sabato 10 gennaio 2015

DIME WEB INTERVISTA GIUSEPPE LIPPI! (LE INTERVISTE XIII)

a cura di Francesco Manetti

L'uomo che visse nel futuro

Per una volta - e col suo permesso - rubo la scena al nostro carissimo amico e inviato speciale Franco "Frank Wool" Lana e mi occupo io della nuova intervista - la XIII di Dime Web (dopo quella rilasciataci da Andrea Pasini) e la prima del 2015. Non è un caso se (ri)partiamo con questo nome di gran caratura! In quest'anno celebriamo infatti i 25 anni di Giuseppe Lippi nelle vesti di curatore e responsabile di "Urania", LA rivista di fantascienza per antonomasia in Italia, edita da Mondadori, sulla quale atterrò dopo aver percorso svariati anni-luce come traduttore, scrittore, saggista, critico... Quasi mezzo secolo a spasso negli spazi intergalattici, nelle realtà alternative, nei domani imperfetti e fra le rovine delle più impensabili apocalissi - dunque! Ma non solo... Giuseppe è da tempo ben noto anche al pubblico di più stretta osservanza bonelliana, per i suoi ficcanti articoli sulla Collana Almanacchi e quant'altro, vergati come grande esperto del fumetto, del cinema e della narrativa "di genere". Lascio ora a lui la parola: rispondendo in maniera esaustiva e brillante alle mie sette domande (o spunti di riflessione che dir si voglia) Giuseppe Lippi apre un wormhole nel multiverso della sua esperienza... accende un suo personale Aleph sul passato, sul presente e su quello che verrà!


Giuseppe Lippi, dall'Urania Blog. Immagine di Franco Brambilla con foto di Giorgio Raffaelli.



DIME WEB - Vuoi raccontare ai lettori di DW, Giuseppe, cosa facevi, scrivevi, pubblicavi... nel mondo della fantascienza e del fantastico, prima di approdare a “Urania”?

GIUSEPPE LIPPI - Ho cominciato a lavorare a ventiquattro anni, nel 1977, come redattore di Armenia Editore. Mi aveva fatto assumere Vittorio Curtoni, inseme al quale mi occupavo delle riviste “Robot”, “Gli arcani”, “Psyco” e le corrispondenti collane librarie, dai “Libri di Robot” ai “Libri della paura”. Questo è durato fino al 1979; dopo la chiusura di “Robot” e le dimissioni di Vittorio, sono andato avanti per un altro anno e poi quell’esperienza si è conclusa in modo abbastanza brusco. A questo punto ho fatto il traduttore per circa un decennio: il mio cliente privilegiato erano gli Oscar Mondadori per i quali non mi limitavo a tradurre ma fornivo consulenze editoriali. Agli Oscar ho lavorato con due editor molto sensibili, Glauco Arneri e Ferruccio Parazzoli, dal 1980 al 1995. Intanto il manager del settore, Leone Buonanno, mi teneva d’occhio per il lavoro che avevo svolto agli Oscar fantascienza e nel 1989 mi chiamò a occuparmi anche di “Urania”, sostituendo Gianni Montanari. Gianni era stato assunto da una coppia di editor, Laura Grimaldi e Marco Tropea, che nel dicembre 1988 si erano dimessi per contrasti con l’azienda. Ne andò di mezzo anche il curatore di “Urania”, figura peraltro benemerita, e fu così che arrivai al timone della “più famosa collana di fantascienza”. Ho firmato il mio contratto nel febbraio ’89, ma Montanari aveva lasciato un anno di produzione già pronta, come aveva fatto Vittorio all’epoca delle sue dimissioni da Armenia/”Robot”, e le mie prime scelte personali sono apparse soltanto dall’inizio del 1990. Per anni ho curato un mucchio di collane: “Urania”, “Classici Urania”, “Urania Fantasy”, “Urania Horror”, “Millemondi” e le librarie “Altri Mondi”, “Fantasy”, “Omnibus del fantastico”, “Mystbooks”. Un lavoro da capogiro… 


La rivista "Robot" della Armenia
 

DW - Ci vuoi raccontare di Urania, dei suoi curatori, degli autori pubblicati, delle copertine e di Karel Thole prima del tuo arrivo?

GL - Su tutto questo ho scritto un libro corposo e illustrato, che ho consegnato all’editore di "Profondo Rosso", Luigi Cozzi, ormai da un anno e mezzo e al quale vi rimando. Si intitola Il futuro alla gola: una storia di Urania e dovrebbe uscire entro pochi mesi, ma recentemente Luigi ha avuto seri problemi di salute e c’è stato un nuovo slittamento. In breve, dirò che “Urania” ha rappresentato la moderna “Medusa” o la biblioteca di Babele della fantascienza, una serie che tenta di ammaliare il lettore, di conquistarlo un numero dopo l’altro in un racconto senza fine. Per oltre mezzo secolo ha cantato con la voce di una sirena, mettendo a disposizione del lettore moderno una sorta di “Mille e una notte” da edicola. Non tutte e mille insieme, naturalmente: una notte al mese o ogni quattordici giorni, senza mai spezzare il filo. Il mio compito, come quello dei miei predecessori Giorgio Monicelli e la coppia Carlo Fruttero-Franco Lucentini, è un po’ lo stesso di Sheherazade, e guai a interrompersi…!
Ci sono state altre collane benemerite e anche sofisticate, ma io credo che tutte si siano modellate, quale più quale meno, sull’esperienza di “Urania”. Da “Galassia” a “Cosmo argento”, da “Futuro” Fanucci ai “Libri di Robot”, hanno svolto una funzione che, a volte con mezzi economici o una consapevolezza maggiore, portasse avanti il discorso cominciato da “Urania” nel lontano 1952. 


Agli albori di Giuseppe Lippi al timone di "Urania": il n. 1125 del 22 aprile 1990 (disegno di Vicente Segrelles), su cui apparve, tra l'altro, il suo articolo Un po' di storia...
 

DW - Ci vuoi parlare della tua esperienza in Urania – nel passato, nel presente e... nel futuro? Inizio, scelte editoriali, incontri, aneddoti...

GL - Parlo anche di questo nel Futuro alla gola. Per me, dopo venticinque anni (sto per compierli in febbraio), la cura di “Urania” e collane consorelle non è più soltanto un incarico di lavoro: è una parte consistente della mia vita. Non che manchino le sfide, le difficoltà e gli intoppi, come in tutte le esistenze, ma in questa c’è il senso di una profonda identificazione: seguo “Urania” da oltre cinquant’anni, prima come lettore e poi come responsabile, e anche se non vorrei che qualcuno riducesse la mia esperienza a questo, è indubbio che “Urania” l’abbia condizionata profondamente. All’inizio la redazione era diretta da Gian Franco Orsi, a capo anche dei Gialli, e amministrata per il lavoro quotidiano da Marzio Tosello e Stefano Di Marino. Poco dopo Stefano uscì dalla squadra per fare lo scrittore a tempo pieno e il traduttore, mentre Marzio, il caporedattore, andò in pensione un po’ più tardi, nel ’94. Nel ’95, ritiratosi anche Gian Franco Orsi, le redini della divisione furono prese da Stefano Magagnoli, con il quale traghettammo “Urania” verso la nuova formula voluta dalla casa editrice: il tascabile mass market. Nello stesso periodo, purtroppo, dovemmo rinunciare alle numerose collane librarie del settore, concentrandoci sull’edicola o su libri dalla veste decisamente economica. Gli illustratori che si sono avvicendati sulle copertine, li ricordo tutti con affetto: Oscar Chichoni che lavorava a Londra, Marco Patrito a Torino, i molti milanesi, lo spagnolo Vincente Segrelles che mi piaceva soprattutto sui Classici, fino a quel Franco Brambilla – titolare ancora oggi – che da quindici anni ha impresso un look moderno alla famiglia di “Urania”, identificandosi con essa come era successo soltanto con Curt Caesar e Karel Thole.

Uno dei celeberrimi "tondi" di Karel Thole


Di Thole posso dirti che abbiamo collaborato al tempo dei miei esordi, quando curavo le collane di Armenia Editore/Siad, poi occasionalmente in seguito, ma ormai si era ritirato dalla professione per la ben nota malattia agli occhi. Sul piano personale, invece, siamo rimasti amici per quasi trent’anni: l’ho conosciuto nel 1972, all’Eurocon di Trieste, e lui è morto nel 2000, un lungo arco di tempo durante il quale ho potuto frequentare l’uomo oltre che l’artista. L’artista Thole mi ha semplicemente dato la sveglia, fin da quando ero un ragazzo. Mi ha fatto capire che inventiva, buon gusto e un sano brivido di terrore sarebbero stati il mio pane quotidiano. Se si legge la fiaba dei Grimm intitolata “Storia di uno che se ne andò in cerca della paura”, si scopre che farsi venire la pelle d’oca è soltanto questione di fantasia, a meno che non ci buttino in testa una bella secchiata d’acqua fredda. Thole ha illustrato sua l’una che l’altra via, mostrandoci il potere dell’illusione e, nello stesso tempo, il grande artificio che ne è alla base.


Karel Thole

Per quanto riguarda le scelte, ho dovuto tenere presenti il mercato e l’evoluzione del genere negli anni Novanta e Duemila, un ventennio molto interessante, ma ho anche cercato di attenermi a un’istintiva linea di condotta personale. Io credo in una fantascienza che abbia alle spalle una solida base di conoscenze (scientifiche, tecnologiche, eccetera) ma soprattutto un pensiero, un modello del mondo da offrirci e da ribaltare insieme a noi, scoprendone i lati insospettabili. Senza questa visione d’insieme, senza il tentativo di darci un’immagine coerente – anche se visionaria – dell’universo, la sf non avrebbe molto da dire. Sarebbe soltanto una variante del racconto di avventure. Nella mia carriera ho pubblicato molti racconti di avventure, ma mai (spero) fini a se stessi: da qualche parte deve esserci l’indicazione di un passaggio ulteriore, il desiderio di una maggior consapevolezza. L’universo è immenso, non ci sarà mai il tempo di prenderne coscienza globalmente, ma è bello nutrire l’illusione che potremmo farlo, con nuove facoltà della mente o con l’immaginazione, se non con il corpo limitato che abbiamo. In questo modo conosceremmo un po’ meglio gli anfratti della realtà e le incognite possibili, come avviene nella letteratura di qualsasi genere. Il cuore della fantascienza sta nel tentativo di conoscere se stessi, oltre i limiti.


William Gibson, uno dei padri del cyberpunk
 

DW - Cosa significa “grande fantascienza/fantastico” per Giuseppe Lippi?

GL - Qui bisogna stare attenti, io non vendo ma anzi compro, tento di acquisire cosette pregiate o quantomeno gustose, per cui non ho bisogno di ricorrere a termini come “grande fantascienza”, “grande fantastico” e simili. I lettori non si aspettano frasi d’imbonimento smaccate, anche se hanno imparato a rispettare certe iperboli, quelle che fanno parte del gioco di prestigio. In definitiva, siamo noi a fare grandi le cose che amiamo e la fantascienza che mi piace di più è quella che bara soltanto un poco sul conto della realtà: sa che è fitta di punti interrogativi, sa che non è a misura d’uomo e ci fornisce un abbozzo di queste difformità, di questo grande puzzle. È uno spettacolo di magia, come a teatro: accettate certe premesse, il trucco c’è ma non si vede e quando l’artificio del racconto funziona bene, il resto è perdonato. Il genere, a mio avviso, perde un po’ di mordente quando si traveste da chiromante, scende nelle strade e si affanna a prevedere futuri prossimi come Miriam quando legge le carte… So che ci sono molti fan dell’ucronia e dell’antiutopia e cerco periodicamente di accontentarli, ma poi bisogna trovare qualcos’altro. Il cyberpunk ha rappresentato, per dieci o quindici anni, questa alternativa, il diario della rivoluzione informatica, ma quando ha concluso il suo ciclo ci siamo trovati con il fiatone, stufi di certi fondali, di certe risorse, delle realtà simulate o virtuali in serie… Per me, con tutto l’amore per lo steampunk che è venuto dopo, il core business della fantascienza è pur sempre il mondo nel suo complesso, intendendo con questo il mondo fisico e quello percettivo che ce ne dà l’immagine; quando è possibile, la loro combinazione si risolve nella più solida delle equazioni narrative o cinematografiche. Faccio due esempi di mie “scelte ideali”, anche se poi, nella cronaca, sono state fatte da altri: Solaris di Lem e 2001 di Clarke-Kubrick. Neuromante di William Gibson ha aperto strade nuove per un decennio, ma in una visione che resta parziale. Forse un nuovo Lem, per audacia delle ipotesi, lo abbiamo avuto in Greg Egan, ma è un autore difficile e non dichiaratamente “umanista”, certo molto meno del suo predecessore polacco.

Lo steampunk, che qualcuno ha definito Victorian Futurism...

DW - Ci dai un tuo parere sulla fantascienza italiana, per esempio sulla cosiddetta “scuola dell’ucronia”?

GL - Credo che la fantascienza italiana possa fare molto e non solo nel campo dell’ucronia, che è uno fra i tanti rami del genere. Basta vedere quello che si è inventato Dario Tonani dopo la partenza molto “cyber” e apocalittica della serie di Infect@, per approdare all’affresco planetario di Mondo 9. Un curatore non deve influenzare gli autori ma solo apprezzarne i risultati, e tuttavia a me sembra di poter stimolare i migliori scrittori a cambiare, a voler sperimentare nuove strade… L’altro importante filone emerso in questi anni è il fantanoir, il poliziesco fantascientifico a forti tinte, ma con il tempo bisogna immaginare nuove possibilità. 


Mondo9, dal blog Il futuro è tornato
 

DW - Cosa significa “grande fumetto”, italiano e internazionale, per Giuseppe Lippi?

GL - Il fumetto al quale sono legato è quello popolare, da edicola, mentre sono meno abituato alla graphic novel. Il fumetto è un linguaggio che non ha bisogno di posare ad arte, anzi dà spesso il meglio di sé quando la cela. Sono un appassionato del racconto per immagini, e per quanto mi renda conto che l’innovazione sia indispensabile, prediligo, come in letteratura, il racconto a tutto tondo, meglio se condito da una dose di humour. Non è qualcosa di legato a un’epoca, a uno stile: due anni fa ho letto la saga completa di capitan Miki creata dalla esseGesse nel 1951 e l’ho trovata godibile, tutt’altro che banale, con soluzioni geniali anche da un punto di vista contemporaneo. In un buon fumetto il disegno è la cosa che guardo per prima, ma se la sceneggiatura non è solida e personale, non ci sono santi: il risultato sarà azzoppato e le eccezioni sono rarissime… Per concludere, il miglior fumetto per me è quello che non si propone di abbagliare o stordire con gli effetti speciali ma di sedurre con mezzi umani e bravura artigianale. I grandi narratori, in questo campo, sono stati Lee Falk, Alex Raymond, Hugo Pratt, Gian Luigi e Sergio Bonelli, le sorelle Giussani, Max Bunker e Magnus, Carl Barks, Romano Scarpa, Stan Lee, scegli un po’ tu, fino a Charlier, Moebius e Alan Moore. Un’eterogenea compagnia di talenti visuali e letterari dai quali non si può prescindere, mentre non posso pronunciarmi sul mondo dei manga che conosco troppo poco.


Sotto il segno dell'EsseGEsse: l'originale della copertina di una strisca di Capitan Miki


DW - Puoi raccontarci quella che è stata la tua esperienza presso la Sergio Bonelli Editore: gli articoli, gli incontri con gli autori, la redazione...?

GL - Sergio Bonelli mi reclutò tra il 1995 e il ’96, proponendomi come recensore in alcuni casi, altre volte come biografo del fantastico e del giallo. Ma siccome i miei interessi non si limitano a quei generi, la redazione mi ha affidato col tempo saggi sull’avventura, il western e la fantasy-horror. Ho incontrato tante volte il compianto Sergio, sentendomi affine a lui perché lavorava in editoria come un appassionato e amava spendere la sua ricchezza insieme agli altri, amici e collaboratori. Andavamo a pranzo insieme almeno una volta all’anno, in genere d’estate, ma qualche volta mi ha rimproverato di non farmi vedere più spesso in via Buonarroti, e comunque da lui personalmente… Il fatto è che per il lavoro quotidiano ero agganciato a Graziano Frediani e Luca Crovi, ottimi colleghi, ed è nel loro ufficio che nascevano le idee per gli articoli futuri, poi debitamente sottoposte a Sergio Bonelli. Lì ho conosciuto e stretto amicizia con Alfredo Castelli, Maurizio Colombo, Antonio Serra, Moreno Burattini, Mauro Boselli eccetera. L’ultima volta che sono andato a trovare l’editore è stato nel 2011, a fine giugno o i primi di luglio: con Sergio, Luca e Graziano c’era anche Davide Bonelli, che di lì a poco avrebbe ereditato la casa editrice paterna. Per loro ho adottato una formula di scrittura ad hoc: non tanto idee astratte o la teoria quanto il racconto dei fatti, le biografie dei grandi autori o dei grandi personaggi dei “generi” come se fossero nostri contemporanei, creature esistenti al nostro fianco. Una volta Sergio mi sconsigliò dall’introdurre nozioni storiche troppo puntigliose: per esempio, il fatto che Giulio Cesare fosse stato rapito dai pirati sapeva (a detta sua) di manuale scolastico, qualcosa di troppo distante dai lettori... È un punto di vista come un altro, ma significava che non bisognava deviare dalla strada maestra. E la strada maestra era quella della cronaca: la cronaca di un’avventura.


L'Almanacco del Mistero 2015, al quale ha collaborato Giuseppe Lippi con Il magico segreto di Shannara

DW - C'è una domanda che avresti voluto ti fosse stata fatta?

GL - Sì, quale penso che sia il valore della science fiction e del fantastico oggi, con l’inflazione del genere nei media. Risponderei che nelle sue varie accezioni, e quindi dalla fantasy alla sf, il fantastico non dovrebbe essere inteso come la norma, il surrogato in cui rifugiarci per scacciare la noia delle ore lavorative (guardate quello che è successo al cinema, con la progressiva banalizzazione delle sue tematiche), ma l’eccezione, la scelta consapevole di qualcosa che rompa l’uniformità dell’esperienza, soprattutto l’uniformità della fantasia consolatrice e accettata come stampella della vita vissuta. Negli anni, ho cercato di seguire questa impostazione sia attraverso le decisioni editoriali che attraverso i miei interventi scritti, nei quali ho tentato di delineare il senso di una dimensione alternativa al reale. E il senso è che, anche quando viene proiettata nei lontani spazi o nelle pieghe del tempo, è una dimensione che ci appartiene profondamente purché resti originale, un ricostituente della nostra libertà. Prediligendo il fantastico ci schieriamo in un campo dove il “nulla” (cioè l’inesistente) acquista un valore paradossale di speranza e sfida ai luoghi comuni. Il risultato può essere un mondo allargato, sensibile sopra il sensibile, le cui possibilità hanno il valore di nuove scoperte. Il peso schiacciante del qui e dell’ora può essere alleviato per far posto a una visione artistica. Ce lo fanno capire molto bene autori del calibro di Jack Finney, Jacques Spitz, John Crowley o Amanda Prantera, ma anche Joe Lansdale e Valerio Evangelisti, tutti pubblicati negli ultimi venticinque anni. Ho scritto abbondantemente su questi temi, con esiti vari: all’inizio della carriera soprattutto per motivi professionali, mentre poi è diventata un’esigenza personale. Questa, io credo, è stata un’evoluzione ulteriore.

Era questa la sua donna - o una forma di vita aliena? La prima edizione americana (Dell, 1955 - disegno di John McDermott) di uno dei capolavori di Jack Finney (1911 - 1995), L'invasione degli ultracorpi.

È perciò che consiglio ai miei lettori di non baloccarsi col fantastico: il rischio è di trovarsi arricchiti nell’immaginzione e impoveriti sotto tutti gli altri aspetti. Invece, è importante formarsi una base di conoscenze ampie, solide ed eterogenee prima di costruire il proprio angolo nell’immaginario. Amare il fantastico non significa sottovalutare la realtà, che nel mondo al di qua delle colline – come il banco del casinò – finisce per vincere sempre. Fantascienza e fantasia, dunque, come surplus e non negazione: altrimenti l’incertezza della precaria condizione terrestre potrebbe prendere il sopravvento sulla nostra vocazione. È evidente, no?


a cura di Francesco Manetti


N.B. Trovate i link agli altri colloqui con gli autori su Interviste & news!

7 commenti:

  1. Grande colpo, Francesco. Un altro tassello della tua invidiabile carriera di critico e curatore.

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  2. Che belli gli Urania! Davvero intramontabili!

    P.S. Ottimo lavoro, Francesco!

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    1. Imprescindibili: c'è cresciuto insieme Giuseppe e tutti noi!

      F.

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  3. Troppo belle le copertine anni 60-70-80! ^^

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