di Andrea Cantucci
1820-1950:
da L’Ultimo dei Mohicani a Sitting Bull... passando per The Lone Ranger
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The Last of the Mohicans. Illustrazione di N. C. Wyeth, 2013 |
Gli
Olandesi sbarcarono e dettero alla mia gente l’Acqua di Fuoco; essi
ne bevvero fino a quando il Cielo e la Terra parvero incontrarsi e da
sciocchi credettero di avere trovato il Grande Spirito. E allora si
separarono dalla propria terra.
dal
romanzo L’Ultimo dei Mohicani di James Fenimore Cooper (1826)
Fratelli!
A centinaia,
a
migliaia siamo morti.
E
quel che ci è stato tolto
nessuno
ci ha ridato.
Canto
degli Irochesi Mohawk
Dopo alcuni mesi di pausa (la XIX puntata, I Naufraghi del Tempo, risale infatti al marzo 2015), ripartiamo con l'attesissima rubrica "l'Angolo del Bonellide", dedicata dal nostro Andrea "Kant" Cantucci ai fumetti internazionali e italiani che hanno avuto nel Belpaese consacrazione editoriale nel formato "popolare bonelliano". In questo lunghissimo pezzo - denso di informazioni, riferimenti letterari e riccamente illustrato - iniziamo a raccontare come nei "western di carta" sia stata via via rappresentata in positivo, in modo dunque più conforme alla realtà storica, la nobile figura dell'Indiano d'America. (s.c. & f.m.)
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Johnny Depp (Tonto) e Armie Hammer (The Lone Ranger) nel film Dinsey del 2013 |
Da
metà ottobre 2015, col n. 37 della collana Cosmo Serie Gialla, l’Editoriale Cosmo ha iniziato a pubblicare in formato bonellide e
a colori quello che si può considerare un classico non solo del
western a fumetti, ma anche della narrativa pulp e della fiction
avventurosa in generale - ovvero Lone Ranger. Il Ranger Solitario
dalle pallottole d’argento dopo molti anni di oblio ritorna in
edicola anche in Italia, sulla scia del film del 2013 co-prodotto
dalla Disney e diretto da Gore Verbinski, che per la verità non ha
avuto molto successo neanche in patria ma che forse avrebbe meritato
miglior fortuna. E forse non è una coincidenza se la Cosmo ha fatto
uscire l’edizione italiana dei recenti fumetti di Lone Ranger
prodotti dalla Dynamite ad appena una decina di giorni di distanza
dalla prima visione TV di quel film, prevista su RaiDue proprio per
fine ottobre.
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Lone Ranger n. 1, Serie Gialla n. 37. Cosmo, ottobre 2015 |
Oltre
che uno dei primi eroi mascherati dei fumetti, Lone Ranger ha una sua
importanza storica anche per essere tra i primi personaggi ad aver
avuto per compagno d’avventure un Nativo Americano, rappresentato
sotto una luce del tutto positiva a dispetto del razzismo all’epoca
ancora imperante (la serie nacque negli anni ’30 del ‘900), anche
se il modo un po’ ingenuo in cui era fatto parlare perpetuava
ancora lo stereotipo del selvaggio buono ma ignorante, tanto da
finire per sollevare qualche protesta tra i veri indiani.
Da
parte sua la RW Edizioni dal febbraio 2015 sta facendo uscire in
edicola, sia pure con notevoli ritardi sulle date annunciate, la
miniserie di dieci albi in formato bonellide Buddy Longway, un
classico del fumetto belga opera di Claude de Ribeaupierre (in arte
Derib) che riguardo alla difesa della cultura degli Indiani d’America
va ben oltre, trattandosi in questo caso di un western risalente agli
anni ’70 del tutto politicamente corretto e molto spesso anzi quasi
più schierato dalla parte dei nativi che da quella dei coloni
bianchi.
In
passato i primi tre episodi di questa serie erano stati pubblicati in
Italia dalla Nuova Frontiera, che dal 1982 li propose nella collana
Winchester in un formato album a colori affine all’originale,
mentre i successivi furono pubblicati in parte dalla Comic Art nella
Collana Grandi Eroi dal 1986, in un’edizione altrettanto fedele.
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Buddy Longway n. 2 - Lineachiara Bedé n. 6. RW, marzo 2015 |
Questa
della RW, pur essendo in bianco e nero e in formato ridotto rispetto
all’originale, è un’edizione economica comunque apprezzabile per
qualità di stampa e fedeltà di traduzione. Il tratto espressivo ma
non eccessivamente dettagliato di Derib mantiene tutta la sua
efficacia anche in formato bonellide, mentre i colori originali, in
particolare dei primi episodi, non erano poi così pregevoli da farsi
rimpiangere più di tanto.
Inoltre
già i testi di Derib erano abbastanza sintetici e scritti con un
lettering piuttosto grande, cosicché anche nella versione ridotta
non va perduto assolutamente niente dei dialoghi originali. Chi
comunque preferisse avere un’edizione di Buddy Longway più fedele
all’originale con una spesa quasi altrettanto contenuta, non ha che
da attendere pochi mesi. Le stesse storie infatti dovrebbero uscire
anche nella Collana Western attualmente allegata alla Gazzetta dello
Sport tra novembre e gennaio 2015, sempre se sarà rispettato il
piano dell’opera. Del resto, visto che la RW in otto mesi è
riuscita a pubblicare solo cinque numeri di Buddy Longway, ci sono
anche serie probabilità che la Gazzetta possa far uscire tutti e
dieci i numeri della sua serie a colori settimanale ancora prima che
si concluda quella mensile in bianco e nero.
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Buddy Longway n. 3 su Collana Winchester n. 3. Nuova Frontiera, 1983 |
Il
nome Buddy in inglese vuol dire "amico", mentre il cognome Longway
significa letteralmente "lunga strada", come quella compiuta dai
personaggi nell’arco della loro vita nei venti album della serie
originale, realizzati dall’autore in oltre trent’anni, dal 1972
al 2006. La "lunga strada" è però anche quella compiuta in un arco di
tempo molto più lungo, praticamente di quasi un secolo, da quelle
storie, a fumetti o di altri media, che anziché rappresentare le
vittime di un genocidio come malvagi selvaggi, hanno scelto di
raccontare la cultura e le usanze dei popoli amerindi, o almeno il
punto di vista di chi pur difendendosi disperatamente e a volte
ferocemente dagli invasori fu destinato a soccombere, invece di
quello, molto più comodo ma ormai antiquato, che giustificava sempre
le arroganti violenze dei vincitori e condannava solo quelle dei
nativi.
1826-1908:
Libri in pelle rossa
Una
delle prime opere letterarie in cui si riconosce una certa dignità
ai nativi americani e si cominciano a fare per lo meno delle
distinzioni tra un indiano e l’altro, è il romanzo The Last of the
Mohicans (L’Ultimo dei Mohicani) di James Fenimore Cooper, uscito
nel 1826 ma ambientato nel 1757, durante la guerra anglo-francese dei
Sette Anni, in cui anche delle tribù indiane furono coinvolte in
quanto alleate dei due antagonisti. Per la trama e il nome
dell’ultimo mohicano lo scrittore si ispirò alla storia reale di
Uncas (La Volpe), il fondatore dei Mohegan nel XVII secolo. Così per
l’ultimo scelse lo stesso nome del primo e il fatto che la tribù
esistesse solo da un secolo spiega perché fossero così pochi da
essersi rapidamente estinti.
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Storico documento firmato da Uncas e dalla sua squaw (XVII secolo) |
In
realtà il protagonista principale del ciclo narrativo di cui fa
parte quel libro è il cacciatore bianco Natty Bumppo, chiamato dai
Mohicani tra cui è cresciuto coi soprannomi Occhio di Falco o Calza
di Cuoio e detto invece Lungo Fucile dagli Uroni. Ma i due comprimari
Chingachcoock e Uncas, gli ultimi Mohicani, sono rappresentati in
modo altrettanto positivo ed eroico, anche se non sono tanto
contrapposti a degli invasori bianchi quanto ad altri indiani loro
nemici, visti al contrario come del tutto malvagi e crudeli.
I
conflitti più o meno cruenti tra nazioni indiane furono una comune e
innegabile verità storica. Ciò che si può contestare allo
scrittore è l’idea che i Mohicani, o altri indiani di stirpe
Delaware, fossero tutti nobili e leali e i loro nemici Irochesi e
Uroni fossero tutti infidi e spietati come lui li descrive. In realtà
gli Irochesi ebbero una cultura raffinata e per molti aspetti più
civile di altre tribù, anche se è vero che erano battaglieri e i
guerrieri erano addestrati a combattere fin da piccoli. La cattiva
fama degli Irochesi forse derivava dal fatto che, nella successiva
Guerra d’Indipendenza, combatterono contro gli Americani al fianco
degli Inglesi. Ma i più “cattivi” per Cooper sarebbero gli
Uroni, apparentemente solo perché… nemici anche degli Inglesi.
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The Last of the Mohicans, di James Fenimore Cooper. Ed. Scribner, 1919 |
Se
nel romanzo si fa una certa confusione tra Irochesi e Uroni (in
realtà due confederazioni distinte e in feroce lotta tra loro), è
forse dovuto al fatto che fin dalle guerre del XVII secolo, in cui i
secondi furono in gran parte sterminati dai primi, gli Uroni fatti
prigionieri erano forzati a diventare Irochesi per rimpiazzare i
caduti. Uno di questi nemici adottati è appunto l’urone Magua, il
cattivo della storia, che avendo subito dagli Inglesi una dura
punizione disciplinare torna a parteggiare per i suoi fratelli Uroni
e per i Francesi loro alleati.
Tra
l’altro Cooper come idee era conservatore e in altri romanzi del
ciclo, ambientati prima e dopo gli eventi del libro L’Ultimo dei Mohicani,
chiarisce meglio il suo pensiero, auspicando di fatto l’inevitabile
sottomissione dei nativi a quella che lui considera la superiore
civiltà cristiana dei bianchi. Il suo romanzo più famoso fu per
fortuna molto meno ideologico e molto più avventuroso degli altri e
proprio questo ne sancì il successo.
Ma
l’elemento più interessante per il tema che ci interessa è la
storia d’amore tra il mohicano Uncas e la ragazza bianca Cora,
entrambi destinati a morire nel finale. Considerato che il romanzo
uscì all’inizio del XIX secolo sarebbe stato un significativo
passo in direzione antirazzista se un residuo di pregiudizi
dell’autore non gli facesse spiegare che Cora non è del tutto
bianca ma ha anche sangue indiano-caraibico, come se ai suoi occhi
ciò fosse necessario per rendere accettabile un sentimento tra la
ragazza e un indiano.
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The Last of the Mohicans - Classic Comics n. 4, 1942 |
Naturalmente
accanto alle trasposizioni cinematografiche de L’Ultimo dei
Mohicani, prodotte rispettivamente nel 1936, nel 1947, nel 1977 e nel
1992, non mancano le versioni a fumetti. La storia di Uncas apparve
innanzitutto sulla testata americana Classic Comics, poi ribattezzata
Classics Illustrated - sia nella prima serie in cui uscì nel 1942, sia
in altre successive come quella degli anni ’70 dell’editrice
Pendulum Press.
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L'Ultimo dei Mohicani, I Super-Comics Mensili n. 6. Nerbini, anni '50 |
La
prima versione a fumetti del romanzo di Cooper fu pubblicata anche in
Italia, insieme ad altri titoli della serie Classic Comics, sulla
collana I Super-Comics Mensili edita dalla Nerbini dal 1950.
Negli anni ’70 L’Ultimo dei Mohicani apparve anche in un volume
di una collana di classici a fumetti pubblicata in Spagna dalle
edizioni AFHA Internacional, mentre una versione italiana fu
illustrata da Ruggero Giovannini.
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L'Ultimo dei Mohicani, supplemento a Il Giornalino (1993) |
Tra
le successive edizioni a fumetti di The Last of the Mohicans si può
citare quella di Jack Jackson, uscita sui Classici della Dark Horse
nel 1992 in contemporanea al fim di Micheal Mann interpretato da
Daniel Day-Lewis, pur senza esserne un adattamento. Ma come accaduto
più volte sullo schermo, neanche le riduzioni disegnate sono sempre
fedeli al romanzo. In una versione degli anni ‘90 realizzata da
Fabio e Stelio Fenzo per il Giornalino tra l’altro si è voluta
risparmiare ai giovani lettori la straziante morte della bella Cora,
che qui nel finale è solo ferita lievemente. Più recente è la
versione in sei albi scritta da Roy Thomas e pubblicata dalla Marvel
nel 2007, che si rifà al film di Mann del 1992 soprattutto
nell’aspetto di Occhio di Falco.
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The Last of the Mohicans. Dark Horse, 1992 |
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The Last of the Mohicans nn. 1 e 6. Marvel, 2007 |
Nel
1855 fu la pubblicazione del poema di Henry Wadsworth Longfellow
intitolato The Song of Hiawatha (Il Canto di Hiawatha) a definire una
volta per tutte il mito del buon selvaggio, raffigurando un eroe
indiano del tutto nobile e positivo e provocando reazioni
scandalizzate da parte dei critici più razzisti. I versi usati dal
poeta sono tetrametri trocaici (versi di otto sillabe divisi in
quattro parti omogenee), il cui andamento salmodiante e monotono
tenta di riprodurre quello dell’oratoria e dei canti indiani... senza
riuscirci più di tanto.
La
storia narrata da Longfellow è vagamente e liberamente ispirata a
miti e leggende degli indiani Ojibway (o Chippewa), mischiati con
quelli dei Sacs e dei Fox, cioè i soli con cui l’autore ebbe
qualche breve contatto.
L’eroe
di cui racconta la vita è un essere semidivino: sua madre è
generata da una donna caduta dalla Luna, suo padre è il Vento
dell’Ovest e la sua venuta è annunciata dal dio Gitche Manito (che
da allora per i bianchi sarà sinonimo del Grande Spirito di tutti
gli indiani, anche se il termine era usato solo in lingua
algonchina).
Secondo
l’autore Hiawatha si identificherebbe con un eroe leggendario degli
Ojibway noto come Manabozho, tipica figura di trasformista burlone (o
trickster), di cui gli aspetti più pesanti, dispettosi, violenti o
scurrili sono stati qui censurati. Ma in realtà il nome Hiawatha non
ha nulla a che fare con tale personaggio, essendo invece quello di un
famoso capo irochese davvero esistito nel XVI secolo e noto anche
come Hanyewatha.
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Illustrazione di Remington per Il Canto di Hiawatha, edizione 1890 |
Il
vero Hiawatha apparteneva in origine alla nazione Onondaga, da cui fu
esiliato dopo essere stato sconfitto da un rivale. Tra i Mohawk, la
nazione di sua madre, conobbe e divenne discepolo di un altro esule
da loro accolto, il profeta urone pacifista Dekanawidah, che non
parlando bene la lingua locale usò Hiawatha come portavoce. I due
divennero così gli artefici della Grande Pace tra Oneida, Mohawk,
Cayuga, Seneca e Onondaga, riuscendo a unirli nella Grande Lega
Irochese delle Cinque Nazioni e a dare loro una legge comune. In base
a tale legislazione il consiglio dei capi irochese si divideva in due
rami costituiti dai rappresentanti di due nazioni ciascuno e si
affidava ai Custodi del Fuoco della quinta nazione per decidere sulle
questioni più ardue e incerte. Quelle norme due secoli dopo
avrebbero ispirato alcuni dei principi della Costituzione degli Stati
Uniti, che ancora regolano i rapporti tra i due rami del Congresso e
la Corte Suprema.
Ma
fu solo per equivoco, essendosi basato su testi poco affidabili, che
Longfellow fece confusione tra il leggendario statista irochese e il
totalmente mitico eroe dei Chippewa, usando il nome del primo per
indicare il secondo. Tra l’altro è anche molto probabile che le
imprese attribuite all’eroe del poema, come la scoperta del mais e
l’invenzione della scrittura, nelle leggende originarie fossero
compiute da vari personaggi distinti.
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Morte di Minehaha del pittore William de Leftwich Dodge (1885) |
Insomma,
nel Canto di Hiawatha i contenuti nascono più da costruzione
letteraria che da fedeli trasposizioni di storie indiane. Tutto è
filtrato in chiave romantica ed edulcorata e nel nobile selvaggio non
resta granché di selvaggio... Così l’eroe non può che
innamorarsi di una bella ragazza, Minnehaha (Acqua Ridente) che
naturalmente appartiene a un popolo nemico. Nonostante ciò Hiawatha
la ottiene in sposa, ma solo per poi vederla morire di malattia. Dopo
quella di Uncas, anche la triste sorte di Minnehaha suscitò
compassione, iniziando a far simpatizzare i più sensibili col
destino altrettanto tragico degli Indiani. Tale fu la sua fama che
tra l’altro da Minnehaha derivò il nome Minne o Minnie, oggi noto
come quello dell’amica di Mickey Mouse.
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Hiawatha da piccolo. Illustrazione di M. L. Kirk, 1910 |
Dopo
aver rappresentato la cultura indiana in modo un po’ melenso e fin
troppo accomodante, Longfellow chiude bruscamente la sua storia con
l’arrivo dei primi missionari cristiani. Prima di andarsene per
sempre l’eroe “pagano” Hiawatha invita il suo popolo a
convertirsi alle loro idee in un finale abbastanza ipocrita e
bigotto, che lascia capire come anche secondo questo autore i buoni
indiani siano solo quelli che accettano supinamente di sottomettersi
alla presuntuosa arroganza della religione e della cosiddetta civiltà
dei Bianchi, in poche parole di lasciarsi addomesticare… Il poema
ha comunque il merito di aver diffuso l’idea che vivere a stretto
contatto con la natura, come facevano i Nativi Americani, non è
affatto una cosa disprezzabile.
Del
Canto di Hiawatha sono state realizzate molte versioni illustrate,
tra cui spicca quella del grande pittore Frederic Remington, che con
la sua conoscenza dei veri Indiani conferì alle scene descritte un
realismo e una verosimiglianza storica che difficilmente sarebbero
stati evocati dalla sola lettura del testo scritto. Più leziose, ma
comunque affascinanti, furono le illustrazioni a colori realizzate
nel 1910 dall’illustratore M. L. Kirk.
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Hiawatha inventa la scrittura. Illustrazione di M. L. Kirk, 1910 |
Dato
il suo successo, il poema di Longfellow non ispirò solo illustratori
ma anche artisti di altro genere. Vari musicisti dedicarono delle
loro opere a Hiawatha e Minnehaha e diversi pittori e scultori fecero
lo stesso.
Oltre
alle versioni a fumetti tratte dal Canto di Hiawatha, come quella dei
soliti Classics Illustrated, la parte sull’infanzia del futuro
eroe, in cui questi è educato dalla nonna a vivere in armonia con
gli animali, influenzò in seguito il mondo dei cartoon e dei
fumetti ispirando vari personaggi simili, a volte anche nel nome.
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The Song of Hiawatha. Classics Illustrated n. 57 |
Il
primo piccolo indiano ad apparire anche da noi fu appunto il
disneyano Little Hiawatha (noto in Italia come Penna Bianca), che
dall'omonimo cartone animato uscito nel 1937 passò a essere
protagonista di tavole a fumetti nel 1940 e a cui nei decenni
successivi sarebbero seguiti molti altri piccoli nativi americani di
autori di vari paesi. Ma il nome Hiawatha, essendo storico, non
poteva essere soggetto a nessun copyright e ciò permise agli studios
concorrenti della Warner di rispondere nel 1941 con un cartone
animato intitolato La Caccia al Coniglio di Hiawatha, in cui un ancor
più bellicoso piccolo indiano incontrava Bugs Bunny.
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Little Hiawatha. Sunday page, 1940 |
Qualche
anno dopo anche Rinaldo Dami e Mario Faustinelli scrissero una loro
versione a fumetti del piccolo Hayawatha (nome appena modificato per
essere leggibile in italiano), che stavolta apparteneva a un bambino cherokee figlio di un capo, sempre molto amico degli animali. Questo
Hayawatha uscì sul Corriere dei Piccoli dal 1957, prima disegnato da
Carlo Porciani e poi da Antonio Canale, con stile oscillante tra il
realismo di sfondi e personaggi adulti e un certo umorismo nei tratti
dei bambini e degli animaletti della foresta.
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Hayawatha di D'Ami e Canale. Edizione francese del 1960 |
Le
prime storie dell’Hayawatha italiano sono prive di balloon e
narrate con lunghe didascalie. L’impostazione è molto fiabesca e
come l’eroe omonimo nel poema di Longfellow anche questo piccolo
indiano fa amicizia con una principessa di una tribù nemica, nel suo
caso la piccola Sooray, figlia di un capo delaware.
Pubblicato
anche in Francia e Germania, il personaggio di Hayawatha negli anni
’60 fu ripreso dallo scrittore Luigi Grecchi e dal disegnatore
argentino Carlos Roume, in storie coi balloon e dallo stile
completamente realistico, che proseguirono in appendice ad altre
testate per ragazzi come gli Albi di Tom & Jerry. In questa
versione il “piccolo sakem”, ora un po’ cresciuto, vive
avventure a contatto col mondo dei Bianchi insieme alla sorella
maggiore Shenandoah e all’amico sceriffo Lyman, in un West dell’800
successivo di vari secoli rispetto all’ambientazione sia del poema
di Longfellow, sia della vita del vero Hiawatha.
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Hayawatha di Grecchi e Roume |
Curiosamente
a scrivere per primo una vera e propria serie di romanzi con
protagonista principale un nativo americano non fu un autore del Nuovo Mondo ma un tedesco, lo scrittore Karl May. In uno dei suoi
libri nel 1878 apparve il nobile pellerossa Winnetou, che diventerà
il suo personaggio più famoso. All’inizio è un comprimario al
fianco dell’eroe originale delle storie, l’avventuriero bianco
Old Shatterhand, che diventa suo fratello di sangue e suo cognato. Fu
nel 1893 che l’autore dedicò tre libri a Winnetou, elevandolo a
protagonista, dopo aver cercato di documentarsi come meglio poteva
sugli usi e costumi degli Indiani d’America. Il suo eroe, dopo
l’uccisione del padre e della sorella da parte di un bandito
bianco, diventa prima capo degli Apache Mescalero e poi di tutte le
tribù apache e navajo. Giustamente May fa il possibile per
descrivere quei popoli con esattezza, ma all’epoca i testi sui
Nativi Americani erano scarsi e poco precisi.
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Winnetou, primo romanzo della serie di Karl may (1893) |
Così
l’apache Winnetou porta abiti e acconciature elaborati abbastanza
distanti dai veri costumi del suo popolo. Più coerente era il fatto
che usasse un fucile coperto di borchie d’argento. Gli Indiani
aggiungevano davvero borchie simili sui fucili venduti loro dai Bianchi, ma di solito solo sul calcio e non su tutta la canna come
nel caso di Winnetou. In ogni caso, nonostante varie imprecisioni o
“licenze letterarie”, in Germania i libri di May furono
considerati a lungo quanto di più preciso si potesse leggere sugli
Indiani d’America.
In
realtà pare che la psicologia dei personaggi di questa saga,
permeata di epica e valori cristiani, abbia più a che fare con
archetipi germanici che con la cultura nativa americana, tanto che
nel terzo libro, prima di morire, Winnetou sembra praticamente
convertirsi al Cristianesimo. Anche May cadrebbe così nella solita
trappola dei popoli coloniali… giudicare degne le altre culture
purché si sottomettano in qualche modo alla propria. Sarà forse
anche per questo, oltre che per la loro enorme popolarità, che i
romanzi di Winnetou non furono banditi durante il Nazismo, nonostante
fosse chiaro che l’eroe delle storie non era per niente ariano...
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Winnetou (Pierre Brice) e Old Shatterhand (Lex Barker) al cinema |
Dal
1962 al 1968 le storie di Winnetou furono trasposte in una serie di
film di produzione tedesco-yugoslava, con l’attore francese Pierre
Brice nel ruolo del capo apache e Lex Barker in quello di Old
Shatterhand. Data la fortuna che le pellicole ebbero, subito
apparvero in Germania e Olanda varie versioni a fumetti di Winnetou,
che divenne così uno dei pochi eroi popolari all’interno della
scarsa produzione tedesca di comic.
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Winnetou n. 6, di Helmut Nickel |
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Winnetou di Juan Arranz |
Essendo
ormai scaduti i diritti d’autore, non ci fu una sola serie a
fumetti ufficiale di Winnetou ma varie allo stesso tempo. Una fu
prodotta da Walter Neugerbauer per l’editrice Kauka; un’altra fu
disegnata da Juan Arranz degli Studios Vandersteen, con uno stile che
poteva ricordare vagamente quello dei contemporanei fumetti western
italiani sul tipo di Tex; ma i migliori per qualità dei disegni e
aderenza ai romanzi originali furono gli albi di Winnetou realizzati
da Helmut Nickel e pubblicati da Lehning Verlag nel 1963.
In
Italia non è mai stata tradotta nessuna delle serie a fumetti di
Winnetou, ma chi era bambino negli anni ’70 potrebbe ricordarsi di
un suo bambolotto della linea Big Jim della Mattel che era venduto
anche da noi, anche se nei paesi come il nostro in cui il personaggio
non era conosciuto fu ribattezzato Geronimo…
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Winnetou, l'action figure Mattel degli anni '70 |
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Sulle Frontiere del Far West, di Salgari. Copertina di Alberto Della Valle. Prima edizione Bemporad, 1908 |
Se
i costumi indiani descritti da Karl May non erano del tutto
attendibili, la ricostruzione delle guerre indiane fatta dal nostro
Emilio Salgari, coi romanzi Sulle Frontiere del Far West, La
Scotennatrice e Le Selve Ardenti, usciti tra il 1908 e il 1910, fu
ben più fantasiosa e piena di svarioni, sia dal punto di vista
storico che da quello degli usi indiani. Fantasiose invenzioni e
approssimazioni erano del resto comunissime nella letteratura
popolare dell’epoca e all’autore interessavano più gli effetti
drammatici che la precisione storica.
Nei
libri di Salgari per esempio ci sono due donne guerriere figlie una
dell’altra (di cui la seconda si chiama Minnehaha come il
personaggio di Longfellow) che hanno entrambe la carica di sakem,
cosa molto difficile dato il ruolo subordinato riservato alle donne
nella cultura indiana. Esse inoltre comandano sugli indiani Corvi ma
sono moglie e figlia di un capo sioux, mentre nella realtà le due
nazioni erano acerrime nemiche.
Nel volume
La Scotennatrice, dopo i massacri compiuti dall’esercito in vari
villaggi (come quelli sul Sand Creek e sul fiume Washita, episodi
questi realmente storici) Salgari dice addirittura che tutti gli Indiani delle Praterie si alleano contro gli invasori bianchi, anche
le nazioni nemiche, dai Sioux ai Comanche e dai Kiowa agli Apache,
una cosa mai successa e che se fosse avvenuta avrebbe forse potuto
alterare un po’ la Storia (nella realtà ci fu sì una spontanea
alleanza, ma solo tra Sioux, Cheyenne e Arapaho, ovvero nazioni che
erano già amiche).
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La scotennatrice di Salgari. Illustrazione di Alberto Della Valle. Prima edizione Bemporad, 1909 |
È
poi errata la descrizione di Toro Seduto come un feroce guerriero che
divora il cuore di Custer dopo averlo ucciso, idea esagerata e fuori
luogo poiché il vero Tatanka Yotanka era un uomo sacro e poco
sanguinario.
In
realtà a Little Big Horn Toro Seduto non prese neanche parte
direttamente al combattimento, essendo debilitato da un estenuante
rito della Danza del Sole compiuto poco prima. Forse il falso
episodio, che Salgari riportava dandolo per storico, potrebbe essere
derivato da una qualche confusione tra Toro Seduto e suo nipote Toro
Bianco, che era effettivamente convinto di essere colui che aveva
ucciso Custer.
Salgari
comunque non considera gratuito lo scatenarsi dei Pellerossa, ma lo
spiega appunto col fatto che fossero stati sempre più irritati dalle
prepotenze e brutalità compiute contro di loro dai coloni e dai
soldati bianchi, una posizione quasi filo-indiana in anticipo sui
tempi e storicamente non molto lontana dal vero.
In
fondo non stupisce che il creatore di Sandokan sapesse capire le
ragioni dei popoli indigeni contro i loro colonizzatori.
Rappresentando gli Indiani come fieri e bellicosi guerrieri che
difendono con le armi le loro terre e non come edulcorati “buoni
selvaggi” pronti a sottomettersi alla cultura degli invasori, lo
scrittore italiano ne dette un’immagine tutto sommato più
rispettosa, benché esagerata e inverosimile in certi dettagli.
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Ulceda di Guido Moroni Celsi, 1935 |
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Ulceda, 1935. Striscia originale (collezione privata) |
Ma
verosimili o no, data la popolarità dei libri di Salgari, il fumetto
western italiano non poteva che iniziare ispirandosi questa sua
trilogia, anche se sul giornale di Mondadori I Tre Porcellini, dove
uscì nel 1935 coi disegni di Guido Moroni Celsi, la prima parte fu
rimaneggiata e il titolo cambiato in Ulceda Figlia del Gran Falco
della Prateria. Così il West disegnato esordì in Italia col nome di
una principessa indiana, che comunque non è l’eroina della storia,
visto che un unico protagonista non c’è. Nei romanzi di Salgari a
interagire con gli Indiani erano vari avventurieri americani, in
particolare il colonnello Devandel, i suoi figli Harry e Giorgio e
l’agente indiano John Maxim - quasi un’anticipazione dei quattro
pard delle storie di Tex - ma nella storia di Ulceda, data l’epoca
autarchica, furono sostituiti da due italiani emigrati nel Brasile,
Vittorio e Vico, che alla fine (salpando da Galveston!) tornano nell’Italia rinnovata
su una nave abbastanza moderna da far pensare che la storia sia stata
trasferita nel presente, come se negli anni ’30 fossero ancora in
atto le Guerre Indiane…
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Ulceda, Figlia del Gran Falco della Prateria. Albi di Avventure nn. 5, 6 e 7. API, 1939 (immagini tratte dal sito Collezionismo Fumetti) |
Il
racconto di Ulceda, ristampato nel 1939 dalle edizioni API in tre
numeri della collana Albi di Avventure, fu poi proseguito sul periodico L’Audace
e su Topolino da Rino Albertarelli - questa volta con i titoli dei
romanzi originali.
Nel Dopoguerra, mentre Mondadori ristampava Ulceda sul n°16 degli Albi
d’Oro, un’altra versione delle stesse storie molto più fedele ai
romanzi fu disegnata da Walter Molino tra il 1946 e il 1949 sul
giornale Salgari dell’editrice Egla, che dopo averla pubblicata a
puntate la ristampò nel 1952 raccogliendola sulla seconda serie
della collana Albi Salgari, a partire dall’adattamento del romanzo
Sulle Frontiere del Far West.
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Sulle Frontiere del Far West su Salgari n. 1, Editrice Egla, 1946 |
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Sulle Frontiere del Far West, di W. Molino. Collana Albi Salgari, 2a serie, n. 1. Editrice Egla, 1952 |
1907-1936:
Piccoli guerrieri crescono
Passando
ai fumetti statunitensi dei primi del XX secolo, quella che si può
considerare la prima serie politicamente corretta sulla cultura degli
Indiani d'America, una totale eccezione per i tempi, fu Little
Growling Bird in Windego Land (Il Piccolo Uccello Ringhiante nella
Terra dei Windego), realizzata da S.N.T. Crichton nel 1907,
pubblicata da un giornale di Chicago in tavole settimanali e
incentrata sull'amicizia tra il bambino indiano del titolo e una
bimba bianca di nome Fanny. Questa, dopo essersi smarrita, è salvata e
accolta da una pacifica tribù di indiani Ojibwa-Annishanabe, che la
ribattezza Chioma Gialla e la introduce ai suoi usi e costumi, alle
sue leggende - come quella dei terribili spiriti Windego - e soprattutto
al dialogo e all’amicizia con gli animali protettori della tribù,
il tutto descritto con leggerezza favolistica e accuratezza quasi
antropologica. Nell’ultima tavola il padre di Fanny la ritrova e
convince la madre di Growling Bird a lasciar loro portar via il suo
piccolo amico indiano, per farlo studiare insieme a lei in una scuola
dei Bianchi.
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Little Growling Bird in Windego Land, 1907 |
Se
tutta la serie di Crichton è senz’altro animata dalla migliori
intenzioni, il finale è una nota stonata a cui rimedia parzialmente
il fatto che i due ragazzini restino uniti e il pianto disperato
della madre che vede partire il suo figlioletto, una situazione in
quegli anni comune a molte donne indiane delle riserve. I primi del
‘900 erano infatti l’epoca in cui alcuni antropologi iniziavano a
denunciare la politica di distruzione etnica e culturale ai danni
degli Indiani perpetrata dal governo americano, che obbligandoli a
mandare i figli in scuole lontane dalle riserve li forzava a
integrarsi in una società a loro estranea, da cui spesso erano poi
respinti per il diffuso razzismo. Molti indiani iniziarono così a
rifugiarsi nell’alcolismo o nel culto di un fungo allucinogeno, il
peyotl, per dimenticare la sconfitta dei loro padri e la loro vita
miserabile. Intanto, tra gli anni ’10 e gli anni ’30, cominciavano
a nascere delle associazioni proprio per preservare la cultura
indiana, un’esigenza in qualche modo anticipata dalla storia a
fumetti di Little Growling Bird che restò a lungo unica nel suo
genere.
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Una spilla d'epoca di Little Growling Bird |
In
genere gli indiani dei fumetti della prima metà del XX secolo,
quando non erano rappresentati come malvagi selvaggi sanguinari,
erano relegati a ruoli subalterni, al massimo spalle del
protagonista di turno. Ma a volte poteva anche capitare che la spalla
finisse prima o poi per diventare titolare di una propria serie,
un’evenienza che si verificò innanzitutto non in un fumetto
statunitense ma in una strip sudamericana.
Nella
serie di strisce Las Aventuras de Don Gil Contento, pubblicata in
Argentina dal 1927 sul quotidiano Crìtica, il disegnatore Dante Raùl
Quinterno introdusse l’anno seguente un forzuto indio della
Patagonia chiamato inizialmente Curugua Curigüaguigua e rapidamente
ribattezzato col più semplice nome di Patoruzù.
Patoruzù
era l’ultimo capo del popolo Tehuelche e nel 1930 l’autore lo
riutilizzò nuovamente in un’altra sua striscia, Don Julián de
Monte Pío, che usciva sul quotidiano La Razòn e di cui l’indio
patagone divenne ben presto il protagonista assoluto, tanto che meno
di un anno dopo la serie prese il suo nome.
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Patoruzù di Dante Quinterno. Anni '30 |
Il
successo della sua nuova strip permise a Quinterno di fondare una
società di distribuzione sul modello delle agenzie statunitensi,
così dal 1935 Patoruzù passò sul giornale El Mundo apparendo anche
in tavole a colori sulla rivista Mundo Argentino, e dal 1936 gli fu
dedicata una testata inizialmente settimanale che rivoluzionò il fumetto locale e che in quarant’anni avrebbe superato i duemila
numeri usciti.
L’indio
di Quinterno divenne in breve uno degli eroi disegnati più popolari
in Argentina e in tutto il Sud-America, mentre l’ex protagonista Don Juliàn fu sostituito da un altro playboy altrettanto vanesio e
indolente, Isidoro Cañones, dedito alla vita di città. Patoruzù
preferisce invece la vita rude nella tenuta dove abita con la
governante Chacha e il caposquadra Ñancul e, in sella al suo
velocissimo cavallo Pampero, si oppone alle ingiustizie rivendicando
con fierezza le sue origini etniche mentre invoca i suoi antenati per
far aumentare la propria forza. Questa gli deriva anche dall’essersi
cibato da piccolo con la zuppa delle ossa di un gigantesco animale
estinto ed è in seguito accresciuta da un piffero magico donatogli
da un capotribù nordamericano.
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Patoruzù |
Anticipando
di poco Braccio di Ferro, Patoruzù inaugurò il tipo dell’eroe
forzuto generoso e manesco, dalla mentalità elementare ma pratica, e
nel 1942 divenne anche protagonista del primo cartone animato a
colori argentino insieme al suo fratello minore Upa. Oltre
all’origine in parte magica della sua forza, proprio la presenza al
suo fianco di Upa, più grosso e ancor più forte di lui ma più
ingenuo, che usa come arma la propria pancia, ne fa in qualche modo
anche un precursore di Asterix. Ma a differenza dell’eroe gallico,
Patoruzù non dà giudizi storici, non si oppone agli invasori
bianchi, né denuncia le condizioni degli Indios sottomessi ed
emarginati, perciò in anni recenti è stato accusato d’essere un
personaggio reazionario, anche per la sua carica di capo ereditario.
Comunque Patoruzù si dà da fare generosamente per aiutare gli altri
e per migliorare le cose e forse l’assenza di nette prese di
posizione contribuì alla sua affermazione, permettendo a tanti
argentini di identificarsi con un indio come incarnazione originaria
e autentica del paese.
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Patoruzito settimanale |
All’epoca
si identificavano coi fumetti soprattutto i ragazzi e riscosse
altrettanto successo anche Patoruzito, la versione infantile di
Patoruzù scritta da Mirco Repetto e disegnata da Tulio Lovato, che
dal 1945 uscì in una sua testata settimanale su cui furono ospitati
altri importanti fumetti locali e stranieri. Compagni di avventure di
Patoruzito sono il cavallino Pamperito e Isidorito, cioè
rispettivamente Pampero e Isidoro da piccoli.
Sarà
forse un caso che la serie di Patoruzù si interruppe proprio nel
1977, cioè nel periodo in cui dopo la definitiva estromissione di
Peròn, aveva da poco assunto il potere in Argentina una delle
peggiori forme di dittatura militare di destra. Può anche darsi che
i militari fascisti, notoriamente privi di umorismo, non tollerassero
che si raffigurasse come un eroe, ancorché buffo, un appartenente a
una minoranza etnica. Ma il personaggio non è scomparso del tutto.
Dopo essere apparso al pari della sua controparte adulta in ogni
sorta di merchandising, dal 2004 Patoruzito è stato trasposto in una serie di
fortunati lungometraggi a cartoni animati di produzione locale, di
cui il primo in Argentina ha avuto più successo dei film con Shrek o
Spider-Man.
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Patoruzito, nel film del 2004 |
Mentre
in Sud-America un eroe nativo, per quanto semplice e bonario,
otteneva tanta considerazione, un paio di esempi più o meno
contemporanei ma più effimeri di strip statunitensi dedicate a
personaggi indiani dimostrarono che invece nel nord del continente i
tempi, o il pubblico, non erano ancora abbastanza maturi.
Nel
1933 le tavole della serie White Boy (Ragazzo Bianco), creata con
stile raffinato e originale dal disegnatore Garrett Price, furono
incentrate sull’amicizia tra un ragazzo bianco e una sua coetanea
indiana di nome Chickadee, appartenente alla tribù che lo ha
catturato. Nella prima tavola il capotribù risparmia il ragazzo per
farlo adottare da una vedova, il cui figlio era stato ucciso da un
bianco. Affidare un prigioniero o un ospite a una donna sola perché
la aiutasse era prassi comune in molte tribù indiane (anche la
piccola Fanny era stata affidata alla madre vedova di Growling Bird),
ma è l’idea di dover rimediare all’uccisione di un indiano da
parte di un altro bianco che comporta un notevole rovesciamento di
ottica per quei tempi.
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White Boy, 1a tavola, 1933 |
In
seguito in White Boy si succedono episodi dedicati alla vita del
villaggio, come un furto di cavalli da parte di una tribù nemica. Al
ragazzo bianco e a Chickadee si unisce poi un esploratore di nome Dan
Brown, mentre il principale personaggio negativo è una donna bianca
detta La Regina della Luna, che tiranneggia gli Indiani ed è
protetta da belve feroci. Tale figura romanzesca, che sia
voluto o meno, potrebbe essere interpretata come una metafora di
quelle ditte e di quei coloni americani che negli anni ’30
sfruttavano ogni materia prima dei territori indiani a spese dei
nativi, con la protezione dell’esercito e la connivenza degli
agenti governativi. Le condizioni di vita degli Indiani erano ormai
diventate così gravi che, per tentare di porvi rimedio, nel 1934
l’amministrazione Roosevelt fece approvare l’Indian
Reorganization Act, con cui per la prima volta si concedeva alle
tribù d’avere voce in capitolo sulla gestione delle riserve in cui
vivevano.
Intanto
per qualche motivo, forse perché gli editori dei giornali non
volevano toccare certe spinose questioni o forse solo per tentare di
avere più successo, il fumetto disegnato da Price mutò impostazione
nel 1935, abbandonando del tutto i temi indiani, cambiando nome in
Skull Valley e spostandosi in anni contemporanei mentre il ragazzo
prese il nome di Bob White... ma ciò non impedì la soppressione della
serie l’anno seguente.
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White Boy di Garrett Price |
È
in parte un po’ più simile a Patoruzù il piccolo e battagliero
pellerossa Big Chief Wahoo (Gran Capo Wahoo), ideato da Allen
Saunders e Elmer Woggon come comprimario di una strip che nelle loro
intenzioni doveva essere incentrata su un tipico ciarlatano da
strada, The Great Gusto (Il Grande Gusto), ma l’agenzia che la
distribuiva preferì invece intitolare la serie all’amico indiano
che gli faceva inizialmente da assistente.
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Big Chief Wahoo, di Saunders e Woggon |
Wahoo
esordì così come protagonista nel 1936, mentre Gusto rimase
provvisoriamente tra i comprimari insieme alla procace principessa
Minnie-Ha-Cha (chiara parodia di Minnehaha), a una vivace bambina con
le trecce di nome Pigtails (Codine) e al pigro indiano Mooseface
(Faccia d’Alce), incarnazione dell’idea un po’ razzista del
nativo scansafatiche e ingenuo che non capisce nulla delle diavolerie
moderne dei bianchi.
Come
quelle di Patoruzù, anche le storie di Big Chief Wahoo erano
ambientate nel presente. Dal punto di vista grafico passarono da uno
stile iniziale estremamente semplice, vagamente affine a quello di
Elzie C. Segar, a un disegno che si fece gradualmente sempre più
caricaturale con evidenti influenze da Al Capp.
Wahoo
era un indiano diventato ricco trovando il petrolio nella sua terra,
cosa accaduta davvero nei territori di alcune tribù, come Apaches
Jicarillas, Utes e Navajos, anche se nella realtà di quegli anni le
imprese che sfruttavano i giacimenti delle riserve, sia petroliferi
che di altro genere, lasciavano ai nativi solo delle briciole. Ma
almeno nelle storie di Wahoo le cose a volte potevano andare
diversamente poiché, caso raro nei fumetti dell’epoca, il piccolo
capo si impegnava anche nel difendere i diritti della sua gente a
spese dei Bianchi.
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Big Chief Wahoo n. 3. Eastern Color, 1943 |
In
effetti tra gli anni ’30 e ‘40 gli USA stavano mostrando più
sensibilità verso i problemi degli Indiani delle riserve e tra il
1942 e il 1943 a Big Chief Wahoo furono anche dedicati sette albi
dell’editrice Eastern Color. Ma a fine anni ’40 il governo
avrebbe fatto marcia indietro, riprendendo la solita politica di
espropri ai danni dei Nativi Americani. Nello stesso periodo anche
Wahoo perse per così dire il proprio territorio, ovvero la sua
strip, poiché fu soppiantato a sua volta da un personaggio più
realistico, il giornalista bianco Steve Roper.
Quando
Steve Roper fu introdotto, nel 1940, storie e disegni cominciarono a
farsi più seri. Col tempo questo reporter investigatore acquistò
sempre più importanza e dal ‘44 iniziò a dividere con Wahoo il
nome nel titolo, restando l’unico protagonista nel 1947 quando il
capo indiano sparì definitivamente dalla striscia.
Questi
primi personaggi nativi americani dei fumetti restarono, e restano
tuttora, del tutto inediti in Italia. All' inizio degli anni ’40
apparvero invece anche in edizione italiana un paio di fumetti con
protagonisti e comprimari indiani come il già citato Little Hiawatha
e soprattutto The Lone Ranger (Il Ranger Solitario).
1938-1949:
Un indiano per amico
Nonostante
il nome di Ranger Solitario, il famoso pistolero mascherato nato in
un programma radiofonico del 1933 a cura del produttore George W.
Trendle, dello scrittore Francis H. Striker e del direttore James
Jewell, proprio solitario non è, visto che dall’undicesimo
episodio, dopo meno di un mese di programmazione, gli fu stabilmente
affiancato un amico indiano, semplicemente perché serviva un
personaggio con cui farlo parlare.
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The Lone Ranger negli anni della radio... |
Il
pard di Lone Ranger, a parte il fatto di parlare un inglese un po’
stentato, era rappresentato con relativo rispetto e dignità, cosa
all’epoca non così comune verso i Nativi Americani, né nei media
né nella realtà, e ciò a dispetto di un nome davvero imbarazzante,
Tonto, che anche in spagnolo ha lo stesso significato offensivo
dell’Italiano. Evidentemente gli autori ne avevano scelto il nome
senza sapere bene che cosa significasse.
È
possibile che il nome Tonto fosse stato ispirato da quello della
località dell’Arizona Tonto Basin (bacino dei Tonto) a sua volta
derivato dalla tribù degli Apaches Tontos. Infatti tra i locali
Nativi Americani tale parola spagnola aveva perduto il suo senso
spregiativo, avendo acquistato invece il significato di selvaggio, ma
nelle traduzioni in spagnolo di vari paesi il nome del personaggio fu
comunque modificato in Toro, oppure Ponto.
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The Lone Ranger Magazine, 1937 |
Comunque
difficilmente Tonto poteva far parte di quella tribù dell’Arizona,
poiché alla radio era invece identificato come il figlio di un capo
dei Potawatomi e solo alla lingua di quel popolo potrebbe appartenere
l’appellativo Kemo Sabe con cui l’indiano chiama Lone Ranger e
che nella trasmissione era tradotto come Amico Fidato. Infatti il
termine sarebbe stato ispirato al nome di un campo estivo del
Michigan, stato che coincideva più o meno col territorio dei
Potawatomi prima che la maggior parte di loro fosse cacciata a Ovest
e in cui aveva sede anche la stazione radio WXYZ di Detroit che
produceva inizialmente la trasmissione.
Ma
Lone Ranger divenne presto un prodotto multimediale. Dal 1936 fu
protagonista di una serie di romanzi usciti sulla collana economica
The Lone Ranger Magazine e, tranne il primo, scritti dal suo autore
originale Fran Striker. Il quinto volume dell’edizione cartonata
pubblicato negli anni ’40 dalla Grosset and Dunlap fu intitolato
The Lone Ranger and Tonto, a rimarcare l’importanza dell’ormai
irrinunciabile pard indiano.
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Tonto disegnato da Ed Kressy, 1938 |
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Tonto disegnato da Charles Flanders |
A
partire dal 1938 invece, furono tratti da Lone Ranger due serial
cinematografici e una serie di tavole e strisce a fumetti durata per
oltre trent’anni. Anche in questo caso all’inizio i testi erano
di Striker, ma solo per breve tempo, mentre i disegni per i primi
mesi furono realizzati con stile semicaricaturale da Ed Kressy, per
poi passare al più realistico Charles Flanders che proseguì la
serie di strip fino alla sua conclusione nel 1971.
La
coppia multirazziale Lone Ranger-Tonto in fondo è una versione
americana di quella tedesca formata da Old Shatterhand e Winnetou, da
cui può benissimo essere stata ispirata. Non sarebbe neanche l’unico
caso, poiché qualche altra simile coppia mista apparve a fumetti sia
in contemporanea che dopo Lone Ranger.
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Red Ryder e Little Beaver, 1942 |
A
metà anni ’30 il cartoonist Fred Harman creò un ennesimo piccolo
indiano con il bambino navajo Little Beaver (Castorino) che faceva da
spalla al titolare di una sua serie western ambientata nel presente,
un giovane cowboy di nome Bronc Peeler. Questi però non incontrò i
favori del pubblico e Harman nel 1938 riutilizzò Little Beaver in
una nuova serie di tavole ambientata a fine ‘800, con protagonista
il più maturo e più fortunato Red Ryder, un eroico cowboy dallo
spiccato antirazzismo proprietario di un ranch, che adotta il piccolo
navajo. Nel periodo di maggior successo delle strisce di Red Ryder,
trasposte in un lungo ciclo di film tra gli anni ’40 e ’50, anche
Little Beaver fu titolare di una sua breve serie di albi, uscita tra
il 1951 e il 1953.
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La Piuma Verde. Albi del Vitt, Editrice AVE |
Sempre
nel 1938, da noi usciva a puntate sul settimanale Il Vittorioso la storia La Piuma
Verde, scritta da Gianluigi Bonelli e disegnata da Antonio Canale, in
cui il pioniere italiano Marco Valli, dopo essere emigrato nel West,
fa amicizia con una tribù navajo e in particolare col guerriero
Dardo Rosso. Quest’eroe italico creato da Bonelli padre, che aiuta
i Navajo contro nemici sia bianchi che rossi che vorrebbero
cacciarli dalle loro terre, si potrebbe considerare una sorta di
prova generale di quello che poco più di dieci anni dopo diventerà
Tex.
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Le Straordinarie Vicende di Claudio. Albi AVE n. 22, 1941 |
Un’altra
storia western pubblicata dal Vittorioso fu Le Straordinarie
Vicende di Claudio, uscita sul n°22 degli Albi AVE nel
Febbraio 1941, e incentrata su un coraggioso ragazzino italiano
rapito e adottato dai Sioux. Qui testi e disegni, di un autore che si
firma Rebus, sono di bassa qualità, ma ciò che è più ridicolo è
la quantità di italiani in giro per il Nord-America, tra cui un
cugino di Claudio arruolatosi nelle Giubbe Rosse per cercarlo.
Comunque anche in questo caso gli italiani stringono relazioni
amichevoli con una tribù indiana, mentre i mandanti del rapimento
per una questione di eredità sono criminali americani. Anche
l’ex-bandito Tito che risolve la situazione tradendo i complici, è
naturalmente un italiano… del resto cosa ci si poteva aspettare in
quegli anni da un’editrice chiamata AVE se non un esagerato
nazionalismo?
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Il Solitario della Foresta, 1a serie, episodio 1. Collana Albi Grandi Avventure - Nerbini, 1941 |
Dal
1941, in barba al divieto fascista contro i fumetti stranieri, la
Nerbini pubblicò sul giornale Giungla! una selezione di storie di
Lone Ranger, col nome italianizzato Il Solitario della Foresta,
senza seguire l’ordine cronologico e guardandosi bene
dall’attribuirne la paternità ai veri autori statunitensi. Subito
dopo, sugli Albi Grandi Avventure di Nerbini con le tipiche copertine
di Giove Toppi, furono raccolti una dozzina di episodi di quello che
era chiamato anche il Cavaliere Mascherato. Il nome di Tonto fu
invece lasciato invariato, forse perché nel periodo delle leggi
razziali a quasi nessuno veniva in mente di non offendere le altre
etnie.
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Il Giustiziere del West e Penna d'Aquila |
Dopo
l’uscita di questa prima edizione italiana di Lone Ranger, si
direbbe che Gianluigi Bonelli ne sia stato influenzato, poiché nel
1945 creò sul settimanale Il Cow-Boy un personaggio, disegnato da
Giorgio Scudellari e altri, che si può considerare un erede diretto
del Solitario della Foresta. Si chiamava Il Giustiziere del West, i
suoi abiti e la maschera lo rendevano molto simile all’eroe di
Striker e sarebbe bastato toglierla per ottenere un personaggio
iconograficamente già vicinissimo al Tex che Bonelli avrebbe creato
solo tre anni dopo. Anche il Giustiziere del West aveva un giovane
amico indiano, dal nome non offensivo di Penna d’Aquila.
Nel
dopoguerra altre storie a fumetti di Lone Ranger furono tradotte in
Italia dalla stessa Nerbini, che già nel 1945 gli dedicò una nuova
serie di soli due numeri sempre col nome Il Solitario della Foresta,
e anche dalla Mondadori, che lo pubblicò sia su Topolino che sugli
Albi d’Oro. In quest’ultima edizione, il nome del protagonista
divenne Il Cavaliere Rosso per il colore della camicia che portava
nelle tavole di quei primi anni.
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Il Solitario della Foresta, 2a serie, n. 2. Collana Albi Grandi Avventure - Nerbini, 1945 |
Gli
Albi d’Oro, per il loro formato, erano in pratica un equivalente nostrano
degli albi americani, per cui quelli con Il Cavaliere Rosso
corrispondevano in qualche modo agli albi di Lone Ranger pubblicati
saltuariamente sulla collana Four Color della società editoriale
Dell-Western a partire dal n. 98 del 1946. Questi raccoglievano storie complete del personaggio rimontando in formato verticale le
tavole e le strisce orizzontali dei giornali, così come accadeva nel
caso di Lone Ranger anche su certi albi precedenti della McKay
Publications. La principale differenza rispetto alle edizioni Dell è
che sugli Albi d’Oro le copertine erano disegnate da autori
italiani e non riportavano la testata del personaggio contenuto
all’interno ma solo i titoli dei singoli episodi.
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Edizione italiana di Lone Ranger. Albo d'Oro n. 112 - Mondadori, 1948 |
Nel 1948 la
Nerbini ristampò gli albi del Solitario della Foresta in
una serie di quattordici numeri, usando per la prima volta anche il
nome originale del personaggio, ma scritto Lon Ranger. Nello stesso
periodo ne pubblicò anche una breve serie nel formato Albi d’Oro,
con la testata Lone Ranger scritta correttamente.
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Raccolta Lone Ranger. Nerbini, 1949 |
Intanto,
sempre nel 1948, l’editore Baggioli pubblicava la breve serie di
albi a striscia Il Figlio della Prateria, disegnata da Antonio
De Vita, il cui protagonista sembrava quasi una fusione tra Lone
Ranger e Tonto, trattandosi di un eroe indiano dall’abbigliamento
simile a quello che l’eroe di Striker indossava nei fumetti.
Solo
negli anni ‘40 fu messa a punto alla radio una versione definitiva
e dettagliata dell’origine di Lone Ranger, da cui risultava che
senza Tonto non avrebbe mai indossato la sua maschera, poiché era
stato lui a salvare il ranger Reid soccorrendolo e curandone le
ferite, dopo che certi fuorilegge avevano massacrato il gruppo di
Ranger del Texas di cui faceva parte. La maschera sarebbe stata
adottata da Reid per farsi credere morto, così da avere più libertà
d’azione per vendicare i suoi compagni e in particolare suo
fratello maggiore che era tra loro. In tal modo si intendeva
giustificare l’aggettivo "solitario" nel senso di solo ranger
superstite, visto che da quel momento al fianco dell’eroe sarebbe
restato sempre il suo fedele amico indiano.
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Il Figlio della prateria nn. 1 e 2. Editrice Baggioli, 1948 |
Nei
telefilm di Lone Ranger prodotti dal 1949, in cui tale origine fu
confermata, Tonto divenne tra l’altro uno dei primi personaggi
indiani di rilievo a cui diede il volto un vero nativo americano.
Infatti fu interpretato dall’attore canadese Jay Silverheels (Jay
Tacchi d’Argento), appartenente alla nazione irochese dei Mohawk.
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The Lone Ranger (Clayton Moore) e Tonto (Jay Silverheels) nella serie TV degli anni '50. |
In
quel periodo la Dell-Western aveva da poco inaugurato la prima serie
regolare dell’albo a fumetti The Lone Ranger, che partì con una
propria testata nel Gennaio del 1948. Inizialmente anche in questa serie le storie erano ristampe rimontate delle strip dei
giornali, ma dal n. 38 del 1951 queste furono sostituite da episodi
inediti realizzati dallo sceneggiatore Paul S. Newman e dal
disegnatore Tom Gill, autori anche di tutti i numeri successivi fino
al 145 con cui quella serie si interruppe nel 1962 - centosette
albi che costituiscono uno dei cicli più lunghi realizzati da una
singola coppia di autori su una collana a fumetti statunitense.
Inoltre la Dell pubblicò anche tre annuali e l’albo speciale The
Lone Ranger Movie Story, contenente l’adattamento a fumetti del
film del 1956, con cui si iniziarono a produrre dei veri e propri
lungometraggi del personaggio.
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The Lone Ranger, 1a serie, n. 1. Dell, 1948 |
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The Lone Ranger, 1a serie, n. 89. Dell, 1955 |
Col
successo dei telefilm di Lone Ranger e l’inizio della produzione di
albi inediti, anche Tonto da semplice spalla passò a essere titolare
di una propria serie a fumetti. Nel suo caso ne uscirono trentatre
numeri, pubblicati dalla Dell dal 1951 al 1959, di cui il primo albo
apparve come n°312 della collana Four Color, mentre dal n°3 la
testata divenne The Lone Ranger’s Companion Tonto. Anche nella
versione a cartoni animati di Lone Ranger, messa in onda dalla CBS
tra il 1966 e il 1968, ogni trasmissione conteneva un episodio di cui
Tonto era protagonista da solo, oltre ad altri due in cui faceva
coppia con l’eroe titolare. Così in pratica, nei fumetti come nei
disegni animati, Tonto finiva per vivere più avventure di Lone
Ranger.
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The Lone Ranger's Companion Tonto n. 4. Dell, 1952 |
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The Lone Ranger, 2a serie. Gold Key, anni '60 |
Una
seconda serie di albi a fumetti di Lone Ranger iniziò nel 1964, a
breve distanza dalla prima e sempre prodotta dalla Western Publishing,
ma sotto il nuovo marchio Gold Key, perché intanto si era separata
dall’editrice Dell Comics. A lungo si trattò di semplici ristampe
di storie già pubblicate nella prima serie e solo col n. 22 del 1975
apparvero avventure inedite, terminate per l’interruzione della
serie col n. 28 del 1977.
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Lone Ranger n. 3. Cenisio, 1978 |
Storie
di Lone Ranger della Western furono tradotte in Italia dalla Cenisio
tra il 1967 e il 1973 nella collana di tredici numeri Il Re della
Prateria e nel 1977, in una serie ancora più breve con la testata
originale. In seguito Lone Ranger riapparve in Italia in due edizioni
amatoriali, una del Club Nostalgia, che sulla Collana Argento
tradusse i primi episodi inediti di Flanders, e l’altra della
Nerbini, che ristampò i primi albi degli anni ’40.
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The Lone Ranger di Cary Bates & Russ Heath, anni '80 |
Mentre
da noi Lone Ranger non ebbe mai molta fortuna, negli Stati Uniti il
suo passato successo multimediale ne giustificò la riesumazione
innanzitutto in una nuova serie di strisce pubblicata per breve tempo
sui quotidiani tra il 1981 e il 1984, coi testi di Cary Bates e i
disegni di Russ Heath. Un paio di quelle storie furono raccolte nel
1993 dalla Pure Imagination Publishing sul primo albo di quella che
doveva essere una nuova serie di The Lone Ranger, ma che non ebbe
seguito. In pratica la terza serie chiuse sul nascere.
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The Lone Ranger and Tonto n. 1. Topps, 1994 |
Seguì
nel 1994 una miniserie inedita di quattro albi pubblicata dalla Topps
Comics e significativamente intitolata per la prima volta The Lone
Ranger and Tonto. La storia scritta dal romanziere Joe R. Lansdale,
disegnata da Timothy Truman e inchiostrata da Rick Magyar, rende
infatti un po’ più di giustizia al ruolo di Tonto. Questi parla
ora in perfetto Inglese e si lamenta del linguaggio sgrammaticato e
un po’ servile che gli è attribuito nei romanzi pulp, così come
del trattamento riservatogli dalla stampa, che se parla di lui lo
relega sempre al ruolo del semplice aiutante. Ciò finisce per
rendere molto tesi i rapporti tra i due amici, che devono indagare su
un furto di reperti aztechi, tanto che all’inizio della storia
sembrano volersi dividere.
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The Lone Ranger & Tonto n. 1 - Dynamite, 2007 |
Per
una collana più lunga di Lone Ranger si dovette aspettare il 2006,
quando l’immediato successo di una nuova pregevole miniserie,
prevista in sei albi, spinse l’editrice Dynamite Entertainment a
trasformarla l’anno dopo in una serie regolare. La numerazione
proseguì col n. 7 e gli autori restarono gli stessi: Brett Matthews
ai testi, Sergio Cariello ai disegni e John Cassaday alle copertine.
Solo il colorista Dean White fu sostituito da Marcelo Pinto. Si
tratta di una nuova versione più elaborata, raffinata, adulta e
inevitabilmente più violenta di Lone Ranger, che ha aperto la strada
al film del 2013 in cui il ruolo di Tonto è interpretato da un
attore in parte d’origine indiana come Johnny Depp. È questa
l’edizione ora pubblicata in Italia dall’Editoriale Cosmo.
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Tonto disegnato da Sergio Cariello. Da The Lone Ranger n. 2. Dynamite, 2006 |
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Lone Ranger n. 6. Dynamite, 2007 (dettaglio di copertina) |
Conclusasi
col n°25 a inizio 2011, questa quarta serie regolare del Ranger
Solitario (che per la Dynamite è il vol. 1) comprende quattro archi
narrativi, poi raccolti ognuno in un singolo volume. Il primo numero
della Cosmo contiene i primi sei albi, costituendo un racconto
completo che equivale al primo volume dell’edizione paperback
americana, ma formato e prezzo dell’edizione italiana sono
abbastanza inferiori. Anche i colori sono riprodotti fedelmente con
buona qualità, nonostante la carta relativamente economica degli
albi Cosmo.
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The Lone Ranger, 4a serie, n. 7 (retro). Dynamite, 2007 |
Questa
prima storia della Dynamite narra la vicenda delle origini di Lone
Ranger, in cui il giovane John Reid sarebbe ucciso coi suoi compagni
dagli assassini al soldo di Butch Cavendish, se non intervenisse un
Tonto dal carattere più difficile e indipendente del solito.
Rispetto alla versione originale ci sono naturalmente varie
differenze. Qui a morire nell’agguato non è solo il fratello di
Reid ma anche suo padre, mentre Cavendish ora non è più un semplice
capobanda ma uno spietato politico che non si espone in prima persona
e a cui la presenza dei ranger dava fastidio. Inoltre Tonto è così
bravo a uccidere che elimina da solo i dieci assassini responsabili
dell’agguato e per tutto ringraziamento il febbricitante e confuso
eroe della storia cerca di sparargli… Tra l’altro qui sembra che
Tonto non sia il vero nome del personaggio, ma solo il modo in cui si
è abituato a sentirsi chiamare e per questo dice al suo nuovo amico
che se vuole anche lui può chiamarlo così.
Diverso
dalle vecchie versioni è anche lo stile dei disegni di Cariello, che
ricorda molto quello di Joe Kubert e per qualità grafica,
espressività e dinamismo regge benissimo il confronto col grande
maestro scomparso, il ché non è poco. Molte delle sue vignette
hanno un’impostazione orizzontale affine a quella dello schermo
cinematografico ed evocativi in questo senso sono anche i bei colori
di Dean White, che pur essendo realizzati al computer, nell’ariosità
dei cieli e degli sfondi sembrano a volte dei veri acquerelli, mentre
nei flashback resi con atmosfere un po’ fumose e graffiate
riproducono lo stile dei dagherrotipi dell’epoca.
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The Lone Ranger, 4a serie, n. 24. Dynamite, 2010 |
Ma
il nuovo corso del personaggio non termina qui. Parallelamente alla
serie regolare, tra il 2007 e il 2012 la Dynamite ha prodotto altre
tre miniserie di Lone Ranger. La prima, intitolata The Lone Ranger &
Tonto e da non confondere con quella omonima della Topps di tredici
anni prima, è composta da quattro numeri usciti con cadenza più o
meno annuale tra il 2007 e il 2010, contenenti singoli episodi
scritti da Brett Matthews e Jon Abrams e realizzati da diversi
disegnatori, a partire da due albi dalle atmosfere piuttosto
inquietanti.
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The Death of Zorro n. 1. Dynamite, 2011 |
Invece,
nei cinque numeri di The Death of Zorro (La Morte di Zorro), usciti
nel 2011, i due celebri eroi mascherati appaiono insieme, con Lone
Ranger che deve vendicare il più anziano Zorro. Seguono i quattro
numeri di Snake of Iron (Serpente di Ferro), usciti nel 2012, che si
svolgono presso un treno assaltato da una banda di Kiowa per liberare
il figlio del loro capo. In questa mini scritta da Chuck Dixon,
disegnata da Esteve Polls e con le copertine di Dennis Calero, il
protagonista risulta essere Tonto più che il suo compagno
mascherato, visto che dei due è lui che si trova a viaggiare sul
treno come passeggero e che deve fronteggiare la situazione più
difficile, in attesa che Lone Ranger arrivi infine al salvataggio con
la cavalleria.
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The Lone Ranger: Snake of Iron n. 2. Dynamite, 2012 |
Del
resto nelle serie della Dynamite come in quella della Topps, Tonto è
un protagonista del tutto alla pari con Lone Ranger… anzi, data
l’inesperienza del suo nuovo amico bianco, all’inizio è
l’indiano ad assumere il ruolo del mentore, aiutando un ranger che
è poco più che un ragazzo a prepararsi alla missione di vendetta
che si è scelto e in seguito criticando a più riprese la mentalità
dominatrice della maggior parte dei bianchi. Ciò che Tonto impara a
sua volta dal giovane Reid è a non uccidere più i propri simili,
mentre quella che rimane una tipica costante della serie è che i due
pard fanno a gara di continuo a salvarsi a vicenda.
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The Lone Ranger 5a serie, n. 2. Dynamite, 2012 |
Dal
2012 è uscita poi una quinta serie regolare di Lone Ranger (il vol.
2 della Dynamite). Anche questa si è conclusa col n. 25, nel 2014,
ed è composta da tre lunghi cicli narrativi che dal n. 19 lasciano
il posto a brevi episodi singoli, tutti scritti da Ande Parks,
disegnati da Esteve Polls e con le copertine dallo stile sintetico e
affascinante dell’italiano Francesco Francavilla, premiato per il
lavoro su quest’albo con un Eisner Award.
L’autore
che si conferma come il più presente sugli albi Dynamite di Lone
Ranger dal 2007 è però il colorista Marcelo Pinto, il cui cognome
coincide curiosamente col soprannome con cui Tonto chiama il suo
cavallo e che in spagnolo significa “pezzato”. Pinto conferisce
una caratterizzazione comune alle serie di Lone Ranger di disegnatori
diversi, attraverso toni cromatici che non fanno rimpiangere quelli
di White. Pur usando il computer anche lui crea toni e sfumature
dettagliati, vagamente simili a dipinti d’epoca, fondendo la
grafica digitale con elementi che si direbbero davvero dipinti a mano
come gli effetti a tempera di certi cieli nuvolosi.
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The Lone Ranger 5a serie, n. 4. Dynamite, 2012 |
In
vari episodi appaiono flashback sul passato di Tonto, fin dai rituali
d’iniziazione che segnarono il passaggio dalla sua infanzia all’età
adulta, in cui dovette confrontarsi duramente con la natura selvaggia
per conseguire una propria visione, che una volta ottenuta non
risultò molto di buon auspicio. Nella storia Native Ground (Terra
Natia), pubblicata dal n. 7 al n. 12 del 2012, la tribù di Tonto è
descritta come appartenente a una nazione che si definisce il Primo
Popolo, cacciata dalle sue terre dai Bianchi e costretta a spostarsi
a Ovest. Potrebbero essere i Potawatomi originari del Michigan, in
accordo con la serie radiofonica originale.
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The Lone Ranger 5a serie, n. 7. Dynamite, 2012 |
Nella
stessa storia scopriamo che, prima che Tonto si unisse a Lone Ranger,
sua moglie e suo figlio furono uccisi da un gruppo di soldati, che
avevano attaccano il loro pacifico villaggio mentre cercavano una
banda di guerrieri di un’altra tribù. Quasi tutti quei soldati
sono poi uccisi da Tonto per vendetta, in una sequenza forte che
nelle storie di un tempo non sarebbe stata accettata ma che, per
quanto rude e violenta, descrive sia l’esigenza di un popolo di
ribellarsi alle ingiustizie subite che l’incontrollata escalation
che può essere innescata dalla violenza. Tonto infine vi pone
termine risparmiando la vita al più giovane dei soldati, ma ciò non
impedirà, anzi renderà più facile, che in seguito sia ricercato
per quegli omicidi, ai suoi occhi giustificati.
Evidentemente
è a causa di questa successione di eventi che Tonto non ritorna più
alla sua tribù e che finisce per unirsi a Lone Ranger, di cui può
ben comprendere il desiderio di vendetta. Tutto questo lo rende un
personaggio molto più duro, sfumato e complesso della semplice
spalla indiana di un tempo.
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The Lone Ranger 5a serie, n. 10. Dynamite, 2012 |
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Sitting Bull n. 2 di Marijac & Dut. Glénat, 1979 |
Nei
media statunitensi l’argomento dei massacri inflitti ai Nativi
Americani da parte dei Bianchi fu a lungo tabù, mentre al contrario
i massacri compiuti dagli Indiani venivano rievocati continuamente.
Non è quindi un caso se uno dei primi fumetti che trattarono le Guerre Indiane in modo un po’ più obiettivo non apparve negli USA
ma in Francia e precisamente sul settimanale Coq Hardi, tra il 1948 e
il 1953. Il racconto di quasi trecento pagine intitolato Sitting Bull
(ovvero Toro Seduto), scritto dal fondatore e autore principale del
giornale Marijac (Jacques Dumas) e disegnato da Dut (Pierre
Duteurtre), è in generale più vicino alle approssimazioni stile
Salgari che alle vere testimonianze storiche. Per esempio nella
rivolta contro gli invasori bianchi, i Sioux di Sitting Bull si
ritrovano ad allearsi con i Navajo, che nella realtà vivevano molto
più a sud.
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Sitting Bull n. 4, anni '70 |
Conferma
tale disinvoltura il fatto che siano coinvolti arbitrariamente nella
vicenda personaggi storici che non c’entrano granché, come un
caricaturale Jim Bridger e un eroico Wild Bill Hickock, che gli Indiani chiamano Sguardo Leale e i cui duelli con Sitting Bull, in
realtà mai avvenuti, si svolgono con reciproco rispetto.
Comunque
era già tanto che la serie di Marijac e Dut fosse intitolata a un
eroe indiano e non al solito pistolero bianco. Tra l’altro il
sottotitolo Le Chevalier Rouge (Il Cavaliere Rosso) non si riferiva
tanto al fatto che il protagonista fosse un guerriero a cavallo, ma
soprattutto una persona di animo nobile, infatti Toro Seduto è
rappresentato come un capo fiero e valoroso ma anche pieno di
saggezza e pietà umana.
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Sitting Bull, da Silvestro n. 28. Cenisio, 1963 |
Inoltre
Sitting Bull è uno dei primi fumetti in cui si mostrano soprusi e
violenze compiute dall’esercito statunitense ai danni di villaggi
indiani più o meno inermi e pacifici, con una giovane maestra bianca
che in una scena tenta inutilmente di opporsi ai soldati mentre
questi deportano con la forza vecchi, donne e bambini. Il tutto è
reso da Dut con disegni che forse oggi non sarebbero considerati
raffinatissimi, ma che per quei tempi erano invece molto espressivi e
adeguati al taglio drammatico e sanguigno della vicenda.
Sitting
Bull uscì anche in Italia in ben tre serie di albi pubblicate tra il
1949 e il 1955 da tre diversi editori (Della Casa, Ippocampo e
Selene) e nei primi anni ‘60 fu pubblicato anche in appendice agli Albi di Silvestro della Cenisio. In Francia invece fu raccolto in
dodici albi pubblicati dalla MCL tra il 1970 e il 1971, in cui il
sottotitolo divenne Il Napoleone Rosso, e poi in due volumi usciti
nel 1978 e nel 1979 editi dalla Glénat.
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Il Piccolo Sceriffo n. 12. Torelli, 1948 |
Intanto
da noi nel 1948 era esploso improvvisamente il successo degli albi con
Il Piccolo Sceriffo di Tristano Torelli e Camillo Zuffi, il cui West
era quanto di più approssimativo potesse esistere, con indiani che,
nonostante si dica che la prateria è stata pacificata, sono
descritti esclusivamente come infide “belve assetate di sangue”
sempre pronte a tradire e massacrare appena si volta loro le spalle,
i cui capi hanno anche nomi improbabili e denigratori come Diavolo
Zoppo. La descrizione dei Nativi Americani è qui insomma del tutto
politicamente scorretta e piena di pregiudizi, magari più per
mancanza d’informazioni che altro.
Ma
tra le tante imitazioni che sorsero rapidamente con la parola
“piccolo” nella testata, non poteva mancare una serie su un
ragazzino indiano, Piccola Freccia, scritta da Gianni De Simoni,
disegnata da Ferdinando Corbella e pubblicata nel 1949 dallo stesso
editore, Torelli, anche se di certo le sue vendite non riuscirono
neanche ad avvicinarsi a quelle del capostipite, visto che cambiò
due volte editore in un paio d’anni. Basta poi lo stile dei disegni
e l’abbigliamento del protagonista - un giovane indiano che
indossava anche giacche di pelle a quadretti (forse perché era a
quadretti la camicia del Piccolo Sceriffo…) - a far intuire come
dovessero essere piccoli a loro volta i lettori a cui si rivolgeva
questa serie. In quella del giovane sceriffo Kit erano invece
presenti toni ben più cupi e pericoli estremamente drammatici, per
cui i ragazzini che si identificavano con lui potevano sentirsi
catapultati in un mondo molto simile a quello degli adulti, pur fra
tante imprecisioni.
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Piccola Freccia. Editrice Nika, dicembre 1950 |
Nello
stesso periodo in cui il fumetto western iniziava ad affermarsi in
Italia, dopo la fine della II Guerra Mondiale anche gli editori
specializzati americani, crollate le vendite dei Supereroi, si
stavano buttando sullo stesso genere, i cui protagonisti armati non
più di doti sovrumane ma di Colt presero a moltiplicarsi dal 1948.
Non fu trascurato neanche il sottogenere indian western, con
protagonisti i Nativi Americani, per cui dal 1949 si cominciò ad
assistere anche al proliferare di personaggi che si collocavano a
metà tra le due culture, quella dei nativi e quella dei
colonizzatori, che fossero bianchi adottati dai Pellerossa o
viceversa.
Ne
parleremo dettagliatamente nella seconda parte di questo articolo,
che sarà dedicata a quel periodo particolarmente ricco di fumetti
western che va dal 1950 al 1970, in cui se la maggior parte dei
protagonisti non erano ancora del tutto filo-indiani, alcuni di loro
stavano però già avviandosi decisamente a diventarlo.
Andrea
Cantucci
N.B. Trovate i link alle altre puntate dell'Angolo del Bonellide su Cronologie & Index!