il Sole), Terra e Herebus (o
Erebo, le Tenebre). Il fatto che Demogorgone fosse padre delle Parche
– che controllano il Destino, il Fato dell'uomo e sono perciò
dette anche Fatae – suggestionò in particolar modo i letterati
inglesi che, sulle orme del Boiardo, cominciarono ad “adottarlo”
nelle opere fantastiche come Signore delle Fate, derivando le fairies
non solo il loro nome – etimologicamente – dalle Parche, ma anche
i loro poteri di intervento “magico” sul fato degli uomini. Ecco
dunque Demogorgone, attraverso successive metamorfosi e comparsate
letterarie, indossare in qualche maniera le vesti di precursore dei
protagonisti dei romanzi del genere fantasy.
Abbiamo
infine visto Demogorgone come “principe delle tenebre”, anche in
virtù della sua paternità di Erebo. Un Demogorgone capace di
“mutare forma” (come sembra suggerire il Carducci), come
fortunatissime figure della moderna narrativa dell'orrore, e di
incarnarsi in “mostri naturali” come Moby Dick, simbolo della
Natura che si ribella contro l'uomo troppo invadente. E, a proposito
di “mostro ribelle” c'è un ultimo “collegamento sotterraneo”
da mettere in risalto, prima di chiudere. Come abbiamo visto nel 1820
il poeta Shelley aveva scritto il Prometeo
Liberato,
ospitando l'antico Demogorgone in quei versi, ma due anni prima la
moglie dell'artista, una giovanissima Mary Shelley, aveva pubblicato
(attingendo alle stesse fonti) il celeberrimo Frankenstein
or the modern Prometheus,
capostipite del romanzo orrorifico contemporaneo, un filone che si
distaccherà dal “gotico” e che – attraverso Poe, Machen,
Lovecraft, King... - giungerà indenne fino a noi.
Marco
Barsacchi
IL
MITO DI DEMOGORGONE
Origine
e metamorfosi di una divinità “oscura”
Saggi
Marsilio
Marsilio
Editori – novembre 2014
pagg.
242 - € 23
Francesco Manetti
N.B. Trovate i link agli altri post "letterari" nella Biblioteca di Altrove!
P.S. Il presente articolo esce in contemporanea su EreticaMente - rivista online di filosofia, storia, tradizione e altro ancora!
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