sabato 31 ottobre 2015

L'ANGOLO DEL BONELLIDE (XX): LA LUNGA STRADA DEL WESTERN FILO-INDIANO (prima parte)

di Andrea Cantucci

1820-1950: da L’Ultimo dei Mohicani a Sitting Bull... passando per The Lone Ranger


The Last of the Mohicans. Illustrazione di N. C. Wyeth, 2013


Gli Olandesi sbarcarono e dettero alla mia gente l’Acqua di Fuoco; essi ne bevvero fino a quando il Cielo e la Terra parvero incontrarsi e da sciocchi credettero di avere trovato il Grande Spirito. E allora si separarono dalla propria terra.
dal romanzo L’Ultimo dei Mohicani di James Fenimore Cooper (1826)

Fratelli! A centinaia,
a migliaia siamo morti.
E quel che ci è stato tolto
nessuno ci ha ridato.
Canto degli Irochesi Mohawk


Dopo alcuni mesi di pausa (la XIX puntata, I Naufraghi del Tempo, risale infatti al marzo 2015), ripartiamo con l'attesissima rubrica "l'Angolo del Bonellide", dedicata dal nostro Andrea "Kant" Cantucci ai fumetti internazionali e italiani che hanno avuto nel Belpaese consacrazione editoriale nel formato "popolare bonelliano". In questo lunghissimo pezzo - denso di informazioni, riferimenti letterari e riccamente illustrato - iniziamo a raccontare come nei "western di carta" sia stata via via rappresentata in positivo, in modo dunque più conforme alla realtà storica, la nobile figura dell'Indiano d'America. (s.c. & f.m.)

Johnny Depp (Tonto) e Armie Hammer (The Lone Ranger) nel film Dinsey del 2013



Da metà ottobre 2015, col n. 37 della collana Cosmo Serie Gialla, l’Editoriale Cosmo ha iniziato a pubblicare in formato bonellide e a colori quello che si può considerare un classico non solo del western a fumetti, ma anche della narrativa pulp e della fiction avventurosa in generale - ovvero Lone Ranger. Il Ranger Solitario dalle pallottole d’argento dopo molti anni di oblio ritorna in edicola anche in Italia, sulla scia del film del 2013 co-prodotto dalla Disney e diretto da Gore Verbinski, che per la verità non ha avuto molto successo neanche in patria ma che forse avrebbe meritato miglior fortuna. E forse non è una coincidenza se la Cosmo ha fatto uscire l’edizione italiana dei recenti fumetti di Lone Ranger prodotti dalla Dynamite ad appena una decina di giorni di distanza dalla prima visione TV di quel film, prevista su RaiDue proprio per fine ottobre.


Lone Ranger n. 1, Serie Gialla n. 37. Cosmo, ottobre 2015

Oltre che uno dei primi eroi mascherati dei fumetti, Lone Ranger ha una sua importanza storica anche per essere tra i primi personaggi ad aver avuto per compagno d’avventure un Nativo Americano, rappresentato sotto una luce del tutto positiva a dispetto del razzismo all’epoca ancora imperante (la serie nacque negli anni ’30 del ‘900), anche se il modo un po’ ingenuo in cui era fatto parlare perpetuava ancora lo stereotipo del selvaggio buono ma ignorante, tanto da finire per sollevare qualche protesta tra i veri indiani.
Da parte sua la RW Edizioni dal febbraio 2015 sta facendo uscire in edicola, sia pure con notevoli ritardi sulle date annunciate, la miniserie di dieci albi in formato bonellide Buddy Longway, un classico del fumetto belga opera di Claude de Ribeaupierre (in arte Derib) che riguardo alla difesa della cultura degli Indiani d’America va ben oltre, trattandosi in questo caso di un western risalente agli anni ’70 del tutto politicamente corretto e molto spesso anzi quasi più schierato dalla parte dei nativi che da quella dei coloni bianchi.
In passato i primi tre episodi di questa serie erano stati pubblicati in Italia dalla Nuova Frontiera, che dal 1982 li propose nella collana Winchester in un formato album a colori affine all’originale, mentre i successivi furono pubblicati in parte dalla Comic Art nella Collana Grandi Eroi dal 1986, in un’edizione altrettanto fedele.


Buddy Longway n. 2 - Lineachiara Bedé n. 6. RW, marzo 2015

Questa della RW, pur essendo in bianco e nero e in formato ridotto rispetto all’originale, è un’edizione economica comunque apprezzabile per qualità di stampa e fedeltà di traduzione. Il tratto espressivo ma non eccessivamente dettagliato di Derib mantiene tutta la sua efficacia anche in formato bonellide, mentre i colori originali, in particolare dei primi episodi, non erano poi così pregevoli da farsi rimpiangere più di tanto.
Inoltre già i testi di Derib erano abbastanza sintetici e scritti con un lettering piuttosto grande, cosicché anche nella versione ridotta non va perduto assolutamente niente dei dialoghi originali. Chi comunque preferisse avere un’edizione di Buddy Longway più fedele all’originale con una spesa quasi altrettanto contenuta, non ha che da attendere pochi mesi. Le stesse storie infatti dovrebbero uscire anche nella Collana Western attualmente allegata alla Gazzetta dello Sport tra novembre e gennaio 2015, sempre se sarà rispettato il piano dell’opera. Del resto, visto che la RW in otto mesi è riuscita a pubblicare solo cinque numeri di Buddy Longway, ci sono anche serie probabilità che la Gazzetta possa far uscire tutti e dieci i numeri della sua serie a colori settimanale ancora prima che si concluda quella mensile in bianco e nero.


Buddy Longway n. 3 su Collana Winchester n. 3. Nuova Frontiera, 1983

Il nome Buddy in inglese vuol dire "amico", mentre il cognome Longway significa letteralmente "lunga strada", come quella compiuta dai personaggi nell’arco della loro vita nei venti album della serie originale, realizzati dall’autore in oltre trent’anni, dal 1972 al 2006. La "lunga strada" è però anche quella compiuta in un arco di tempo molto più lungo, praticamente di quasi un secolo, da quelle storie, a fumetti o di altri media, che anziché rappresentare le vittime di un genocidio come malvagi selvaggi, hanno scelto di raccontare la cultura e le usanze dei popoli amerindi, o almeno il punto di vista di chi pur difendendosi disperatamente e a volte ferocemente dagli invasori fu destinato a soccombere, invece di quello, molto più comodo ma ormai antiquato, che giustificava sempre le arroganti violenze dei vincitori e condannava solo quelle dei nativi.


1826-1908: Libri in pelle rossa

Una delle prime opere letterarie in cui si riconosce una certa dignità ai nativi americani e si cominciano a fare per lo meno delle distinzioni tra un indiano e l’altro, è il romanzo The Last of the Mohicans (L’Ultimo dei Mohicani) di James Fenimore Cooper, uscito nel 1826 ma ambientato nel 1757, durante la guerra anglo-francese dei Sette Anni, in cui anche delle tribù indiane furono coinvolte in quanto alleate dei due antagonisti. Per la trama e il nome dell’ultimo mohicano lo scrittore si ispirò alla storia reale di Uncas (La Volpe), il fondatore dei Mohegan nel XVII secolo. Così per l’ultimo scelse lo stesso nome del primo e il fatto che la tribù esistesse solo da un secolo spiega perché fossero così pochi da essersi rapidamente estinti.

Storico documento firmato da Uncas e dalla sua squaw (XVII secolo)

In realtà il protagonista principale del ciclo narrativo di cui fa parte quel libro è il cacciatore bianco Natty Bumppo, chiamato dai Mohicani tra cui è cresciuto coi soprannomi Occhio di Falco o Calza di Cuoio e detto invece Lungo Fucile dagli Uroni. Ma i due comprimari Chingachcoock e Uncas, gli ultimi Mohicani, sono rappresentati in modo altrettanto positivo ed eroico, anche se non sono tanto contrapposti a degli invasori bianchi quanto ad altri indiani loro nemici, visti al contrario come del tutto malvagi e crudeli.
I conflitti più o meno cruenti tra nazioni indiane furono una comune e innegabile verità storica. Ciò che si può contestare allo scrittore è l’idea che i Mohicani, o altri indiani di stirpe Delaware, fossero tutti nobili e leali e i loro nemici Irochesi e Uroni fossero tutti infidi e spietati come lui li descrive. In realtà gli Irochesi ebbero una cultura raffinata e per molti aspetti più civile di altre tribù, anche se è vero che erano battaglieri e i guerrieri erano addestrati a combattere fin da piccoli. La cattiva fama degli Irochesi forse derivava dal fatto che, nella successiva Guerra d’Indipendenza, combatterono contro gli Americani al fianco degli Inglesi. Ma i più “cattivi” per Cooper sarebbero gli Uroni, apparentemente solo perché… nemici anche degli Inglesi.



The Last of the Mohicans, di James Fenimore Cooper. Ed. Scribner, 1919


Se nel romanzo si fa una certa confusione tra Irochesi e Uroni (in realtà due confederazioni distinte e in feroce lotta tra loro), è forse dovuto al fatto che fin dalle guerre del XVII secolo, in cui i secondi furono in gran parte sterminati dai primi, gli Uroni fatti prigionieri erano forzati a diventare Irochesi per rimpiazzare i caduti. Uno di questi nemici adottati è appunto l’urone Magua, il cattivo della storia, che avendo subito dagli Inglesi una dura punizione disciplinare torna a parteggiare per i suoi fratelli Uroni e per i Francesi loro alleati. 
Tra l’altro Cooper come idee era conservatore e in altri romanzi del ciclo, ambientati prima e dopo gli eventi del libro L’Ultimo dei Mohicani, chiarisce meglio il suo pensiero, auspicando di fatto l’inevitabile sottomissione dei nativi a quella che lui considera la superiore civiltà cristiana dei bianchi. Il suo romanzo più famoso fu per fortuna molto meno ideologico e molto più avventuroso degli altri e proprio questo ne sancì il successo.
Ma l’elemento più interessante per il tema che ci interessa è la storia d’amore tra il mohicano Uncas e la ragazza bianca Cora, entrambi destinati a morire nel finale. Considerato che il romanzo uscì all’inizio del XIX secolo sarebbe stato un significativo passo in direzione antirazzista se un residuo di pregiudizi dell’autore non gli facesse spiegare che Cora non è del tutto bianca ma ha anche sangue indiano-caraibico, come se ai suoi occhi ciò fosse necessario per rendere accettabile un sentimento tra la ragazza e un indiano.

The Last of the Mohicans - Classic Comics n. 4, 1942

Naturalmente accanto alle trasposizioni cinematografiche de L’Ultimo dei Mohicani, prodotte rispettivamente nel 1936, nel 1947, nel 1977 e nel 1992, non mancano le versioni a fumetti. La storia di Uncas apparve innanzitutto sulla testata americana Classic Comics, poi ribattezzata Classics Illustrated - sia nella prima serie in cui uscì nel 1942, sia in altre successive come quella degli anni ’70 dell’editrice Pendulum Press. 


L'Ultimo dei Mohicani, I Super-Comics Mensili n. 6. Nerbini, anni '50
 
La prima versione a fumetti del romanzo di Cooper fu pubblicata anche in Italia, insieme ad altri titoli della serie Classic Comics, sulla collana I Super-Comics Mensili edita dalla Nerbini dal 1950. Negli anni ’70 L’Ultimo dei Mohicani apparve anche in un volume di una collana di classici a fumetti pubblicata in Spagna dalle edizioni AFHA Internacional, mentre una versione italiana fu illustrata da Ruggero Giovannini.


L'Ultimo dei Mohicani, supplemento a Il Giornalino (1993)

Tra le successive edizioni a fumetti di The Last of the Mohicans si può citare quella di Jack Jackson, uscita sui Classici della Dark Horse nel 1992 in contemporanea al fim di Micheal Mann interpretato da Daniel Day-Lewis, pur senza esserne un adattamento. Ma come accaduto più volte sullo schermo, neanche le riduzioni disegnate sono sempre fedeli al romanzo. In una versione degli anni ‘90 realizzata da Fabio e Stelio Fenzo per il Giornalino tra l’altro si è voluta risparmiare ai giovani lettori la straziante morte della bella Cora, che qui nel finale è solo ferita lievemente. Più recente è la versione in sei albi scritta da Roy Thomas e pubblicata dalla Marvel nel 2007, che si rifà al film di Mann del 1992 soprattutto nell’aspetto di Occhio di Falco.


The Last of the Mohicans. Dark Horse, 1992

 
The Last of the Mohicans nn. 1 e 6. Marvel, 2007


Nel 1855 fu la pubblicazione del poema di Henry Wadsworth Longfellow intitolato The Song of Hiawatha (Il Canto di Hiawatha) a definire una volta per tutte il mito del buon selvaggio, raffigurando un eroe indiano del tutto nobile e positivo e provocando reazioni scandalizzate da parte dei critici più razzisti. I versi usati dal poeta sono tetrametri trocaici (versi di otto sillabe divisi in quattro parti omogenee), il cui andamento salmodiante e monotono tenta di riprodurre quello dell’oratoria e dei canti indiani... senza riuscirci più di tanto.
La storia narrata da Longfellow è vagamente e liberamente ispirata a miti e leggende degli indiani Ojibway (o Chippewa), mischiati con quelli dei Sacs e dei Fox, cioè i soli con cui l’autore ebbe qualche breve contatto.
L’eroe di cui racconta la vita è un essere semidivino: sua madre è generata da una donna caduta dalla Luna, suo padre è il Vento dell’Ovest e la sua venuta è annunciata dal dio Gitche Manito (che da allora per i bianchi sarà sinonimo del Grande Spirito di tutti gli indiani, anche se il termine era usato solo in lingua algonchina). 
Secondo l’autore Hiawatha si identificherebbe con un eroe leggendario degli Ojibway noto come Manabozho, tipica figura di trasformista burlone (o trickster), di cui gli aspetti più pesanti, dispettosi, violenti o scurrili sono stati qui censurati. Ma in realtà il nome Hiawatha non ha nulla a che fare con tale personaggio, essendo invece quello di un famoso capo irochese davvero esistito nel XVI secolo e noto anche come Hanyewatha.

Illustrazione di Remington per Il Canto di Hiawatha, edizione 1890

 
Il vero Hiawatha apparteneva in origine alla nazione Onondaga, da cui fu esiliato dopo essere stato sconfitto da un rivale. Tra i Mohawk, la nazione di sua madre, conobbe e divenne discepolo di un altro esule da loro accolto, il profeta urone pacifista Dekanawidah, che non parlando bene la lingua locale usò Hiawatha come portavoce. I due divennero così gli artefici della Grande Pace tra Oneida, Mohawk, Cayuga, Seneca e Onondaga, riuscendo a unirli nella Grande Lega Irochese delle Cinque Nazioni e a dare loro una legge comune. In base a tale legislazione il consiglio dei capi irochese si divideva in due rami costituiti dai rappresentanti di due nazioni ciascuno e si affidava ai Custodi del Fuoco della quinta nazione per decidere sulle questioni più ardue e incerte. Quelle norme due secoli dopo avrebbero ispirato alcuni dei principi della Costituzione degli Stati Uniti, che ancora regolano i rapporti tra i due rami del Congresso e la Corte Suprema.
Ma fu solo per equivoco, essendosi basato su testi poco affidabili, che Longfellow fece confusione tra il leggendario statista irochese e il totalmente mitico eroe dei Chippewa, usando il nome del primo per indicare il secondo. Tra l’altro è anche molto probabile che le imprese attribuite all’eroe del poema, come la scoperta del mais e l’invenzione della scrittura, nelle leggende originarie fossero compiute da vari personaggi distinti.


Morte di Minehaha del pittore William de Leftwich Dodge (1885)

Insomma, nel Canto di Hiawatha i contenuti nascono più da costruzione letteraria che da fedeli trasposizioni di storie indiane. Tutto è filtrato in chiave romantica ed edulcorata e nel nobile selvaggio non resta granché di selvaggio... Così l’eroe non può che innamorarsi di una bella ragazza, Minnehaha (Acqua Ridente) che naturalmente appartiene a un popolo nemico. Nonostante ciò Hiawatha la ottiene in sposa, ma solo per poi vederla morire di malattia. Dopo quella di Uncas, anche la triste sorte di Minnehaha suscitò compassione, iniziando a far simpatizzare i più sensibili col destino altrettanto tragico degli Indiani. Tale fu la sua fama che tra l’altro da Minnehaha derivò il nome Minne o Minnie, oggi noto come quello dell’amica di Mickey Mouse.


Hiawatha da piccolo. Illustrazione di M. L. Kirk, 1910
 
Dopo aver rappresentato la cultura indiana in modo un po’ melenso e fin troppo accomodante, Longfellow chiude bruscamente la sua storia con l’arrivo dei primi missionari cristiani. Prima di andarsene per sempre l’eroe “pagano” Hiawatha invita il suo popolo a convertirsi alle loro idee in un finale abbastanza ipocrita e bigotto, che lascia capire come anche secondo questo autore i buoni indiani siano solo quelli che accettano supinamente di sottomettersi alla presuntuosa arroganza della religione e della cosiddetta civiltà dei Bianchi, in poche parole di lasciarsi addomesticare… Il poema ha comunque il merito di aver diffuso l’idea che vivere a stretto contatto con la natura, come facevano i Nativi Americani, non è affatto una cosa disprezzabile.
Del Canto di Hiawatha sono state realizzate molte versioni illustrate, tra cui spicca quella del grande pittore Frederic Remington, che con la sua conoscenza dei veri Indiani conferì alle scene descritte un realismo e una verosimiglianza storica che difficilmente sarebbero stati evocati dalla sola lettura del testo scritto. Più leziose, ma comunque affascinanti, furono le illustrazioni a colori realizzate nel 1910 dall’illustratore M. L. Kirk.

Hiawatha inventa la scrittura. Illustrazione di M. L. Kirk, 1910

Dato il suo successo, il poema di Longfellow non ispirò solo illustratori ma anche artisti di altro genere. Vari musicisti dedicarono delle loro opere a Hiawatha e Minnehaha e diversi pittori e scultori fecero lo stesso.
Oltre alle versioni a fumetti tratte dal Canto di Hiawatha, come quella dei soliti Classics Illustrated, la parte sull’infanzia del futuro eroe, in cui questi è educato dalla nonna a vivere in armonia con gli animali, influenzò in seguito il mondo dei cartoon e dei fumetti ispirando vari personaggi simili, a volte anche nel nome.


The Song of Hiawatha. Classics Illustrated n. 57

Il primo piccolo indiano ad apparire anche da noi fu appunto il disneyano Little Hiawatha (noto in Italia come Penna Bianca), che dall'omonimo cartone animato uscito nel 1937 passò a essere protagonista di tavole a fumetti nel 1940 e a cui nei decenni successivi sarebbero seguiti molti altri piccoli nativi americani di autori di vari paesi. Ma il nome Hiawatha, essendo storico, non poteva essere soggetto a nessun copyright e ciò permise agli studios concorrenti della Warner di rispondere nel 1941 con un cartone animato intitolato La Caccia al Coniglio di Hiawatha, in cui un ancor più bellicoso piccolo indiano incontrava Bugs Bunny.

Little Hiawatha. Sunday page, 1940


Qualche anno dopo anche Rinaldo Dami e Mario Faustinelli scrissero una loro versione a fumetti del piccolo Hayawatha (nome appena modificato per essere leggibile in italiano), che stavolta apparteneva a un bambino cherokee figlio di un capo, sempre molto amico degli animali. Questo Hayawatha uscì sul Corriere dei Piccoli dal 1957, prima disegnato da Carlo Porciani e poi da Antonio Canale, con stile oscillante tra il realismo di sfondi e personaggi adulti e un certo umorismo nei tratti dei bambini e degli animaletti della foresta. 

Hayawatha di D'Ami e Canale. Edizione francese del 1960

 
Le prime storie dell’Hayawatha italiano sono prive di balloon e narrate con lunghe didascalie. L’impostazione è molto fiabesca e come l’eroe omonimo nel poema di Longfellow anche questo piccolo indiano fa amicizia con una principessa di una tribù nemica, nel suo caso la piccola Sooray, figlia di un capo delaware.
Pubblicato anche in Francia e Germania, il personaggio di Hayawatha negli anni ’60 fu ripreso dallo scrittore Luigi Grecchi e dal disegnatore argentino Carlos Roume, in storie coi balloon e dallo stile completamente realistico, che proseguirono in appendice ad altre testate per ragazzi come gli Albi di Tom & Jerry. In questa versione il “piccolo sakem”, ora un po’ cresciuto, vive avventure a contatto col mondo dei Bianchi insieme alla sorella maggiore Shenandoah e all’amico sceriffo Lyman, in un West dell’800 successivo di vari secoli rispetto all’ambientazione sia del poema di Longfellow, sia della vita del vero Hiawatha.


Hayawatha di Grecchi e Roume

Curiosamente a scrivere per primo una vera e propria serie di romanzi con protagonista principale un nativo americano non fu un autore del Nuovo Mondo ma un tedesco, lo scrittore Karl May. In uno dei suoi libri nel 1878 apparve il nobile pellerossa Winnetou, che diventerà il suo personaggio più famoso. All’inizio è un comprimario al fianco dell’eroe originale delle storie, l’avventuriero bianco Old Shatterhand, che diventa suo fratello di sangue e suo cognato. Fu nel 1893 che l’autore dedicò tre libri a Winnetou, elevandolo a protagonista, dopo aver cercato di documentarsi come meglio poteva sugli usi e costumi degli Indiani d’America. Il suo eroe, dopo l’uccisione del padre e della sorella da parte di un bandito bianco, diventa prima capo degli Apache Mescalero e poi di tutte le tribù apache e navajo. Giustamente May fa il possibile per descrivere quei popoli con esattezza, ma all’epoca i testi sui Nativi Americani erano scarsi e poco precisi. 


Winnetou, primo romanzo della serie di Karl may (1893)

 
Così l’apache Winnetou porta abiti e acconciature elaborati abbastanza distanti dai veri costumi del suo popolo. Più coerente era il fatto che usasse un fucile coperto di borchie d’argento. Gli Indiani aggiungevano davvero borchie simili sui fucili venduti loro dai Bianchi, ma di solito solo sul calcio e non su tutta la canna come nel caso di Winnetou. In ogni caso, nonostante varie imprecisioni o “licenze letterarie”, in Germania i libri di May furono considerati a lungo quanto di più preciso si potesse leggere sugli Indiani d’America.
In realtà pare che la psicologia dei personaggi di questa saga, permeata di epica e valori cristiani, abbia più a che fare con archetipi germanici che con la cultura nativa americana, tanto che nel terzo libro, prima di morire, Winnetou sembra praticamente convertirsi al Cristianesimo. Anche May cadrebbe così nella solita trappola dei popoli coloniali… giudicare degne le altre culture purché si sottomettano in qualche modo alla propria. Sarà forse anche per questo, oltre che per la loro enorme popolarità, che i romanzi di Winnetou non furono banditi durante il Nazismo, nonostante fosse chiaro che l’eroe delle storie non era per niente ariano...


Winnetou (Pierre Brice) e Old Shatterhand (Lex Barker) al cinema

Dal 1962 al 1968 le storie di Winnetou furono trasposte in una serie di film di produzione tedesco-yugoslava, con l’attore francese Pierre Brice nel ruolo del capo apache e Lex Barker in quello di Old Shatterhand. Data la fortuna che le pellicole ebbero, subito apparvero in Germania e Olanda varie versioni a fumetti di Winnetou, che divenne così uno dei pochi eroi popolari all’interno della scarsa produzione tedesca di comic


Winnetou n. 6, di Helmut Nickel

Winnetou di Juan Arranz

 
Essendo ormai scaduti i diritti d’autore, non ci fu una sola serie a fumetti ufficiale di Winnetou ma varie allo stesso tempo. Una fu prodotta da Walter Neugerbauer per l’editrice Kauka; un’altra fu disegnata da Juan Arranz degli Studios Vandersteen, con uno stile che poteva ricordare vagamente quello dei contemporanei fumetti western italiani sul tipo di Tex; ma i migliori per qualità dei disegni e aderenza ai romanzi originali furono gli albi di Winnetou realizzati da Helmut Nickel e pubblicati da Lehning Verlag nel 1963.
In Italia non è mai stata tradotta nessuna delle serie a fumetti di Winnetou, ma chi era bambino negli anni ’70 potrebbe ricordarsi di un suo bambolotto della linea Big Jim della Mattel che era venduto anche da noi, anche se nei paesi come il nostro in cui il personaggio non era conosciuto fu ribattezzato Geronimo…

Winnetou, l'action figure Mattel degli anni '70



Sulle Frontiere del Far West, di Salgari. Copertina di Alberto Della Valle. Prima edizione Bemporad, 1908


Se i costumi indiani descritti da Karl May non erano del tutto attendibili, la ricostruzione delle guerre indiane fatta dal nostro Emilio Salgari, coi romanzi Sulle Frontiere del Far West, La Scotennatrice e Le Selve Ardenti, usciti tra il 1908 e il 1910, fu ben più fantasiosa e piena di svarioni, sia dal punto di vista storico che da quello degli usi indiani. Fantasiose invenzioni e approssimazioni erano del resto comunissime nella letteratura popolare dell’epoca e all’autore interessavano più gli effetti drammatici che la precisione storica.
Nei libri di Salgari per esempio ci sono due donne guerriere figlie una dell’altra (di cui la seconda si chiama Minnehaha come il personaggio di Longfellow) che hanno entrambe la carica di sakem, cosa molto difficile dato il ruolo subordinato riservato alle donne nella cultura indiana. Esse inoltre comandano sugli indiani Corvi ma sono moglie e figlia di un capo sioux, mentre nella realtà le due nazioni erano acerrime nemiche.
Nel volume La Scotennatrice, dopo i massacri compiuti dall’esercito in vari villaggi (come quelli sul Sand Creek e sul fiume Washita, episodi questi realmente storici) Salgari dice addirittura che tutti gli Indiani delle Praterie si alleano contro gli invasori bianchi, anche le nazioni nemiche, dai Sioux ai Comanche e dai Kiowa agli Apache, una cosa mai successa e che se fosse avvenuta avrebbe forse potuto alterare un po’ la Storia (nella realtà ci fu sì una spontanea alleanza, ma solo tra Sioux, Cheyenne e Arapaho, ovvero nazioni che erano già amiche).


La scotennatrice di Salgari. Illustrazione di Alberto Della Valle. Prima edizione Bemporad, 1909

È poi errata la descrizione di Toro Seduto come un feroce guerriero che divora il cuore di Custer dopo averlo ucciso, idea esagerata e fuori luogo poiché il vero Tatanka Yotanka era un uomo sacro e poco sanguinario.
In realtà a Little Big Horn Toro Seduto non prese neanche parte direttamente al combattimento, essendo debilitato da un estenuante rito della Danza del Sole compiuto poco prima. Forse il falso episodio, che Salgari riportava dandolo per storico, potrebbe essere derivato da una qualche confusione tra Toro Seduto e suo nipote Toro Bianco, che era effettivamente convinto di essere colui che aveva ucciso Custer.
Salgari comunque non considera gratuito lo scatenarsi dei Pellerossa, ma lo spiega appunto col fatto che fossero stati sempre più irritati dalle prepotenze e brutalità compiute contro di loro dai coloni e dai soldati bianchi, una posizione quasi filo-indiana in anticipo sui tempi e storicamente non molto lontana dal vero.
In fondo non stupisce che il creatore di Sandokan sapesse capire le ragioni dei popoli indigeni contro i loro colonizzatori. Rappresentando gli Indiani come fieri e bellicosi guerrieri che difendono con le armi le loro terre e non come edulcorati “buoni selvaggi” pronti a sottomettersi alla cultura degli invasori, lo scrittore italiano ne dette un’immagine tutto sommato più rispettosa, benché esagerata e inverosimile in certi dettagli.

Ulceda di Guido Moroni Celsi, 1935
Ulceda, 1935. Striscia originale (collezione privata)
 
Ma verosimili o no, data la popolarità dei libri di Salgari, il fumetto western italiano non poteva che iniziare ispirandosi questa sua trilogia, anche se sul giornale di Mondadori I Tre Porcellini, dove uscì nel 1935 coi disegni di Guido Moroni Celsi, la prima parte fu rimaneggiata e il titolo cambiato in Ulceda Figlia del Gran Falco della Prateria. Così il West disegnato esordì in Italia col nome di una principessa indiana, che comunque non è l’eroina della storia, visto che un unico protagonista non c’è. Nei romanzi di Salgari a interagire con gli Indiani erano vari avventurieri americani, in particolare il colonnello Devandel, i suoi figli Harry e Giorgio e l’agente indiano John Maxim - quasi un’anticipazione dei quattro pard delle storie di Tex - ma nella storia di Ulceda, data l’epoca autarchica, furono sostituiti da due italiani emigrati nel Brasile, Vittorio e Vico, che alla fine (salpando da Galveston!) tornano nell’Italia rinnovata su una nave abbastanza moderna da far pensare che la storia sia stata trasferita nel presente, come se negli anni ’30 fossero ancora in atto le Guerre Indiane…




Ulceda, Figlia del Gran Falco della Prateria. Albi di Avventure nn. 5, 6 e 7. API, 1939 (immagini tratte dal sito Collezionismo Fumetti)

Il racconto di Ulceda, ristampato nel 1939 dalle edizioni API in tre numeri della collana Albi di Avventure, fu poi proseguito sul periodico L’Audace e su Topolino da Rino Albertarelli - questa volta con i titoli dei romanzi originali.
Nel Dopoguerra, mentre Mondadori ristampava Ulceda sul n°16 degli Albi d’Oro, un’altra versione delle stesse storie molto più fedele ai romanzi fu disegnata da Walter Molino tra il 1946 e il 1949 sul giornale Salgari dell’editrice Egla, che dopo averla pubblicata a puntate la ristampò nel 1952 raccogliendola sulla seconda serie della collana Albi Salgari, a partire dall’adattamento del romanzo Sulle Frontiere del Far West.

Sulle Frontiere del Far West su Salgari n. 1, Editrice Egla, 1946



Sulle Frontiere del Far West, di W. Molino. Collana Albi Salgari, 2a serie, n. 1. Editrice Egla, 1952


1907-1936: Piccoli guerrieri crescono

Passando ai fumetti statunitensi dei primi del XX secolo, quella che si può considerare la prima serie politicamente corretta sulla cultura degli Indiani d'America, una totale eccezione per i tempi, fu Little Growling Bird in Windego Land (Il Piccolo Uccello Ringhiante nella Terra dei Windego), realizzata da S.N.T. Crichton nel 1907, pubblicata da un giornale di Chicago in tavole settimanali e incentrata sull'amicizia tra il bambino indiano del titolo e una bimba bianca di nome Fanny. Questa, dopo essersi smarrita, è salvata e accolta da una pacifica tribù di indiani Ojibwa-Annishanabe, che la ribattezza Chioma Gialla e la introduce ai suoi usi e costumi, alle sue leggende - come quella dei terribili spiriti Windego - e soprattutto al dialogo e all’amicizia con gli animali protettori della tribù, il tutto descritto con leggerezza favolistica e accuratezza quasi antropologica. Nell’ultima tavola il padre di Fanny la ritrova e convince la madre di Growling Bird a lasciar loro portar via il suo piccolo amico indiano, per farlo studiare insieme a lei in una scuola dei Bianchi.

Little Growling Bird in Windego Land, 1907

Se tutta la serie di Crichton è senz’altro animata dalla migliori intenzioni, il finale è una nota stonata a cui rimedia parzialmente il fatto che i due ragazzini restino uniti e il pianto disperato della madre che vede partire il suo figlioletto, una situazione in quegli anni comune a molte donne indiane delle riserve. I primi del ‘900 erano infatti l’epoca in cui alcuni antropologi iniziavano a denunciare la politica di distruzione etnica e culturale ai danni degli Indiani perpetrata dal governo americano, che obbligandoli a mandare i figli in scuole lontane dalle riserve li forzava a integrarsi in una società a loro estranea, da cui spesso erano poi respinti per il diffuso razzismo. Molti indiani iniziarono così a rifugiarsi nell’alcolismo o nel culto di un fungo allucinogeno, il peyotl, per dimenticare la sconfitta dei loro padri e la loro vita miserabile. Intanto, tra gli anni ’10 e gli anni ’30, cominciavano a nascere delle associazioni proprio per preservare la cultura indiana, un’esigenza in qualche modo anticipata dalla storia a fumetti di Little Growling Bird che restò a lungo unica nel suo genere.

Una spilla d'epoca di Little Growling Bird

In genere gli indiani dei fumetti della prima metà del XX secolo, quando non erano rappresentati come malvagi selvaggi sanguinari, erano relegati a ruoli subalterni, al massimo spalle del protagonista di turno. Ma a volte poteva anche capitare che la spalla finisse prima o poi per diventare titolare di una propria serie, un’evenienza che si verificò innanzitutto non in un fumetto statunitense ma in una strip sudamericana.
Nella serie di strisce Las Aventuras de Don Gil Contento, pubblicata in Argentina dal 1927 sul quotidiano Crìtica, il disegnatore Dante Raùl Quinterno introdusse l’anno seguente un forzuto indio della Patagonia chiamato inizialmente Curugua Curigüaguigua e rapidamente ribattezzato col più semplice nome di Patoruzù.
Patoruzù era l’ultimo capo del popolo Tehuelche e nel 1930 l’autore lo riutilizzò nuovamente in un’altra sua striscia, Don Julián de Monte Pío, che usciva sul quotidiano La Razòn e di cui l’indio patagone divenne ben presto il protagonista assoluto, tanto che meno di un anno dopo la serie prese il suo nome. 

Patoruzù di Dante Quinterno. Anni '30

Il successo della sua nuova strip permise a Quinterno di fondare una società di distribuzione sul modello delle agenzie statunitensi, così dal 1935 Patoruzù passò sul giornale El Mundo apparendo anche in tavole a colori sulla rivista Mundo Argentino, e dal 1936 gli fu dedicata una testata inizialmente settimanale che rivoluzionò il fumetto locale e che in quarant’anni avrebbe superato i duemila numeri usciti.
L’indio di Quinterno divenne in breve uno degli eroi disegnati più popolari in Argentina e in tutto il Sud-America, mentre l’ex protagonista Don Juliàn fu sostituito da un altro playboy altrettanto vanesio e indolente, Isidoro Cañones, dedito alla vita di città. Patoruzù preferisce invece la vita rude nella tenuta dove abita con la governante Chacha e il caposquadra Ñancul e, in sella al suo velocissimo cavallo Pampero, si oppone alle ingiustizie rivendicando con fierezza le sue origini etniche mentre invoca i suoi antenati per far aumentare la propria forza. Questa gli deriva anche dall’essersi cibato da piccolo con la zuppa delle ossa di un gigantesco animale estinto ed è in seguito accresciuta da un piffero magico donatogli da un capotribù nordamericano.

Patoruzù

Anticipando di poco Braccio di Ferro, Patoruzù inaugurò il tipo dell’eroe forzuto generoso e manesco, dalla mentalità elementare ma pratica, e nel 1942 divenne anche protagonista del primo cartone animato a colori argentino insieme al suo fratello minore Upa. Oltre all’origine in parte magica della sua forza, proprio la presenza al suo fianco di Upa, più grosso e ancor più forte di lui ma più ingenuo, che usa come arma la propria pancia, ne fa in qualche modo anche un precursore di Asterix. Ma a differenza dell’eroe gallico, Patoruzù non dà giudizi storici, non si oppone agli invasori bianchi, né denuncia le condizioni degli Indios sottomessi ed emarginati, perciò in anni recenti è stato accusato d’essere un personaggio reazionario, anche per la sua carica di capo ereditario. Comunque Patoruzù si dà da fare generosamente per aiutare gli altri e per migliorare le cose e forse l’assenza di nette prese di posizione contribuì alla sua affermazione, permettendo a tanti argentini di identificarsi con un indio come incarnazione originaria e autentica del paese.

 
Patoruzito settimanale
All’epoca si identificavano coi fumetti soprattutto i ragazzi e riscosse altrettanto successo anche Patoruzito, la versione infantile di Patoruzù scritta da Mirco Repetto e disegnata da Tulio Lovato, che dal 1945 uscì in una sua testata settimanale su cui furono ospitati altri importanti fumetti locali e stranieri. Compagni di avventure di Patoruzito sono il cavallino Pamperito e Isidorito, cioè rispettivamente Pampero e Isidoro da piccoli.
Sarà forse un caso che la serie di Patoruzù si interruppe proprio nel 1977, cioè nel periodo in cui dopo la definitiva estromissione di Peròn, aveva da poco assunto il potere in Argentina una delle peggiori forme di dittatura militare di destra. Può anche darsi che i militari fascisti, notoriamente privi di umorismo, non tollerassero che si raffigurasse come un eroe, ancorché buffo, un appartenente a una minoranza etnica. Ma il personaggio non è scomparso del tutto. Dopo essere apparso al pari della sua controparte adulta in ogni sorta di merchandising, dal 2004 Patoruzito è stato trasposto in una serie di fortunati lungometraggi a cartoni animati di produzione locale, di cui il primo in Argentina ha avuto più successo dei film con Shrek o Spider-Man.

Patoruzito, nel film del 2004

Mentre in Sud-America un eroe nativo, per quanto semplice e bonario, otteneva tanta considerazione, un paio di esempi più o meno contemporanei ma più effimeri di strip statunitensi dedicate a personaggi indiani dimostrarono che invece nel nord del continente i tempi, o il pubblico, non erano ancora abbastanza maturi.
Nel 1933 le tavole della serie White Boy (Ragazzo Bianco), creata con stile raffinato e originale dal disegnatore Garrett Price, furono incentrate sull’amicizia tra un ragazzo bianco e una sua coetanea indiana di nome Chickadee, appartenente alla tribù che lo ha catturato. Nella prima tavola il capotribù risparmia il ragazzo per farlo adottare da una vedova, il cui figlio era stato ucciso da un bianco. Affidare un prigioniero o un ospite a una donna sola perché la aiutasse era prassi comune in molte tribù indiane (anche la piccola Fanny era stata affidata alla madre vedova di Growling Bird), ma è l’idea di dover rimediare all’uccisione di un indiano da parte di un altro bianco che comporta un notevole rovesciamento di ottica per quei tempi.

White Boy, 1a tavola, 1933
In seguito in White Boy si succedono episodi dedicati alla vita del villaggio, come un furto di cavalli da parte di una tribù nemica. Al ragazzo bianco e a Chickadee si unisce poi un esploratore di nome Dan Brown, mentre il principale personaggio negativo è una donna bianca detta La Regina della Luna, che tiranneggia gli Indiani ed è protetta da belve feroci. Tale figura romanzesca, che sia voluto o meno, potrebbe essere interpretata come una metafora di quelle ditte e di quei coloni americani che negli anni ’30 sfruttavano ogni materia prima dei territori indiani a spese dei nativi, con la protezione dell’esercito e la connivenza degli agenti governativi. Le condizioni di vita degli Indiani erano ormai diventate così gravi che, per tentare di porvi rimedio, nel 1934 l’amministrazione Roosevelt fece approvare l’Indian Reorganization Act, con cui per la prima volta si concedeva alle tribù d’avere voce in capitolo sulla gestione delle riserve in cui vivevano.
Intanto per qualche motivo, forse perché gli editori dei giornali non volevano toccare certe spinose questioni o forse solo per tentare di avere più successo, il fumetto disegnato da Price mutò impostazione nel 1935, abbandonando del tutto i temi indiani, cambiando nome in Skull Valley e spostandosi in anni contemporanei mentre il ragazzo prese il nome di Bob White... ma ciò non impedì la soppressione della serie l’anno seguente.

White Boy di Garrett Price
È in parte un po’ più simile a Patoruzù il piccolo e battagliero pellerossa Big Chief Wahoo (Gran Capo Wahoo), ideato da Allen Saunders e Elmer Woggon come comprimario di una strip che nelle loro intenzioni doveva essere incentrata su un tipico ciarlatano da strada, The Great Gusto (Il Grande Gusto), ma l’agenzia che la distribuiva preferì invece intitolare la serie all’amico indiano che gli faceva inizialmente da assistente. 

Big Chief Wahoo, di Saunders e Woggon

 
Wahoo esordì così come protagonista nel 1936, mentre Gusto rimase provvisoriamente tra i comprimari insieme alla procace principessa Minnie-Ha-Cha (chiara parodia di Minnehaha), a una vivace bambina con le trecce di nome Pigtails (Codine) e al pigro indiano Mooseface (Faccia d’Alce), incarnazione dell’idea un po’ razzista del nativo scansafatiche e ingenuo che non capisce nulla delle diavolerie moderne dei bianchi.
Come quelle di Patoruzù, anche le storie di Big Chief Wahoo erano ambientate nel presente. Dal punto di vista grafico passarono da uno stile iniziale estremamente semplice, vagamente affine a quello di Elzie C. Segar, a un disegno che si fece gradualmente sempre più caricaturale con evidenti influenze da Al Capp.
Wahoo era un indiano diventato ricco trovando il petrolio nella sua terra, cosa accaduta davvero nei territori di alcune tribù, come Apaches Jicarillas, Utes e Navajos, anche se nella realtà di quegli anni le imprese che sfruttavano i giacimenti delle riserve, sia petroliferi che di altro genere, lasciavano ai nativi solo delle briciole. Ma almeno nelle storie di Wahoo le cose a volte potevano andare diversamente poiché, caso raro nei fumetti dell’epoca, il piccolo capo si impegnava anche nel difendere i diritti della sua gente a spese dei Bianchi.


Big Chief Wahoo n. 3. Eastern Color, 1943

In effetti tra gli anni ’30 e ‘40 gli USA stavano mostrando più sensibilità verso i problemi degli Indiani delle riserve e tra il 1942 e il 1943 a Big Chief Wahoo furono anche dedicati sette albi dell’editrice Eastern Color. Ma a fine anni ’40 il governo avrebbe fatto marcia indietro, riprendendo la solita politica di espropri ai danni dei Nativi Americani. Nello stesso periodo anche Wahoo perse per così dire il proprio territorio, ovvero la sua strip, poiché fu soppiantato a sua volta da un personaggio più realistico, il giornalista bianco Steve Roper.
Quando Steve Roper fu introdotto, nel 1940, storie e disegni cominciarono a farsi più seri. Col tempo questo reporter investigatore acquistò sempre più importanza e dal ‘44 iniziò a dividere con Wahoo il nome nel titolo, restando l’unico protagonista nel 1947 quando il capo indiano sparì definitivamente dalla striscia.
Questi primi personaggi nativi americani dei fumetti restarono, e restano tuttora, del tutto inediti in Italia. All' inizio degli anni ’40 apparvero invece anche in edizione italiana un paio di fumetti con protagonisti e comprimari indiani come il già citato Little Hiawatha e soprattutto The Lone Ranger (Il Ranger Solitario).


1938-1949: Un indiano per amico

Nonostante il nome di Ranger Solitario, il famoso pistolero mascherato nato in un programma radiofonico del 1933 a cura del produttore George W. Trendle, dello scrittore Francis H. Striker e del direttore James Jewell, proprio solitario non è, visto che dall’undicesimo episodio, dopo meno di un mese di programmazione, gli fu stabilmente affiancato un amico indiano, semplicemente perché serviva un personaggio con cui farlo parlare. 

The Lone Ranger negli anni della radio...

 
Il pard di Lone Ranger, a parte il fatto di parlare un inglese un po’ stentato, era rappresentato con relativo rispetto e dignità, cosa all’epoca non così comune verso i Nativi Americani, né nei media né nella realtà, e ciò a dispetto di un nome davvero imbarazzante, Tonto, che anche in spagnolo ha lo stesso significato offensivo dell’Italiano. Evidentemente gli autori ne avevano scelto il nome senza sapere bene che cosa significasse.
È possibile che il nome Tonto fosse stato ispirato da quello della località dell’Arizona Tonto Basin (bacino dei Tonto) a sua volta derivato dalla tribù degli Apaches Tontos. Infatti tra i locali Nativi Americani tale parola spagnola aveva perduto il suo senso spregiativo, avendo acquistato invece il significato di selvaggio, ma nelle traduzioni in spagnolo di vari paesi il nome del personaggio fu comunque modificato in Toro, oppure Ponto.

The Lone Ranger Magazine, 1937

Comunque difficilmente Tonto poteva far parte di quella tribù dell’Arizona, poiché alla radio era invece identificato come il figlio di un capo dei Potawatomi e solo alla lingua di quel popolo potrebbe appartenere l’appellativo Kemo Sabe con cui l’indiano chiama Lone Ranger e che nella trasmissione era tradotto come Amico Fidato. Infatti il termine sarebbe stato ispirato al nome di un campo estivo del Michigan, stato che coincideva più o meno col territorio dei Potawatomi prima che la maggior parte di loro fosse cacciata a Ovest e in cui aveva sede anche la stazione radio WXYZ di Detroit che produceva inizialmente la trasmissione.
Ma Lone Ranger divenne presto un prodotto multimediale. Dal 1936 fu protagonista di una serie di romanzi usciti sulla collana economica The Lone Ranger Magazine e, tranne il primo, scritti dal suo autore originale Fran Striker. Il quinto volume dell’edizione cartonata pubblicato negli anni ’40 dalla Grosset and Dunlap fu intitolato The Lone Ranger and Tonto, a rimarcare l’importanza dell’ormai irrinunciabile pard indiano.

Tonto disegnato da Ed Kressy, 1938


Tonto disegnato da Charles Flanders

A partire dal 1938 invece, furono tratti da Lone Ranger due serial cinematografici e una serie di tavole e strisce a fumetti durata per oltre trent’anni. Anche in questo caso all’inizio i testi erano di Striker, ma solo per breve tempo, mentre i disegni per i primi mesi furono realizzati con stile semicaricaturale da Ed Kressy, per poi passare al più realistico Charles Flanders che proseguì la serie di strip fino alla sua conclusione nel 1971.
La coppia multirazziale Lone Ranger-Tonto in fondo è una versione americana di quella tedesca formata da Old Shatterhand e Winnetou, da cui può benissimo essere stata ispirata. Non sarebbe neanche l’unico caso, poiché qualche altra simile coppia mista apparve a fumetti sia in contemporanea che dopo Lone Ranger. 
 

Red Ryder e Little Beaver, 1942


A metà anni ’30 il cartoonist Fred Harman creò un ennesimo piccolo indiano con il bambino navajo Little Beaver (Castorino) che faceva da spalla al titolare di una sua serie western ambientata nel presente, un giovane cowboy di nome Bronc Peeler. Questi però non incontrò i favori del pubblico e Harman nel 1938 riutilizzò Little Beaver in una nuova serie di tavole ambientata a fine ‘800, con protagonista il più maturo e più fortunato Red Ryder, un eroico cowboy dallo spiccato antirazzismo proprietario di un ranch, che adotta il piccolo navajo. Nel periodo di maggior successo delle strisce di Red Ryder, trasposte in un lungo ciclo di film tra gli anni ’40 e ’50, anche Little Beaver fu titolare di una sua breve serie di albi, uscita tra il 1951 e il 1953.


La Piuma Verde. Albi del Vitt, Editrice AVE

Sempre nel 1938, da noi usciva a puntate sul settimanale Il Vittorioso la storia La Piuma Verde, scritta da Gianluigi Bonelli e disegnata da Antonio Canale, in cui il pioniere italiano Marco Valli, dopo essere emigrato nel West, fa amicizia con una tribù navajo e in particolare col guerriero Dardo Rosso. Quest’eroe italico creato da Bonelli padre, che aiuta i Navajo contro nemici sia bianchi che rossi che vorrebbero cacciarli dalle loro terre, si potrebbe considerare una sorta di prova generale di quello che poco più di dieci anni dopo diventerà Tex.


Le Straordinarie Vicende di Claudio. Albi AVE n. 22, 1941

Un’altra storia western pubblicata dal Vittorioso fu Le Straordinarie Vicende di Claudio, uscita sul n°22 degli Albi AVE nel Febbraio 1941, e incentrata su un coraggioso ragazzino italiano rapito e adottato dai Sioux. Qui testi e disegni, di un autore che si firma Rebus, sono di bassa qualità, ma ciò che è più ridicolo è la quantità di italiani in giro per il Nord-America, tra cui un cugino di Claudio arruolatosi nelle Giubbe Rosse per cercarlo. Comunque anche in questo caso gli italiani stringono relazioni amichevoli con una tribù indiana, mentre i mandanti del rapimento per una questione di eredità sono criminali americani. Anche l’ex-bandito Tito che risolve la situazione tradendo i complici, è naturalmente un italiano… del resto cosa ci si poteva aspettare in quegli anni da un’editrice chiamata AVE se non un esagerato nazionalismo?


Il Solitario della Foresta, 1a serie, episodio 1. Collana Albi Grandi Avventure - Nerbini, 1941

Dal 1941, in barba al divieto fascista contro i fumetti stranieri, la Nerbini pubblicò sul giornale Giungla! una selezione di storie di Lone Ranger, col nome italianizzato Il Solitario della Foresta, senza seguire l’ordine cronologico e guardandosi bene dall’attribuirne la paternità ai veri autori statunitensi. Subito dopo, sugli Albi Grandi Avventure di Nerbini con le tipiche copertine di Giove Toppi, furono raccolti una dozzina di episodi di quello che era chiamato anche il Cavaliere Mascherato. Il nome di Tonto fu invece lasciato invariato, forse perché nel periodo delle leggi razziali a quasi nessuno veniva in mente di non offendere le altre etnie.


Il Giustiziere del West e Penna d'Aquila

Dopo l’uscita di questa prima edizione italiana di Lone Ranger, si direbbe che Gianluigi Bonelli ne sia stato influenzato, poiché nel 1945 creò sul settimanale Il Cow-Boy un personaggio, disegnato da Giorgio Scudellari e altri, che si può considerare un erede diretto del Solitario della Foresta. Si chiamava Il Giustiziere del West, i suoi abiti e la maschera lo rendevano molto simile all’eroe di Striker e sarebbe bastato toglierla per ottenere un personaggio iconograficamente già vicinissimo al Tex che Bonelli avrebbe creato solo tre anni dopo. Anche il Giustiziere del West aveva un giovane amico indiano, dal nome non offensivo di Penna d’Aquila.
Nel dopoguerra altre storie a fumetti di Lone Ranger furono tradotte in Italia dalla stessa Nerbini, che già nel 1945 gli dedicò una nuova serie di soli due numeri sempre col nome Il Solitario della Foresta, e anche dalla Mondadori, che lo pubblicò sia su Topolino che sugli Albi d’Oro. In quest’ultima edizione, il nome del protagonista divenne Il Cavaliere Rosso per il colore della camicia che portava nelle tavole di quei primi anni.


Il Solitario della Foresta, 2a serie, n. 2. Collana Albi Grandi Avventure - Nerbini, 1945

Gli Albi d’Oro, per il loro formato, erano in pratica un equivalente nostrano degli albi americani, per cui quelli con Il Cavaliere Rosso corrispondevano in qualche modo agli albi di Lone Ranger pubblicati saltuariamente sulla collana Four Color della società editoriale Dell-Western a partire dal n. 98 del 1946. Questi raccoglievano storie complete del personaggio rimontando in formato verticale le tavole e le strisce orizzontali dei giornali, così come accadeva nel caso di Lone Ranger anche su certi albi precedenti della McKay Publications. La principale differenza rispetto alle edizioni Dell è che sugli Albi d’Oro le copertine erano disegnate da autori italiani e non riportavano la testata del personaggio contenuto all’interno ma solo i titoli dei singoli episodi.


Edizione italiana di Lone Ranger. Albo d'Oro n. 112 - Mondadori, 1948

Nel 1948 la Nerbini ristampò gli albi del Solitario della Foresta in una serie di quattordici numeri, usando per la prima volta anche il nome originale del personaggio, ma scritto Lon Ranger. Nello stesso periodo ne pubblicò anche una breve serie nel formato Albi d’Oro, con la testata Lone Ranger scritta correttamente.


Raccolta Lone Ranger. Nerbini, 1949


Intanto, sempre nel 1948, l’editore Baggioli pubblicava la breve serie di albi a striscia Il Figlio della Prateria, disegnata da Antonio De Vita, il cui protagonista sembrava quasi una fusione tra Lone Ranger e Tonto, trattandosi di un eroe indiano dall’abbigliamento simile a quello che l’eroe di Striker indossava nei fumetti.
Solo negli anni ‘40 fu messa a punto alla radio una versione definitiva e dettagliata dell’origine di Lone Ranger, da cui risultava che senza Tonto non avrebbe mai indossato la sua maschera, poiché era stato lui a salvare il ranger Reid soccorrendolo e curandone le ferite, dopo che certi fuorilegge avevano massacrato il gruppo di Ranger del Texas di cui faceva parte. La maschera sarebbe stata adottata da Reid per farsi credere morto, così da avere più libertà d’azione per vendicare i suoi compagni e in particolare suo fratello maggiore che era tra loro. In tal modo si intendeva giustificare l’aggettivo "solitario" nel senso di solo ranger superstite, visto che da quel momento al fianco dell’eroe sarebbe restato sempre il suo fedele amico indiano.


Il Figlio della prateria nn. 1 e 2. Editrice Baggioli, 1948

Nei telefilm di Lone Ranger prodotti dal 1949, in cui tale origine fu confermata, Tonto divenne tra l’altro uno dei primi personaggi indiani di rilievo a cui diede il volto un vero nativo americano. Infatti fu interpretato dall’attore canadese Jay Silverheels (Jay Tacchi d’Argento), appartenente alla nazione irochese dei Mohawk.


The Lone Ranger (Clayton Moore) e Tonto (Jay Silverheels) nella serie TV degli anni '50.

In quel periodo la Dell-Western aveva da poco inaugurato la prima serie regolare dell’albo a fumetti The Lone Ranger, che partì con una propria testata nel Gennaio del 1948. Inizialmente anche in questa serie le storie erano ristampe rimontate delle strip dei giornali, ma dal n. 38 del 1951 queste furono sostituite da episodi inediti realizzati dallo sceneggiatore Paul S. Newman e dal disegnatore Tom Gill, autori anche di tutti i numeri successivi fino al 145 con cui quella serie si interruppe nel 1962 - centosette albi che costituiscono uno dei cicli più lunghi realizzati da una singola coppia di autori su una collana a fumetti statunitense. Inoltre la Dell pubblicò anche tre annuali e l’albo speciale The Lone Ranger Movie Story, contenente l’adattamento a fumetti del film del 1956, con cui si iniziarono a produrre dei veri e propri lungometraggi del personaggio.


The Lone Ranger, 1a serie, n. 1. Dell, 1948


The Lone Ranger, 1a serie, n. 89. Dell, 1955

Col successo dei telefilm di Lone Ranger e l’inizio della produzione di albi inediti, anche Tonto da semplice spalla passò a essere titolare di una propria serie a fumetti. Nel suo caso ne uscirono trentatre numeri, pubblicati dalla Dell dal 1951 al 1959, di cui il primo albo apparve come n°312 della collana Four Color, mentre dal n°3 la testata divenne The Lone Ranger’s Companion Tonto. Anche nella versione a cartoni animati di Lone Ranger, messa in onda dalla CBS tra il 1966 e il 1968, ogni trasmissione conteneva un episodio di cui Tonto era protagonista da solo, oltre ad altri due in cui faceva coppia con l’eroe titolare. Così in pratica, nei fumetti come nei disegni animati, Tonto finiva per vivere più avventure di Lone Ranger.


The Lone Ranger's Companion Tonto n. 4. Dell, 1952



The Lone Ranger, 2a serie. Gold Key, anni '60

Una seconda serie di albi a fumetti di Lone Ranger iniziò nel 1964, a breve distanza dalla prima e sempre prodotta dalla Western Publishing,  ma sotto il nuovo marchio Gold Key, perché intanto si era separata dall’editrice Dell Comics. A lungo si trattò di semplici ristampe di storie già pubblicate nella prima serie e solo col n. 22 del 1975 apparvero avventure inedite, terminate per l’interruzione della serie col n. 28 del 1977. 


Lone Ranger n. 3. Cenisio, 1978

 
Storie di Lone Ranger della Western furono tradotte in Italia dalla Cenisio tra il 1967 e il 1973 nella collana di tredici numeri Il Re della Prateria e nel 1977, in una serie ancora più breve con la testata originale. In seguito Lone Ranger riapparve in Italia in due edizioni amatoriali, una del Club Nostalgia, che sulla Collana Argento tradusse i primi episodi inediti di Flanders, e l’altra della Nerbini, che ristampò i primi albi degli anni ’40.

The Lone Ranger di Cary Bates & Russ Heath, anni '80

Mentre da noi Lone Ranger non ebbe mai molta fortuna, negli Stati Uniti il suo passato successo multimediale ne giustificò la riesumazione innanzitutto in una nuova serie di strisce pubblicata per breve tempo sui quotidiani tra il 1981 e il 1984, coi testi di Cary Bates e i disegni di Russ Heath. Un paio di quelle storie furono raccolte nel 1993 dalla Pure Imagination Publishing sul primo albo di quella che doveva essere una nuova serie di The Lone Ranger, ma che non ebbe seguito. In pratica la terza serie chiuse sul nascere.


The Lone Ranger and Tonto n. 1. Topps, 1994

Seguì nel 1994 una miniserie inedita di quattro albi pubblicata dalla Topps Comics e significativamente intitolata per la prima volta The Lone Ranger and Tonto. La storia scritta dal romanziere Joe R. Lansdale, disegnata da Timothy Truman e inchiostrata da Rick Magyar, rende infatti un po’ più di giustizia al ruolo di Tonto. Questi parla ora in perfetto Inglese e si lamenta del linguaggio sgrammaticato e un po’ servile che gli è attribuito nei romanzi pulp, così come del trattamento riservatogli dalla stampa, che se parla di lui lo relega sempre al ruolo del semplice aiutante. Ciò finisce per rendere molto tesi i rapporti tra i due amici, che devono indagare su un furto di reperti aztechi, tanto che all’inizio della storia sembrano volersi dividere.


The Lone Ranger & Tonto n. 1 - Dynamite, 2007

Per una collana più lunga di Lone Ranger si dovette aspettare il 2006, quando l’immediato successo di una nuova pregevole miniserie, prevista in sei albi, spinse l’editrice Dynamite Entertainment a trasformarla l’anno dopo in una serie regolare. La numerazione proseguì col n. 7 e gli autori restarono gli stessi: Brett Matthews ai testi, Sergio Cariello ai disegni e John Cassaday alle copertine. Solo il colorista Dean White fu sostituito da Marcelo Pinto. Si tratta di una nuova versione più elaborata, raffinata, adulta e inevitabilmente più violenta di Lone Ranger, che ha aperto la strada al film del 2013 in cui il ruolo di Tonto è interpretato da un attore in parte d’origine indiana come Johnny Depp. È questa l’edizione ora pubblicata in Italia dall’Editoriale Cosmo.


Tonto disegnato da Sergio Cariello. Da The Lone Ranger n. 2. Dynamite, 2006



Lone Ranger n. 6. Dynamite, 2007 (dettaglio di copertina)

 
Conclusasi col n°25 a inizio 2011, questa quarta serie regolare del Ranger Solitario (che per la Dynamite è il vol. 1) comprende quattro archi narrativi, poi raccolti ognuno in un singolo volume. Il primo numero della Cosmo contiene i primi sei albi, costituendo un racconto completo che equivale al primo volume dell’edizione paperback americana, ma formato e prezzo dell’edizione italiana sono abbastanza inferiori. Anche i colori sono riprodotti fedelmente con buona qualità, nonostante la carta relativamente economica degli albi Cosmo.

The Lone Ranger, 4a serie, n. 7 (retro). Dynamite, 2007

Questa prima storia della Dynamite narra la vicenda delle origini di Lone Ranger, in cui il giovane John Reid sarebbe ucciso coi suoi compagni dagli assassini al soldo di Butch Cavendish, se non intervenisse un Tonto dal carattere più difficile e indipendente del solito. Rispetto alla versione originale ci sono naturalmente varie differenze. Qui a morire nell’agguato non è solo il fratello di Reid ma anche suo padre, mentre Cavendish ora non è più un semplice capobanda ma uno spietato politico che non si espone in prima persona e a cui la presenza dei ranger dava fastidio. Inoltre Tonto è così bravo a uccidere che elimina da solo i dieci assassini responsabili dell’agguato e per tutto ringraziamento il febbricitante e confuso eroe della storia cerca di sparargli… Tra l’altro qui sembra che Tonto non sia il vero nome del personaggio, ma solo il modo in cui si è abituato a sentirsi chiamare e per questo dice al suo nuovo amico che se vuole anche lui può chiamarlo così.
Diverso dalle vecchie versioni è anche lo stile dei disegni di Cariello, che ricorda molto quello di Joe Kubert e per qualità grafica, espressività e dinamismo regge benissimo il confronto col grande maestro scomparso, il ché non è poco. Molte delle sue vignette hanno un’impostazione orizzontale affine a quella dello schermo cinematografico ed evocativi in questo senso sono anche i bei colori di Dean White, che pur essendo realizzati al computer, nell’ariosità dei cieli e degli sfondi sembrano a volte dei veri acquerelli, mentre nei flashback resi con atmosfere un po’ fumose e graffiate riproducono lo stile dei dagherrotipi dell’epoca.

The Lone Ranger, 4a serie, n. 24. Dynamite, 2010

Ma il nuovo corso del personaggio non termina qui. Parallelamente alla serie regolare, tra il 2007 e il 2012 la Dynamite ha prodotto altre tre miniserie di Lone Ranger. La prima, intitolata The Lone Ranger & Tonto e da non confondere con quella omonima della Topps di tredici anni prima, è composta da quattro numeri usciti con cadenza più o meno annuale tra il 2007 e il 2010, contenenti singoli episodi scritti da Brett Matthews e Jon Abrams e realizzati da diversi disegnatori, a partire da due albi dalle atmosfere piuttosto inquietanti.

The Death of Zorro n. 1. Dynamite, 2011

Invece, nei cinque numeri di The Death of Zorro (La Morte di Zorro), usciti nel 2011, i due celebri eroi mascherati appaiono insieme, con Lone Ranger che deve vendicare il più anziano Zorro. Seguono i quattro numeri di Snake of Iron (Serpente di Ferro), usciti nel 2012, che si svolgono presso un treno assaltato da una banda di Kiowa per liberare il figlio del loro capo. In questa mini scritta da Chuck Dixon, disegnata da Esteve Polls e con le copertine di Dennis Calero, il protagonista risulta essere Tonto più che il suo compagno mascherato, visto che dei due è lui che si trova a viaggiare sul treno come passeggero e che deve fronteggiare la situazione più difficile, in attesa che Lone Ranger arrivi infine al salvataggio con la cavalleria.

The Lone Ranger: Snake of Iron n. 2. Dynamite, 2012

Del resto nelle serie della Dynamite come in quella della Topps, Tonto è un protagonista del tutto alla pari con Lone Ranger… anzi, data l’inesperienza del suo nuovo amico bianco, all’inizio è l’indiano ad assumere il ruolo del mentore, aiutando un ranger che è poco più che un ragazzo a prepararsi alla missione di vendetta che si è scelto e in seguito criticando a più riprese la mentalità dominatrice della maggior parte dei bianchi. Ciò che Tonto impara a sua volta dal giovane Reid è a non uccidere più i propri simili, mentre quella che rimane una tipica costante della serie è che i due pard fanno a gara di continuo a salvarsi a vicenda.


The Lone Ranger 5a serie, n. 2. Dynamite, 2012

Dal 2012 è uscita poi una quinta serie regolare di Lone Ranger (il vol. 2 della Dynamite). Anche questa si è conclusa col n. 25, nel 2014, ed è composta da tre lunghi cicli narrativi che dal n. 19 lasciano il posto a brevi episodi singoli, tutti scritti da Ande Parks, disegnati da Esteve Polls e con le copertine dallo stile sintetico e affascinante dell’italiano Francesco Francavilla, premiato per il lavoro su quest’albo con un Eisner Award.
L’autore che si conferma come il più presente sugli albi Dynamite di Lone Ranger dal 2007 è però il colorista Marcelo Pinto, il cui cognome coincide curiosamente col soprannome con cui Tonto chiama il suo cavallo e che in spagnolo significa “pezzato”. Pinto conferisce una caratterizzazione comune alle serie di Lone Ranger di disegnatori diversi, attraverso toni cromatici che non fanno rimpiangere quelli di White. Pur usando il computer anche lui crea toni e sfumature dettagliati, vagamente simili a dipinti d’epoca, fondendo la grafica digitale con elementi che si direbbero davvero dipinti a mano come gli effetti a tempera di certi cieli nuvolosi.

The Lone Ranger 5a serie, n. 4. Dynamite, 2012

In vari episodi appaiono flashback sul passato di Tonto, fin dai rituali d’iniziazione che segnarono il passaggio dalla sua infanzia all’età adulta, in cui dovette confrontarsi duramente con la natura selvaggia per conseguire una propria visione, che una volta ottenuta non risultò molto di buon auspicio. Nella storia Native Ground (Terra Natia), pubblicata dal n. 7 al n. 12 del 2012, la tribù di Tonto è descritta come appartenente a una nazione che si definisce il Primo Popolo, cacciata dalle sue terre dai Bianchi e costretta a spostarsi a Ovest. Potrebbero essere i Potawatomi originari del Michigan, in accordo con la serie radiofonica originale.

The Lone Ranger 5a serie, n. 7. Dynamite, 2012

Nella stessa storia scopriamo che, prima che Tonto si unisse a Lone Ranger, sua moglie e suo figlio furono uccisi da un gruppo di soldati, che avevano attaccano il loro pacifico villaggio mentre cercavano una banda di guerrieri di un’altra tribù. Quasi tutti quei soldati sono poi uccisi da Tonto per vendetta, in una sequenza forte che nelle storie di un tempo non sarebbe stata accettata ma che, per quanto rude e violenta, descrive sia l’esigenza di un popolo di ribellarsi alle ingiustizie subite che l’incontrollata escalation che può essere innescata dalla violenza. Tonto infine vi pone termine risparmiando la vita al più giovane dei soldati, ma ciò non impedirà, anzi renderà più facile, che in seguito sia ricercato per quegli omicidi, ai suoi occhi giustificati.
Evidentemente è a causa di questa successione di eventi che Tonto non ritorna più alla sua tribù e che finisce per unirsi a Lone Ranger, di cui può ben comprendere il desiderio di vendetta. Tutto questo lo rende un personaggio molto più duro, sfumato e complesso della semplice spalla indiana di un tempo.

The Lone Ranger 5a serie, n. 10. Dynamite, 2012


 
Sitting Bull n. 2 di Marijac & Dut. Glénat, 1979

Nei media statunitensi l’argomento dei massacri inflitti ai Nativi Americani da parte dei Bianchi fu a lungo tabù, mentre al contrario i massacri compiuti dagli Indiani venivano rievocati continuamente. Non è quindi un caso se uno dei primi fumetti che trattarono le Guerre Indiane in modo un po’ più obiettivo non apparve negli USA ma in Francia e precisamente sul settimanale Coq Hardi, tra il 1948 e il 1953. Il racconto di quasi trecento pagine intitolato Sitting Bull (ovvero Toro Seduto), scritto dal fondatore e autore principale del giornale Marijac (Jacques Dumas) e disegnato da Dut (Pierre Duteurtre), è in generale più vicino alle approssimazioni stile Salgari che alle vere testimonianze storiche. Per esempio nella rivolta contro gli invasori bianchi, i Sioux di Sitting Bull si ritrovano ad allearsi con i Navajo, che nella realtà vivevano molto più a sud.


Sitting Bull n. 4, anni '70

Conferma tale disinvoltura il fatto che siano coinvolti arbitrariamente nella vicenda personaggi storici che non c’entrano granché, come un caricaturale Jim Bridger e un eroico Wild Bill Hickock, che gli Indiani chiamano Sguardo Leale e i cui duelli con Sitting Bull, in realtà mai avvenuti, si svolgono con reciproco rispetto.
Comunque era già tanto che la serie di Marijac e Dut fosse intitolata a un eroe indiano e non al solito pistolero bianco. Tra l’altro il sottotitolo Le Chevalier Rouge (Il Cavaliere Rosso) non si riferiva tanto al fatto che il protagonista fosse un guerriero a cavallo, ma soprattutto una persona di animo nobile, infatti Toro Seduto è rappresentato come un capo fiero e valoroso ma anche pieno di saggezza e pietà umana. 

Sitting Bull, da Silvestro n. 28. Cenisio, 1963

 
Inoltre Sitting Bull è uno dei primi fumetti in cui si mostrano soprusi e violenze compiute dall’esercito statunitense ai danni di villaggi indiani più o meno inermi e pacifici, con una giovane maestra bianca che in una scena tenta inutilmente di opporsi ai soldati mentre questi deportano con la forza vecchi, donne e bambini. Il tutto è reso da Dut con disegni che forse oggi non sarebbero considerati raffinatissimi, ma che per quei tempi erano invece molto espressivi e adeguati al taglio drammatico e sanguigno della vicenda.
Sitting Bull uscì anche in Italia in ben tre serie di albi pubblicate tra il 1949 e il 1955 da tre diversi editori (Della Casa, Ippocampo e Selene) e nei primi anni ‘60 fu pubblicato anche in appendice agli Albi di Silvestro della Cenisio. In Francia invece fu raccolto in dodici albi pubblicati dalla MCL tra il 1970 e il 1971, in cui il sottotitolo divenne Il Napoleone Rosso, e poi in due volumi usciti nel 1978 e nel 1979 editi dalla Glénat.

Il Piccolo Sceriffo n. 12. Torelli, 1948

Intanto da noi nel 1948 era esploso improvvisamente il successo degli albi con Il Piccolo Sceriffo di Tristano Torelli e Camillo Zuffi, il cui West era quanto di più approssimativo potesse esistere, con indiani che, nonostante si dica che la prateria è stata pacificata, sono descritti esclusivamente come infide “belve assetate di sangue” sempre pronte a tradire e massacrare appena si volta loro le spalle, i cui capi hanno anche nomi improbabili e denigratori come Diavolo Zoppo. La descrizione dei Nativi Americani è qui insomma del tutto politicamente scorretta e piena di pregiudizi, magari più per mancanza d’informazioni che altro.
Ma tra le tante imitazioni che sorsero rapidamente con la parola “piccolo” nella testata, non poteva mancare una serie su un ragazzino indiano, Piccola Freccia, scritta da Gianni De Simoni, disegnata da Ferdinando Corbella e pubblicata nel 1949 dallo stesso editore, Torelli, anche se di certo le sue vendite non riuscirono neanche ad avvicinarsi a quelle del capostipite, visto che cambiò due volte editore in un paio d’anni. Basta poi lo stile dei disegni e l’abbigliamento del protagonista - un giovane indiano che indossava anche giacche di pelle a quadretti (forse perché era a quadretti la camicia del Piccolo Sceriffo…) - a far intuire come dovessero essere piccoli a loro volta i lettori a cui si rivolgeva questa serie. In quella del giovane sceriffo Kit erano invece presenti toni ben più cupi e pericoli estremamente drammatici, per cui i ragazzini che si identificavano con lui potevano sentirsi catapultati in un mondo molto simile a quello degli adulti, pur fra tante imprecisioni.


Piccola Freccia. Editrice Nika, dicembre 1950


Nello stesso periodo in cui il fumetto western iniziava ad affermarsi in Italia, dopo la fine della II Guerra Mondiale anche gli editori specializzati americani, crollate le vendite dei Supereroi, si stavano buttando sullo stesso genere, i cui protagonisti armati non più di doti sovrumane ma di Colt presero a moltiplicarsi dal 1948. Non fu trascurato neanche il sottogenere indian western, con protagonisti i Nativi Americani, per cui dal 1949 si cominciò ad assistere anche al proliferare di personaggi che si collocavano a metà tra le due culture, quella dei nativi e quella dei colonizzatori, che fossero bianchi adottati dai Pellerossa o viceversa.
Ne parleremo dettagliatamente nella seconda parte di questo articolo, che sarà dedicata a quel periodo particolarmente ricco di fumetti western che va dal 1950 al 1970, in cui se la maggior parte dei protagonisti non erano ancora del tutto filo-indiani, alcuni di loro stavano però già avviandosi decisamente a diventarlo.


Andrea Cantucci


N.B. Trovate i link alle altre puntate dell'Angolo del Bonellide su Cronologie & Index!

1 commento:

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