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sabato 17 dicembre 2016

LILITH 17 - NORD-AMERICA 1781: LA DONNA-DEMONE DELLE PRATERIE

di Andrea Cantucci

Nel penultimo albo della serie prosegue il viaggio iniziato nel numero precedente, con la protagonista che accompagna verso Ovest una delegazione di patrioti americani del XVIII secolo. Questi puntano a stipulare un’alleanza coi Giapponesi che, nella Terra parallela generata dai viaggi nel tempo di Lilith, hanno colonizzato la zona occidentale del Nord-America. I ribelli americani, guidati da Benjamin Franklin e Thomas Jefferson, sperano di trovare nei nipponici degli alleati contro gli Inglesi che, in questa realtà alternativa, nel giro di pochi anni sono praticamente riusciti a reprimere la ribellione delle loro colonie americane. 


I comandanti Marion e Morgan, da Lilith 17 pag 22


All’inizio dell’episodio si uniscono a Franklin e Jefferson altri famosi patrioti americani realmente esistiti, i comandanti delle milizie continentali Daniel Morgan e Francis Marion - detto la Volpe delle Paludi per le azioni di guerriglia che conduceva. Con loro appaiono qui anche dei volontari stranieri che combatterono davvero per la causa americana, il marchese francese di La Fayette e i due patrioti polacchi Casimir Pulaski e Tadeusz Kościuszko, che nella realtà avrebbe poi guidato un tentativo di insurrezione del suo popolo contro i Russi. 


La Fayette, Pulaski e Kosciuszko, da Lilith 17 pag 23

Di alcuni degli altri personaggi storici utilizzati da Luca Enoch su Lilith17, come il maggiore Rogers e i suoi rangers, abbiamo già parlato nella recensione precedente; sd altri ancora nell’episodio n. 16 non avevamo prestato la dovuta attenzione, dato anche lo spazio minore che fino a quel momento avevano avuto nella vicenda. Grazie a questa sua prosecuzione abbiamo ora l’occasione di rimediare. 


Statua di Junipero Serra che sovrasta un indio nella Missione di San Juan Capistrano
 
Al padre francescano Junípero Serra è dedicata la rubrica alla fine dell’albo che ne narra la storia alternativa, come è stata a un certo punto radicalmente modificata in queste due storie di Lilith. Junípero in spagnolo significa "ginepro" e il francescano Miguel José Serra Ferrer prese tale nome da frate Ginepro, uno dei primi seguaci di Francesco d’Assisi. È vero che padre Serra fu presidente delle missioni francescane in California e che intorno al 1770 i Francescani ebbero l’incarico di sostituire in quel territorio i missionari Gesuiti, che erano stati banditi dalla Nuova Spagna, che allora andava dal Golfo del Messico alla California. 


Padre Junipero Serra, da Lilith 17 pag 56


È altrettanto autentico che padre Serra accompagnò l’ufficiale spagnolo Gaspar de Portolà in una spedizione attraverso la California, fondandovi le sue missioni francescane al posto di quelle dei Gesuiti caduti in disgrazia, anche se nella realtà alternativa delle storie di Lilith deve averne fondate molte di meno, visto che tutta l’Alta California è stata occupata e colonizzata non dagli Spagnoli ma dai Giapponesi. Inoltre i Gesuiti che sono stati sostituiti dai Cardi nemici di Lilith e che presidiano una certa missione ribelle, si sono rivelati qui un osso ben più duro sia per i soldati spagnoli che per padre Serra, come abbiamo visto sul n. 16.

Che Enoch riservi a Junípero Serra un destino non molto allegro su un albo che esce nel 2016, appena un anno dopo la proclamazione a santo di questo missionario, fa pensare a una provocazione dell’autore. Infatti i Nativi Americani, che furono vittime di condizioni di semischiavitù, gravi punizioni corporali e conversioni forzate all’interno delle missioni francescane, hanno denunciato in documentari da loro realizzati nel 2006 le responsabilità di padre Serra nell’aver in tal modo contribuito a estirpare con la violenza la cultura degli indigeni, nell’ambito del genocidio di cui furono vittime. Le scontate smentite dei media vaticani sono insufficienti a fugare del tutto tali ombre dal personaggio, come da altre figure di “santi” cattolici, poiché i principali elementi a difesa consistono solo nel sostenere che gli indigeni erano trattati ancora peggio dagli Spagnoli e che al contrario il presidente dei Francescani “concedeva” loro di parlare la propria lingua e di allontanarsi in alcuni casi dalle missioni (il ché significa che per il resto del tempo erano prigionieri…). 


Ritratto del vero Junipero Serra


D’altra parte pare certo che Junípero Serra fosse un religioso molto severo nell’assegnare le “penitenze”, sia agli altri che a se stesso. Quindi la rappresentazione che ne fa Enoch come di un frate piuttosto fanatico e ben poco diplomatico non è del tutto campata in aria… Comunque l’autore non gli ha accorciato di molto la vita, visto che nella realtà Serra sarebbe morto ugualmente tre anni dopo, per il morso di un serpente.

Un altro personaggio storico che ha un ruolo ancora più importante in questo episodio e che era già apparso nel numero precedente, è il tenente colonnello inglese Banastre Tarleton. Questi combatté davvero contro i coloni ribelli nella Rivoluzione Americana, durante la quale si guadagnò rapidamente e precocemente i gradi. 


Dettaglio di un ritratto di Tarleton,dipinto da Joshua Reynolds nel 1782


All’epoca di questo racconto Tarleton aveva ventisette anni e un anno prima, nel 1780, aveva guidato i suoi dragoni in uno scontro passato alla Storia per gli Americani come il Massacro di Waxhaws, in cui dopo che i fanti continentali si erano arresi i cavalleggeri britannici ne uccisero oltre cento e ne ferirono centocinquanta.

Oggi si sostiene che la responsabilità di quella strage non sia stata di Tarleton, visto che in quel momento il suo cavallo era stato abbattuto da un proiettile e lui sbalzato di sella, ma questo e altri atti brutali compiuti dalle truppe sotto il suo comando, insieme al fatto che il giovane colonnello non concedesse mai tregua ai nemici, ha fatto sì che gli Americani gli abbiano dato soprannomi come Ban il Sanguinario, o il Macellaio, o ancora il Dragone Verde - per il colore delle divise della Legione Britannica posta sotto il suo comando. 


I dragoni di Tarleton massacrano gli americani a Waxhaw Creek


La Legione Britannica era un’unità di cavalleria e fanteria leggera composta da coloni lealisti e formatasi nel 1778, nota anche come gli Incursori di Tarleton, che in molti scontri sconfisse anche forze preponderanti. All’inizio del 1781, anno in cui si svolge il n. 17 di Lilith, nella realtà l’andamento della Guerra d’Indipendenza stava cambiando e il vero Tarleton subì una pesante sconfitta da parte del già citato generale americano Daniel Morgan, nella battaglia di Cowpens. Un paio di mesi dopo Tarleton perse due dita della mano destra per un proiettile nella battaglia di Guilford Courthouse e, dopo la resa dei Britannici nell’autunno dello stesso anno, tornò in patria e si diede alla politica, diventando nel 1790 membro del Parlamento di Gran Bretagna e sostenendo tra l’altro la tratta degli schiavi. In seguito, anche senza aver più guidato truppe in battaglia, fu promosso fino al grado di generale, fu fatto baronetto e infine morì nel 1833, a settantanove anni.
Le cose gli vanno ben diversamente nell’universo alternativo di Lilith, visto che l’inseguimento dei patrioti ribelli attraverso le praterie lo porta, giunto alle pendici delle Montagne Rocciose, a scontrarsi insieme ai suoi dragoni contro degli agguerriti e meglio armati cavalieri giapponesi, non prima però d’aver tenuto fede alla sua fama di macellaio compiendo una strage ai danni di un villaggio indiano, pur di catturare le sue prede. 


Il colonnello Tarleton, da Lilith 17 pag 112


I dragoni di Tarleton massacrano gli indiani, da Lilith 17 pag 94


Tra l’altro, nella realtà, il colonnello Tarleton diede davvero la caccia al già citato comandante ribelle Francis Marion, senza riuscire mai a catturarlo, e anche al governatore della Virginia Thomas Jefferson, che gli sfuggì a sua volta. Qui invece riesce a farli prigionieri entrambi, insieme a vari altri famosi patrioti, che dal suo punto di vista sono dei ribelli, compreso quel Daniel Morgan da cui nella realtà sarebbe stato sconfitto.

Ma tale provvisorio successo alla fine sarà di magra consolazione per il Dragone Verde. 



Tarleton cattura Franklin e Jefferson, da Lilith 17 pag 97



L’ultimo autentico personaggio storico che appare su Lilith n°17, e che probabilmente avrà un ruolo maggiore nel prossimo episodio, è il damyō Tsugaru Nobuyasu. Questo nobile giapponese vissuto dal 1739 al 1784 nella realtà regnò nel nord della provincia di Mutsu, sulla punta settentrionale del territorio di Honshū, l’isola principale del Giappone, mentre in questa storia regna su una delle province più a Est del Kiokutō (il Lontano Oriente), il nome che qui i Giapponesi hanno dato alle loro colonie in Nord-America. 


Tsugaru Nobuyasu ritratto in una stampa giapponese

Tsugaru Nobuyasu, da Lilith 17 pag 128



Enoch ha commesso un’imprecisione definendo Nobuyasu come membro del clan Hirosaki. Il suo clan, cioè la sua famiglia, si chiamava invece Tsugaru come dice il suo cognome, che in giapponese precede il nome proprio, mentre Hirosaki era uno dei due domini di quel clan in Giappone, quello che prese il nome dalla città del loro castello di famiglia e su cui regnò Tsugaru Nobuyasu come settimo damyō. Ma nel mondo di Lilith pare che il clan Tsugaru non risieda più a Hirosaki, dato che Nobuyasu sta erigendo dei nuovi castelli in Nord-America, come i Giapponesi di questa realtà alternativa hanno fatto con la capitale orientale Tokyo. 



Il castello di Hirosaki in Giappone


Tra l’altro nella realtà la fortuna e il potere del clan Tsugaru dipesero dalla vittoria dei loro alleati Tokugawa nella battaglia di Sekigahara, nel 1600. Visto che in un episodio precedente l’intervento di Lilith ha rovesciato il corso di quella battaglia, è abbastanza plausibile che nella realtà alternativa che si è così determinata il clan Tsugaru sia stato invece allontanato dal Giappone ed esiliato in una delle province più estreme.

Comunque è presso Tsugaru Nobuyasu che si rifugia il giovane samurai cristiano Jerome Ishida, già apparso in albi precedenti di Lilith. Jerome infatti viene qui allontanato da Tokyo per aver ucciso un mercante mentre era in preda alla gelosia, a causa di una geisha di cui si è innamorato. La porta poi con sé a Est, in quello che i Giapponesi chiamano Grande Oriente, una definizione contraria ma equivalente a quella di Far West (Lontano Ovest) che gli Americani avrebbero dato allo stesso territorio venendo dalla direzione opposta.
Rifugiatosi nel castello di Tsugaru Nobuyasu in America, Jerome non sa che tra poco rivedrà quella donna-demone che anni prima in Giappone aveva ucciso suo padre e che viaggia proprio verso il luogo in cui lui si trova. Essendo stato educato da un gesuita che in realtà era il capo dei Cardi, non ci possono essere molti dubbi sui sentimenti di vendetta che il giovane samurai proverà quando si troverà di fronte Lilith.






Lilith abbatte un bisonte, da Lilith 17 pag 68

 
Personaggi reali e citazioni storiche a parte, in Lilith n. 17 ci sono molti altri elementi, come i bisonti, allora ancora diffusi nel Nord-America e che Lilith abbatte a mani nude, o come gli Indiani delle praterie, che non ci mettono molto a capire che i colonizzatori giapponesi non sono troppo diversi da quelli inglesi, entrambi avidi di territori ai danni dei nativi e altrettanto spietati nei loro metodi di conquista. Vediamo infatti qui un comandante nipponico che, con le sue truppe armate di lance e pistole, stermina senza alcuna pietà dei coloni messicani, prima di rivolgere la furia dei suoi uomini contro i dragoni inglesi del colonnello Stapleton.


Jerome Ishida porta due spade, da Lilith 17 pag 25


L’autore dedica come sempre molta cura ai costumi storici, compresi naturalmente quelli dei samurai e dei soldati giapponesi. È corretto per esempio che i samurai portassero due spade, come vediamo fare al giovane Jerome Ishida, che prima di entrare in un locale deve quindi togliersi dalla cintura sia la spada corta detta wakisashi (quella che serviva tra l’altro per i suicidi rituali) che la lunga spada da combattimento chiamata katana, la stessa che poi userà per uccidere il mercante che insidia la sua innamorata.
Fin dalle prime pagine di questa storia possiamo inoltre ammirare anche la precisa ricostruzione di Enoch delle tipiche armature nipponiche, composte da placche snodate in cuoio e metallo fissate con corde e cordini sopra i vari punti del corpo, per proteggere dai colpi nemici senza ostacolare troppo i movimenti. 


Armatura e maschera giapponesi, da Lilith 17 pag 14



Il pettorale dell’armatura giapponese, detto haramaki, era stato inventato principalmente per proteggere i fanti, che portavano vere e proprie corazze. Ma anche i soldati a cavallo che vediamo qui indossano sul petto delle leggere protezioni a placche, mentre il loro comandante porta una più robusta corazza a piastre larghe.
L’avambraccio era protetto a sua volta da una manica aderente in cuoio detta kote, rivestita all’interno di seta e coperta da piastre metalliche, che arrivava a coprire la mano con un mezzo-guanto di cuoio chiamato tetsu-gai. Le parti basse del corpo erano invece protette da un gonnellino a piastre detto kasazuri. 


Maschera di guerra giapponese


Il volto del comandante giapponese è poi protetto per tutta la storia da un mempo, una maschera di guerra che copre naso e mento e che serviva sia a fissare meglio l’elmo alla testa sia a dare al guerriero un aspetto terrificante allo scopo di intimorire i nemici. Sono tipici anche i baffi di canapa attaccati alla maschera. 



Fante giapponese in armatura del  XIX secolo


Il tipico elmo giapponese chiamato kabuto proteggeva il retro del collo con una calotta di piastre rivettate, mentre ai lati erano fissate delle alette protettive dette fukigayeshi e il davanti del collo era protetto da una gorgiera chiamata nowdawa. Sulla fronte l’elmo poteva essere ornato da una cresta a forma di corna detta kasajirushi, ma in quello del comandante che appare su Lilith 17 questa è sostituita da delle grandi corna laterali vere e proprie, mentre nell’alloggiamento chiamato maidate a cui normalmente era fissata la cresta è qui inserito un ornamento a forma di svastica. E non è l’unica svastica che adorna il suo costume. 


Svastiche su un costume giapponese, da Lilith 17 pag 109


Vedere delle svastiche su costumi giapponesi può apparire inquietante ricordando l’alleanza che nipponici e nazisti strinsero nella Storia reale. In realtà sono tipici simboli orientali diffusi appunto dall’India al Giappone.

La svastica, come ogni croce, è un simbolo solare, ma quella nazista ha le braccia piegate a destra mentre quella che qui adorna i samurai le ha piegate a sinistra. In Oriente esistono entrambe, ma quella coi bracci orientati a sinistra è più comune. Rappresenta il sole che va verso Occidente nel senso naturale ed è simbolo del corretto ordine cosmico o del bene in generale, tanto da essere riprodotta anche su statue del Buddha. Quella dai bracci rivolti a destra è invece simbolo dello sconvolgimento dell’ordine naturale e quindi del caos, il ché, se ce ne fosse bisogno, getta una luce ancor più inquietante sul motivo che spinse Hitler a sceglierla. 

La svastica positiva su una statua del Buddha

Il vero Indipendence Rock nel Wyoming

Indipendence Rock, da Lilith17 pag 62

Su Lilith 17 appaiono anche le particolari formazioni rocciose che costellano la praterie attraversate dalla protagonista e dai suoi compagni, tra cui la grande roccia piatta di Indipendence Rock, realmente esistente, dove il gruppo si accampa a metà della storia. Su tale monolito tondeggiante si svolge un dialogo particolare tra Lilith e il capo dei Cardi, dialogo che l’autore nella sua introduzione definisce come “un episodio chiave” della serie. Una volta tanto infatti, Lilith decide di ascoltare fino alla fine ciò che il suo nemico ha da dirle… 

Il futuro genocidio compiuto dal Triacanto, da Lilith 17 pag 80


Stando a quanto dice il Cardo, il Triacanto che lui serve non sarebbe un parassita alieno ma un’emanazione naturale dello spirito della Terra, che si manifesta attraverso le forme vegetali come lui. La spiegazione poi che i Cardi danno delle loro azioni e del futuro genocidio ai danni della razza umana è che il fato delle anime che abitano in ogni cosa (in base a una concezione panpsichica o panteista che dir si voglia) sarebbe simile alle tesi degli antichi Ājīvika, gli “osservanti dello stile di vita”, una setta di asceti dell’India oggi scomparsa e slegata dall’adorazione di esseri divini. La loro dottrina fu attribuita a un saggio maestro, nato nel 484 a. C., chiamato in lingua pali Makkhala Gosāla ma il cui nome originale in sanscrito sarebbe stato Goshala Maskariputra o Maskarin Gosala, o secondo altre fonti Gosala Mankhaliputta o Manthaliputra Goshalak. 



Asceti indiani in una miniatura del XVII secolo


Gosāla sosteneva che le anime si reincarnano ma non come conseguenza delle proprie azioni, bensì in base a un destino prefissato e ineluttabile che dopo un periodo lunghissimo le porta automaticamente a liberarsi dal ciclo delle rinascite, perciò è preferibile rifuggire dalle azioni e cercare la quiete. Ma ciò che sappiamo delle sue idee è stato tramandato da testi di sette rivali e non è detto le abbiano riportate correttamente. 



Una statua di Mahavira nel Rajasthan


Tra l’altro i testi dei Jaina, una dottrina mistica ancora oggi diffusa in India, sostengono che Gosāla fosse amico o discepolo del loro profeta detto Mahāvīra (grande eroe), per cui alcuni scambiano gli Ājīvika per una setta jaina. In effetti le due dottrine avevano in comune l’idea che ogni elemento naturale, anche in apparenza inanimato, sia in realtà dotato di un’anima, proprio come dice il Cardo a Lilith. Anche la parola ājīva (stile di vita), da cui deriva il nome degli Ājīvika, è affine al termine a-jīva che nella dottrina jaina indica la materia del mondo fisico, secondo loro composta da infinite monadi viventi dette appunto jīva. 


Un cardo parla della dottrina Ajivika, da Lilith17 pag 82
 
Il Cardo sostiene quindi che nel massacrare fisicamente gli esseri umani del futuro, il Triacanto non li avrebbe davvero uccisi, ma ne avrebbe al contrario liberato le anime che, essendo ormai rimaste schiave di credenze limitate (quelle degli dei inventati e personificati a somiglianza dell’uomo, dei paradisi esclusivi solo per chi fa parte di certe sette, ecc.), non riuscivano più a reincarnarsi sotto altre forme ed erano vicine a dissolversi. Riportandole invece entro il ciclo naturale delle rinascite successive, le anime umane si sarebbero rafforzate così da sopravvivere ed evolversi fino a poter poi accedere a un livello di esistenza superiore…

Un dialogo così surreale ricorda il testo sacro induista del Bhagavad-gītā (il Canto del Beato), un capitolo del poema epico indiano Mahābhārata in cui il dio incarnato Kṛṣṇa conforta ed educa il nobile guerriero Arjuna, invitandolo a compiere il suo dovere e a prendere parte a una battaglia contro dei parenti, perché anche se li ucciderà le loro anime non morirebbero, ma sarebbero liberate dai corpi fisici per reincarnarsi in altre forme.


Krsna si manifesta ad Arjuna in un'illustrazione indiana  della Bhagavad-gita


Anche le tesi sostenute dal Cardo non danno importanza alla vita fisica, ma solo a quella dell’anima e alla sua (presunta) esistenza indipendente dal corpo. A ben vedere in entrambi i casi una tale filosofia può avere lati pericolosi, prestandosi a interpretazioni di comodo che potrebbero giungere fino a giustificare l’omicidio o le stragi, come fa appunto il Cardo. Kṛṣṇa invece esorta Arjuna ad affrontare un ben più equo e onorevole scontro ad armi pari e nella Bhagavad-gītā espone tali idee nell’ambito di una complessa concezione mistico-panteista molto più vasta e articolata, che sotto vari aspetti è anche alla base dei principi dello yoga.
Il fatto è che il concetto della reincarnazione, se non si comprende che è un simbolo mitico e lo si prende alla lettera, può essere tanto semplicistico e superficiale da essere abbinato, in culture come quella celtica o quella jainista dell’India, all’identificazione dell’anima con qualcosa di totalmente fisico (del cibo da ingerire o delle particelle di materia) e, a pensarci bene, solo così un’anima potrebbe uscire da un corpo per entrare in un altro, poiché ciò che non è materiale non può neanche essere contenuto e imprigionato in un corpo fisico. 
Per chi vive nel mondo reale potrebbe avere più senso, e convenire di più, considerare la reincarnazione un simbolo dell’evoluzione interiore che si può raggiungere col tempo accettando di cambiare in modo positivo, o anche dell’involuzione che si può subire accettando dei cambiamenti negativi. Ma nel mondo creato da Enoch per le storie di Lilith, le cose potrebbero stare esattamente come le ha raccontato il Cardo… 

Krsna e Arjuna in un dipinto indiano del XVIII secolo


Anche il dialogo tra Kṛṣṇa e Arjuna è leggibile simbolicamente, come un invito a vedere nel presunto mondo reale e nei suoi conflitti delle illusioni destinate a dissolversi e quindi a cercare di vivere serenamente ma con la necessaria decisione il proprio ruolo, liberamente scelto o inevitabile che sia. Arjuna, dopo aver ascoltato Kṛṣṇa, diventa infatti più deciso e molto più sicuro di sé riguardo alla necessità di assumersi il suo spiacevole compito di combattente e di portarlo avanti fino in fondo, senza preoccuparsi troppo delle conseguenze.

Invece Lilith, dopo aver ascoltato le parole del Cardo, rischia di perdere la certezza di essere nel giusto e che tutti gli omicidi che ha dovuto commettere per distruggere i parassiti alieni fossero necessari. Al contrario di Arjuna insomma non ha risolto affatto i suoi dubbi e si trova ancora più in imbarazzo di fronte a una scelta fondamentale per lei e per l’Umanità, non potendo essere più certa che la sua missione sia del tutto giusta.
Messa di fronte a scelte di campo opposte e contrastanti (continuare la lotta senza quartiere contro i Cardi e il Triacanto, rinunciarvi e astenersi dal combattere, o addirittura passare dalla loro parte), per la prima volta nella sua vita potrebbe sentirsi libera di decidere da sola come comportarsi, ma per sapere cosa sceglierà di fare, nella nostra realtà dovremo aspettare altri sei mesi e l’uscita dell’episodio conclusivo della serie. 




Lilith n. 17, novembre 2016. Disegno di Enoch




Lilith 17

IL GRANDE ORIENTE
Testi, disegni, copertina e rubriche: Luca Enoch
128 pagine in bianco e nero
Novembre 2016
Prezzo: € 4,00


Andrea Cantucci


N.B. Trovate i link alle altre recensioni bonelliane sul Giorno del Giudizio!

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